Le magnifiche sorti accennate nel 7” "Troubled Town" e nel Cd-r "Lighting Bolt" (il primo su Jake Bugg Records Ltd, il secondo già su Mercury - entrambi del 2012) trovano finalmente compimento nel vero e proprio debutto di questo menestrello apolide nella sostanza e tanto promiscuo quanto fatato nella voce.
Ambiguo, perché Jake dimostra essere un inglese ramingo, amante dell'America di Bob Dylan ("Lightning Bolt", singolo assai ingannevole) e Paul Simon ("Simple As This") almeno quanto i Kula Shaker un tempo lo furono per quella dei Greateful Dead. Altresì, si dimostra incantevole nel suo saper reinterpretare questo amore nell'ottica surrealista di quelli che supponiamo essere stati i suoi ascolti da adolescente inglese: il mito dei Verve e dei Suede, l'hype iperbolico degli Arctic Monkeys e di Eugene McGuinness, e magari persino qualcosa dei marginali The Enemy.
Già, perché Bugg è nato nel 1994 ma se Andrea Appino quando aveva vent'anni aveva sonno, Jake a diciotto sembra bello sveglio, e tutt'altro che stronzo. Giocando con la sei corde, con le armonizzazioni vocali e le progressioni più spiazzanti, l'ispirato cantore in erba riesce a dare una realistica idea di dove sarebbe potuta andare a parare un'ipotetica carriera di Richard Ashcroft se, al posto delle sinfonie agrodolci, avesse preferito "Subterranean Homesick Blues" ("Trouble Town", ma anche lo stesso ritornello di "Lighting Bolt").
Fisicamente, secondo molti Jake sembra somigliare sempre di più a Miles Kane, il leader dei Rascals e partner in crime di Alex Turner nei Last Shadow Puppets. Secondo altri, ricorderebbe persino Justin Bieber, per via di quei suoi lineamenti fanciulleschi, ancora più evidenziati dalla totale assenza di barba. Che, peraltro, nulla incidono sulla qualità della sua voce, a tratti vibrante come quella di Brett Anderson dopo una notte di gargarismi col Cointreau ("Two Fingers").
E questa è la prima cosa che si nota all'ascolto del loner di Nottingham. In seconda istanza, ci accorgiamo di quanto partire prevenuti nei confronti di questo disco sia uno snobismo loffio che non ci sentiamo di appoggiare; perché se c'è ancora qualcuno che ha il coraggio e le capacità per scrivere canzoni di cui innamorarsi al primo ascolto ("Someone Told Me"), ne conviene più gioire che morire d'invidia. Significa, parafrasando, ritrovare l'inquieto talento di un giovane Elvis Costello, attratto in maniera uguale dai suoni ruvidi del punk a lui contemporaneo e della migliore tradizione melodica del rock inglese. In questo affascinante “ritorno al futuro”, Jake cambia solo il nome alle sue influenze, ma il fascino del risultato sembra proprio restare immutato.
Di sicuro, il suo sarà il prossimo bestseller da primato prima di Natale, e non ci stupiremmo se note testate musicali di serie C lo pompassero per rifarsi di una verginità ormai persa, ma non per questo ci sentiamo in diritto di parlarne male. Nuova vampata già bruciante di folk-rock britannico, ennesima variatio pronta a superare i versanti Kinks/Blur, Beatles/Oasis, Morrissey/Turner e tutti quanti gli altri, Bugg riesce a miscelare una scrittura classica senza essere banale.
La verve è scintillante e l’energia comunicativa lampante. Sia che si corra a tutta velocità ("Taste It") sia che si ammorbidisca a suon di midtempo ("Seen It All, Note To Self"), ballate sepolcrali ("Broken, Ballad Of Mr. Jones") o di piccoli haiku ("Country Song", "Fire"). E se l'indole magari può apparire anche un po' ruffiana, diciamolo candidamente, a diciotto anni glielo concediamo senza particolari sforzi.
28/10/2012