Figlia di artisti, Mirah Yom Tov Zeitlyn si trova quasi per forza su un palcoscenico, e, dopo un primo periodo in una jazz band, capisce che la musica che più la affascina è anche quella più semplice; così, con una sensualissima voce e accompagnandosi con una chitarra, inizia a farsi conoscere nell'ambiente, si autoproduce le canzoni fino a che irrompe nella sua vita Phil Elvrum che le offre l'opportunità di diventare la voce femminile dei Microphones. L'amicizia e la stima tra i due diventano anche un solidale rapporto di lavoro che vede Elvrum nei panni di produttore in tutte le uscite soliste di Mirah. In questo “C'mon Miracle” Mirah affina la sua arte cantautorale, ogni nota è studiata, nulla è fuori posto, l'ascolto è reso scorrevole non solo dalla grazia vocale, ma anche dalla varietà musicale contenuta nel disco. L'approccio alle canzoni s'inserisce nel filone cantautorale pop (lucide le liriche anche quando parla di un dramma come quello israelo-palestinese), passando da un tocco di Beatles a un assaggio di Simon & Garfunkel (“Don't Die In Me”), da un più tradizionale dream-pop (“The Light”) fino a un pop più incalzante, più punk (“Jerusalem”, che pare cantato da Gwen Stefani). “The Dogs Of B.A.” ha il sapore di musica latino-americana, mentre “We're Both Sorry” si colloca a metà tra le favole di Tori Amos e quelle di Bjork.
Un album va capito e per capire questo “C'mon Miracle” occorre soffermarsi sui due aspetti fondanti dello stesso: la produzione di Phil Elvrum e la schizofrenia dei brani. Da una parte, infatti, il cantautorato di Mirah si trova immerso in una bolla sonora creata da Elvrum, che ritaglia all'interno dei brani il proprio spazio dove poter lasciar la firma; la semplicità sonora propria di un'autrice lo-fi diventa quindi orchestrale in taluni brani con l'uso di archi, diventa oscura quando il rumore si erge a sfondo nero su cui dipingere. Dall'altra, una stessa canzone diventa il parto di un compromesso linguistico, diventa la descrizione del cambiamento, non della stasi, al punto che il cambio di umore all'interno di uno stesso brano fa passare “Don't Die In Me” da un pop alla Simon & Garfunkel a un “solo” strumentale e tribale a suon di percussioni avvolgenti, o “The Light” da una pop song velocizzata a un dream-pop alla Mazzy Star.
Queste sono le chiavi per capire il disco e questi sono i motivi per cui ci si riesce a innamorare anche di queste 11 canzoni che hanno il pregio della non banalità, della ricerca di linguaggi sonori diversi: con l'ultimo album, pare proprio che Mirah abbia messo le fondamenta per crearsi una carriera solista degna di quella da alter ego di Phil Elvrum. Un gioiellino da scoprire.
(12/12/2006)