Terza uscita solista per l'ex frontman dei Verve, e nulla di nuovo sotto il sole di questo già pessimo inizio 2006. Ashcroft insiste con il suo pop nostalgico e d'altronde gli umori retrò del cantante erano evidenti già in molti episodi dell'avventura dei Verve, ma una volta rimasto solo e senza più gli scontri e i compromessi con un compagno dalla forte personalità come il visionario chitarrista Nick McCabe, Ashcroft ha dato libero sfogo alle sue ambizioni di nuovo (?) Van Morrison, ma i risultati artistici dei suoi dischi solisti non hanno mai entusiasmato.
Certo, Richard di classe ne ha da vendere ed è fuori di dubbio la sua capacità di scrivere canzoni formalmente impeccabili e (quasi) mai noiose con estrema naturalezza, ma ancora non è riuscito a mettere insieme un album capace di spiccare davvero il volo e diventare qualcosa di più di un dignitoso, ma prescindibile, prodotto di rapido consumo. E non c'è riuscito nemmeno stavolta, con questa nuova raccolta di ballate dal forte accento soul, nelle quali gli anni Novanta e il britpop (in senso buono), che i Verve segnarono con insuperata classe, sono soltanto un vago ricordo, nonostante in apertura ci accolga la frizzante e trascinante elettricità di "Why Not Nothing", di gran lunga la miglior canzone dell'album.
Peccato che Richard inciampi subito in un brano nato già vecchio come "Music Is Power" (e già il titolo…), una minestrina riscaldata stile Motown da dimenticare in fretta. E le sorti dell'album non vengono risollevate dallo scialbo singolo "Break the Night with Colour" e dalle obbligatorie ballatone, come "Words Just Get In The Way" e l'ancor più melensa "Why Do Lovers". Tutti brani privi di mordente, salvati soltanto da arrangiamenti particolarmente curati e raffinati (anche troppo nella zuccherosa "Sweet Brother Malcolm"), e dalle sempre più convincenti doti canore di Ashcroft.
Ma la sua scrittura difetta, e non poco, di personalità nei momenti che si vorrebbero più intensi, come "Cry Til The Morning", brano che rispolvera il fantasma dei Verve nei loro momenti però meno originali. Alla fine c'è "A Simple Song" in cui finalmente Ashcroft riesce a mettere a fuoco lo stile a cui ambisce, trovando il giusto equilibrio tra i suoi modelli di riferimento e i venti o trent'anni di musica che sono venuti dopo, mentre la title track indovina l'atmosfera più affascinante e la giusta tensione drammatica, senza avvicinarsi tuttavia nemmeno minimamente al suo capolavoro "Check The Meaning" (dal precedente album "Human Conditions").
Ma è significativo come sia la conclusiva "World Keeps Turning", che è la canzone più radiofonica e prevedibile, a essere anche la più felice e l'unica che insieme a "Why Not Nothing" riesca a sopravvivere, almeno un po', nella memoria. Significativo di come questo sia finora il disco più debole della carriera solista dell'ex-Verve, come se alla prova del terzo album e con alle spalle il suo lavoro migliore, il nostro si sia ritrovato indeciso se darsi una bella ridimensionata o portare ancora più in alto le sue ambizioni. Ma purtroppo qui ci sono solo poche e vaghe idee, bellissimi arrangiamenti, tante belle parole e niente più di due o tre canzoni da conservare, e nemmeno con troppa cura.
Ossessionato da un'idea di classicità che purtroppo in questo caso fa rima soltanto con sterile inattualità, Ashcroft non riesce a costruirsi una personalità forte che gli permetta di stare al passo non solo coi tempi, ma anche col suo passato. È evidente come Richard sia sinceramente entusiasta di suonare la musica che più gli piace, e per come lo fa si merita ancora rispetto, ma è meglio che corra in soffitta a recuperare il suo talento prima che si accumuli troppa polvere anche su di lui.
17/12/2006