Ieri notte ho sentito delle forti grida dietro al muro
e poi un silenzio che mi ha gelato l'anima,
ho pregato che stessi sognando
quando ho visto l'ambulanza nella strada...
"Behind The Wall" è un desolato affresco di violenza domestica, di sobborghi malfamati e di polizia che arriva sempre troppo tardi, se arriva. Interamente cantato a cappella da una voce profonda, malinconica e androgina, è anche l'unico momento del debutto di
Tracy Chapman a non essere accompagnato dal calore acustico della sua chitarra e delle percussioni, quello in cui le radici gospel vengono prepotentemente a galla. In lei convivono il soul legato alla sua educazione battista e il blues ma anche il vivido
storytelling folk di
Dylan cui si appassiona sin dalla giovane età, una combinazione che la rende l'erede naturale di
Joan Armatrading, soltanto più essenziale e austera.
Le sue prime esibizioni in contesti studenteschi, durante gli anni universitari, faranno drizzare le orecchie a un suo collega, figlio di un noto discografico che la corteggerà a lungo prima di riuscire a farle firmare un contratto con l'Elektra Records nel 1987. Saranno però diversi i produttori che si rifiuteranno di lavorare con un'emergente così impegnata, poco malleabile e indirizzabile verso coordinate commerciali; passerà quasi un anno prima che un lungimirante David Kershenbaum ne intuirà finalmente le potenzialità, aiutandola a registrare un album il più possibile rispettoso della sobrietà della sua proposta.
Non potrebbe esserci momento migliore per suggellare tale esordio: i neon degli anni 80 si stanno affievolendo, il
reaganesimo sta giungendo al capolinea e il grande pubblico sembra più ricettivo ad accogliere espressioni musicali meno frivole e più impegnate politicamente, come dimostrano i recenti trionfi di
U2 e
Sting. E la Chapman frivola non riesce proprio a esserlo. Schiva, colta, non esattamente avvenente per i canoni
mainstream, la cantante di Cleveland ha sperimentato sulla sua pelle la discriminazione in una città che sin dagli anni 60 è stata lo scenario di una delle più cruente e lunghe rivolte razziali della storia americana, sfociata in una forte depressione economica. Chi meglio di lei potrebbe cantare delle barriere che dividono i neri dai bianchi, dei violenti scontri che uccidono diversi giovani e, con loro, il sogno a stelle e strisce?
Se i cangianti colori di "Across The Lines", forte di un fraseggio quasi etno-pop, appaiono meno cupi di quanto sarebbe lecito aspettarsi, l'interpretazione quasi ferisce per il piglio tagliente e delatorio. Il suo approccio è talmente schietto che in pochi mesi la neolaureata in antropologia verrà eletta come voce autorevole sui diritti umani e sulla lotta all'
apartheid, complici la partecipazione al
tour benefico Human Rights Now organizzato da Amnesty International e quella, ancora più celebre, al concerto evento per celebrare il settantesimo compleanno di Nelson Mandela.
L'ingiustizia descritta nelle sue canzoni appare talmente priva di risoluzioni che persino l'amore cui aggrapparsi disperatamente per tirare avanti è tutt'altro che consolatorio. Scevro di tenerezza e rispetto nell'agrodolce "Baby Can I Hold You", il cui smaccato romanticismo e quindi la fama raggiunta l'hanno via via spogliata dagli intenti originari, ma che nonostante tutto vale la pena proteggere a costo di finire in galera e pagare salate cauzioni, come raccontato nella sostenuta ballata country "For My Lover". È un amore che fa perdere il controllo, da bruciare immediatamente per la mancanza di prospettive future eppure irrinunciabile, quello che conclude l'album sulle note del delicato walzer di "If Not Now..." e con la spoglia, quasi sconsolata "For You", brani in cui la Chapman dimostra di conoscere alla perfezione la lezione intimista impartita da
Joni Mitchell.
La fuga da una realtà così aspra sembra essere l'unico modo per lasciarsi alle spalle tanta disperazione, ma soltanto se sognata a occhi aperti si traduce in un lieto fine e nei momenti più lievi dell'album. Se le reminiscenze sudamericane di "Mountains O' Things" (sulla cui falsariga
Ed Sheeran costruirà almeno tre dei suoi assillanti
hit) tracciano l'ideale cornice a un'utopica vita ricca di agi, le cadenze caraibiche dell'ancora più scanzonata "She's Got Her Ticket" rappresentano l'unico sprazzo di fioca speranza dell'intera narrazione. Perché quando la fuga diviene reale nella disillusa "Fast Car", scelta per lanciare l'album, tutti gli sforzi per ricostruirsi una vita più dignitosa, immortalata in un luminoso
refrain che si apre memorabile sulla cantilenante melodia, vengono distrutti da una miseria che come un segugio riacciuffa chi nasce con quello stigma sociale.
Con ben in mente le quotidiane contraddizioni politiche elencate nell'asciutto rock-blues di "Why?" (fin troppo ingenuo invero) non resta quindi che attendere una rivoluzione che prima o poi dovrà pur scatenarsi, anche se la consapevolezza per metterla in atto si trova ancora in uno stato embrionale, messa a dura prova da fame e disoccupazione. Ed è proprio il vibrante balbettio della trascinante "Talkin' Bout A Revolution" a inaugurare un lavoro i cui contenuti, dopo più di trent'anni e in pieno movimento Black Lives Matter, appaiono incredibilmente ancora attuali.
Il brutale spaccato sociale che la Chapman fotografa in poco più di mezz'ora potrebbe considerarsi la risposta
black a quello altrettanto crudo che
Springsteen immortalò anni prima per "
Nebraska", ma la pacatezza dell'esecuzione e l'innegabile attitudine pop di cui i suoi brani sono pregni l'hanno reso non soltanto un disco di culto ma anche un successo in grado di vendere col tempo venti milioni di copie. Inaspettatamente, considerate le tematiche trattate e il vestito sonoro così scarno, non esattamente la tipologia di r'n'b che si era abituati a vedere in cima alle classifiche mondiali di quegli anni.
Nel corso della sua lunga ma defilata carriera la Chapman non riuscirà più a ripetere con efficacia la messa a fuoco del suo debutto nonostante il suo attivismo e il
songwriting di livello rimarranno intatti (a testimoniarlo ottimi pezzi come "Crossroads", "Give Me One Reason" o "Telling Stories") e le collaborazioni si faranno prestigiose (
Neil Young,
Eric Clapton e B.B. King). Assieme all'inevitabile carenza di duttilità stilistica, si assisterà col tempo a un vago imborghesimento del suo
sound che si sostituirà a quell'essenzialità da
demotape che rendeva i suoi primi pezzi così urgenti e capaci di ravvivare l'intera scena folk americana, influenzando negli anni a venire stuoli di cantautrici intenzionate a raccontare le loro storie con la semplicità di una chitarra e una voce profonda.
04/04/2021