Ripieghiamo dunque i fazzoletti nel taschino, perché Bowie ci invita sulle strade delle sue nuove visioni, per un viaggio di inaspettata freschezza, in cui l’autocitazione non è la meta ma il mezzo per procedere spedito sulle ali di una rinnovata creatività. Non accadeva da troppo tempo, almeno per la durata di un intero disco, e nemmeno lo si poteva ragionevolmente immaginare, invece è successo. E’ successo che David Bowie ha radunato i partner che lo hanno seguito negli anni precedenti la sua sparizione, Tony Visconti in primis, li ha messi in sala d’incisione e, nel riserbo più assoluto, ha sfoderato un piglio che non gli si riconosceva dai tempi dell’accoppiata elettronica “Outside”- “Earthling”. Da “Hours” a seguire, abbiamo assistito a un riavvicinamento a stilemi rock che, a vario titolo, presentavano più di una carenza; certo, fatta eccezione per il pessimo “Reality”, non sono mancati i colpi di classe, ma la continuità sembrava per sempre smarrita: “The Next Day” recupera a mo' di compendio le tante stagioni passate, le scompone e ricompone, rimodellandole a nuovo.
Il rock’n’Bowie viene fuori sin dall’inizio con la title track, che rispolvera tanto per gradire la sezione ritmica di “Lodger”, il crooning di “Beauty And The Beast” da “Heroes”, e le chitarre frippiane di “It’s No Game” da “Scary Monsters” per cancellare, in poco più di tre minuti, anni di silenzi, indecisioni, ma pure quella sensazione da gloriosi titoli di coda suscitata da “Where Are We Now?”. E così, mentre “Dirty Boys” rispolvera i sax malati della Berlino decadente per un fugace omaggio al sodalizio con Iggy Pop, il secondo singolo “The Stars (Are Out Tonight)” si posiziona verso frequenze epiche, appena smezzate da un’escursione fugace del brigde dalle parti dei Roxy Music di “If There Is Something?” (guarda caso già coverizzata ai tempi dei Tin Machine).
Con "Valentine’s Day”, Bowie si fa pop e recupera in modo convinto il suo pathos più malinconico, e poi con “If You Can See Me” fa capolino – sempre in chiave rock - fra le pulsioni drum’n bass che furono di “Earthling”, mentre in “I’d Rather Be High” diventa così affilato da lambire la psichedelia robotica immortalata da John Foxx nel suo purtroppo semi-ignorato “The Golden Section”. “Dancing Out In Space” gioca sui ritmi pari sciorinando chitarra e ritornello di quelli che restano sin dal primo ascolto, mentre “How Does The Grass Grow” gioca direttamente con l’ascoltatore, proponendo – bizzarramente travestiti – un incipit alla “Boys Keep Swinging”, gli accordi di “V-2 Schneider” e, udite, il ritornello di “Apache”, lo storico strumentale sixties degli Shadows (ma lasciateci citare anche l’epica cover di Rockets, dal loro album d’esordio). Sempre a proposito di anni 60, eccoci a “You Feel So Lonely You Could Die” che potrebbe far parte del repertorio di uno Scott Walker d’annata (ma la citazione finale è alla batteria della sua “Five Years”), anticipata dal metallo lavorato di “(You Will) Set the World On Fire” - il pezzo che non è mai riuscito a scrivere per i Tin Machine - e seguita dall’esplicito tributo allo Scott Walker più recente e sperimentale di “Climate Of Hunter”, con “Heat”, a chiudere l’effervescente girandola di “remakes & remodels” di questo disco.
Quando si dice un gran bel ritorno.
(10/03/2013)