Torniamo, dunque, a occuparci della ramificata saga degli Odd Future che, agli sgoccioli dell’estate, si arricchisce di un nuovo stimolante capitolo. Stimolante e forse fondamentale per le sorti e lo sviluppo dello scenario hip-hop borderline del collettivo, ormai provvisto di solidi agganci mainstream. Un motivo d’interesse in più è costituito indubbiamente dal personaggio: Earl Sweatshirt, folletto inquietante per personalità e precocità (classe 1994, aveva appena 14 anni ai tempi delle prime uscite firmate OF), uno dei ceffi più estremi e ineffabili in un consesso di ceffi genialoidi e caricaturali degni del più grottesco fumetto americano underground. Figlio di un poeta e attivista politico sudafricano e di una docente di diritto, reduce da un soggiorno di quasi due anni in una scuola di rieducazione per ragazzi difficili dove, ancora minorenne, era stato spedito da quest’ultima in ricovero coatto, fuori e dentro dal gruppo neanche fosse "Jack Frusciante", già più famoso di tutti i suoi colleghi di crew (fatta eccezione per Tyler e Frank Ocean) e delle sue stesse canzoni (un solo mixtape “Earl” del 2010 e una manciata di partecipazioni) grazie alle folgoranti e demenziali apparizioni in video e dal vivo (o sui social network), oltre che per il lirismo sgangherato e ridanciano del suo rap. Insomma, un crack annunciato a cui finora è mancato soltanto di trovare il tempo e la concentrazione per registrare (e produrre) un vero album interamente costruito intorno a lui, alle sue doti e al suo personaggio, appunto.
In buona parte realizzato dallo stesso Earl - che nei panni del beat maker indossa lo pseudonimo randomblackdude - avvalendosi dei compari di “Wolf Gang” Tyler, The Creator, Matt Martians e Frank Ocean, oltre che dei contributi prestigiosi di gente come i Neptunes, RZA e i sempre più contesi BADBADNOTGOOD, “Doris” è un esordio ambizioso e decisamente riuscito che si distacca, entro certi limiti, dal gotico chiaroscurale di Tyler & C per offrirsi a un cromatismo psichedelico, insieme morbido e morboso, corredato da una grande cura nella qualità dei suoni e nell’assemblaggio di campionamenti spiazzanti e originali. In questo senso “Centurion” può essere considerato il brano manifesto della nuova estetica musicale “earliana”, oltre che uno dei più raffinati brani hip-hop ascoltati quest’anno: uno splendido arazzo “sampleristico” che, fra avant-rap e psichedelia, mescola “Soup” dei Can e “A Divine Image” del jazzista David Axelrod (uno dei padri della fusion, oltre che di certo hip-hop jazz-oriented tipo De La Soul) in una cornice da colonna sonora horror. Sulla stessa linea anche “Guild”, jazzy e minimalista, drogata e rallentata, che spinge al limite la sottrazione espressiva, mentre in “Knight” Earl (coadiuvato dal talentuoso duo Christian Rich, già con Lupe Fiasco e N.E.R.D) è abile nel velare di una foschia oppiacea un vellutato coretto soul di sottofondo.
Ai brani già citati si possono aggiungere, per l’ottimo livello di scrittura e le affinità nei rimandi, anche l’arioso 70's soul intarsiato di synth elaborato dai Neptunes per la più “intimista” (nel senso svirgolato ed “earliano” del termine) “Burgundy”, il liquido groove madido di wah di “Sunday” (scritta e rappata con Ocean), il giro di tastiere spezzato e i battiti di rullante in controtempo dell’antiritmica “Chum” che dà spazio ad una coda strumentale, per tromba e tastiere, eseguita da Chad Hugo.
Altrove Earl gioca sul sicuro ricollegandosi alla matrice sonica di più stretta appartenenza OF: le cupe quinte di basso e la ritmica frammentaria di Matt Martians per l’ottima “Hive”, il mellotron penetrante e l'andatura pesante scelta da Tyler per “Whoa”, i pattern spigolosi e sgranati di “Pre”, in apertura. E se “Sasquatch” e “Molasses”, rispettivamente di Tyler, The Creator e RZA, sono due pezzi un po’ a se stanti, in cui i due ospiti fanno la loro cosa rubando un po’ la scena al padrone di casa, “Hoarse” esalta la base strumentale cinematica e limacciosa dei BADBADNOTGOOD (basso e batteria angolari e chitarra che arpeggia solo nel chorus), mentre “20 Wave Caps” lascia traspirare un’armonia orientaleggiante e riverberata.
L’impressione finale è che, nella ricchezza di spunti di “Doris” e negli ampi margini miglioramento che in esso s'intravedono, si vada perentoriamente affermando un protagonista destinato a lasciare un segno profondo e originale nell’hip-hop del prossimo decennio.
29/08/2013