Qualora i numerosi precedenti non avessero reso con adeguata chiarezza l'idea, “Castlemania” irrompe come prepotente dimostrazione che i Thee Oh Sees sono quanto di più distante in ambito rock alternativo dai concetti di allineamento e staticità.
Se nei primi lavori la band californiana si era fatta apprezzare per un suo stile peculiare e riconoscibile (l'incontro degli spigoli in bassa fedeltà delle chitarre con gli irresistibili ghirigori retrò portati in dote da Brigid Dawson), per poi approdare in dischi come “Help” a una formula di ragionevole compromesso e accentuata accessibilità, questo nuovo album sceglie di privilegiare la passione genuina ed incontrollata di Dwyer sacrificando tutte le altre variabili. Non è un caso. Come già in “Dog Poison” e, più tardi, in “Putrifiers II”, il vulcanico frontman cura in via esclusiva ogni dettaglio del disco, canta e suona praticamente ogni strumento (chitarre, basso, batteria, percussioni, tastiere, mellotron, synth, tromba, clarinetto, flauti e armonica) mentre resta invece marginale il contributo degli altri membri della band, con un paio di brani affidati alla voce della Dawson e poco o niente per i titolari Mike Shoun e Petey Dammit. Se come matrice si conferma il noise-pop leggerino già abbozzato a più riprese nel precedente “Warm Slime”, lo spirito è piuttosto quello da battaglia esibito in episodi meno accomodanti come “Zork's Tape Bruise” o il già citato “Dog Poison”. In comune con questi lavori si manifesta la tendenza, qui accentuata, ad incrociare stilemi surf-canzonettari e sonorità garage deteriorate innescando senza posa cortocircuiti kitsch a dir poco stranianti (“Pleasure Blimps”, “Whipping Continues”).
Proprio nei passaggi in cui l'easy-listening è assunto come pretesto poi puntualmente sconvolto dall'approssimazione e dal grottesco, dove le melodie sixties sono dirottate verso il più acido degli incubi (“Idea For Rubber Dog”) o compromesse da sporcature e inserti volutamente disturbanti, dove anche i depistaggi country-blues sono tradotti in neri esorcismi (“AA Warm Breeze”), va ricercato il piacere di una proposta tanto anomala, naïf e in fondo realmente spensierata. Sunshine Pop Album lo definisce con mirabile ironia la nota stampa, trascurando di rilevare come Dwyer sia da sempre un maestro nello svilire e nell'adulterare il nocciolo pop di ogni propria canzone. Per quanto le sonorità acustiche siano per una volta prevalenti, a lasciare un'impronta indelebile in “Castlemania” è il loro dirompente infrangersi sulla rutilante e sporchissima scogliera elettrica. L'incontro assume i contorni di una festa gioiosamente isterica, frastornante nella sua sistematica sconfessione di ogni riguardo espressivo, ed è plausibile che dietro scorci senza filtri come questi roboanti fracassi da due minuti e via abbia preso forma proprio il disco che Dwyer aveva in mente da un sacco di tempo: un album sfarfallante e felicemente rancido, infarcito di sinistre filastrocche affogate in un clima di generale sadismo sonoro e contaminate da un gusto a suo modo inquietante ed infantile (esemplare in tal senso “Corprophagist”).
Non mancano perle più limpide come l'eccentrica “Corrupted Coffin”, funerea popsong con melodia floreale imbastita dall'organo ed esaltata da flauti e tromba, anche se la palma del pezzo più rappresentativo spetta per forza al brano malatissimo che presta il titolo alla raccolta, fotografia sovraesposta dei Thee Oh Sees fieramente caotici del 2011. Soltanto sul finale la devianza è in parte riassorbita, con un terzetto di cover (da misconosciuti artisti di fine anni '60: Norma Tanega, West Coast Pop Experimental Band e gli olandesi Big Wheel) rese più accessibili ora dal contributo vocale di Brigid, ora da una preziosa velatura psichedelica stile “Magical Mystery Tour” (“If I Stay Too Long”, il passaggio più beatlesiano del disco).
Ospitata per Ty Segall, concittadino, discepolo e spirito affine.
22/03/2014