I was a teenage werewolf, come nella più classica e granguignolesca iconografia dei comics americani. Con questo suo terzo lavoro solista Tyler The Creator, enfant prodige dell’hip-hop degli anni dieci e mente perversa e geniale alla base del collettivo Odd Future, sceglie di mostrarci dall’interno della sua psiche bipolare (come più volte egli stesso s’è definito o, meglio, vantato di essere) la metamorfosi che lo ha trasformato nel lupo cattivo dei suoi incubi (o sogni bagnati) adolescenziali. Lupo adolescente non tanto, o non solo, perché capobranco dell’ormai celeberrima Wolf Gang, ma soprattutto ombra nera e antropomorfa, figura chiave nella fiaba snuff e junghiana di cui si nutre il suo macabro e goliardico immaginario hip-hop.
Il lupo dalla voce greve e baritonale che ha assalito e fagocitato il bambino allampanato, cresciuto senza aver mai conosciuto suo padre, mentre sfrecciava in bicicletta - misto di “ET” e “Cappuccetto Rosso”- per i boschi notturni e intossicati dei quartieri a sud di Los Angeles. Nonostante tutto, però, quel bambino è ancora vivo e cosciente, nascosto da qualche parte nella pancia del lupo, tanto che i loro punti di vista, si confondono in un continuo andirivieni tra passato e presente, reale ed allucinatorio, freak show sguaiato e impercettibili, acuminate schegge d’introspezione. Su queste premesse e all’interno di un surreale triangolo amoroso fra Sam (ingenuo alter-ego di Tyler), Salem (la donna dei suoi sogni) e Tyler il Lupo, si sviluppa lo sgangherato concept narrativo di “Wolf”, dove il Tyler solitario e disadattato di prima di “Bastard” si sovrappone in flashback perturbanti e intermittenti al Tyler di oggi, ricco e compiaciuto del proprio successo, ma per molti versi ancora più solo e alienato da sé. Con i dovuti distinguo, un po’ il suo “The Marshall Mathers Lp”.
Così, quasi in ossequio alla dicotomia e allo sdoppiamento di personalità che caratterizza slo sviluppo dell'album, ad una parziale maturazione di Tyler come rapper e autore di liriche, fa riscontro una ancor più evidente sul piano musicale e della produzione. Se il primo infatti aggiunge un sottotesto flebilmente più strutturato al solito storytelling osceno, gratuito e autoreferenziale, il secondo ribadisce la sua netta superiorità nella fase di scrittura, pilotando con maestria brani dall’andamento più vario e complesso, featuring di grande rilievo e lontani dalla sua cerchia abituale (su tutti: Laetitia Sadier ed Erykah Badu), suoni fluenti, ipnotici e ricercati e un repertorio che diluisce l’hardcore giovanile in un panorama che va dal soul atmosferico ed espanso degli anni 70, al neo-jazz dei BADBADNOTGOOD. Questi ultimi, per ammissione dell’autore stesso, hanno avuto un’influenza decisiva (per quanto indiretta) sulla composizione del nuovo album. Ad una visione d’insieme, l’album perde probabilmente qualcosa in impatto e immediatezza, specialmente rispetto agli esordi, ma arricchisce l’abituale monocromia dell’impianto con sfumature e modulazioni inedite e una cura dei dettagli che rivela i suoi pregi ascolto dopo ascolto.
Una connotazione già evidente nella title track, in apertura, che cita (e storpia) elegantemente un classico tormentone pop (“You Are So Beautiful”, vecchio successo di Joe Cocker) e che trova compimento in piccole suite come “Slater/ Escape-ism”, con una prima parte cupamente oldschool e una seconda smooth blandita dalla voce di Frank Ocean e “Colussus/ The Bridge Of Love”, sottofondo soffuso e quasi bacharachiano; due brani che preludono a quel piccolo capolavoro che è la più elaborata e tripartita “Partyisntover/ Campfire/ Bimmer”, in cui un lounge-soul raffinato si accompagna ad una ritmica sgranata quasi trip-hop e la voce della Sadier si alterna ad un inquietante coro infantile da boy-scout.
Su coordinate simili “Awkward”, fra mellotron e synth languidi e drogati, trasuda tutto il romanticismo sboccato di cui può essere capace uno come Tyler, mentre “Answer” avvolge in una sorta di spettrale quiet storm una lettera aperta (meglio: di telefonata che non riceverà mai risposta) al padre che non ha mai conosciuto, invettiva che richiama alla mente, per la metrica discorsiva e i temi familiari, l’Eminem di brani come “’97 Bonnie & Clyde” o “Kim”. E c’è spazio anche per un brano quasi tenero, sebbene pieno di doppi sensi, nel suo duetto amoroso, “Treehome95”, ingioiellato dal neo-soul e dalla voce inconfondibile della Badu, prima che con “Cowboy”, jazzy e antiritmica, e “Parking Lot” il Lupo torni a digrignare i denti minacciosamente. Manco a dirlo: l’altro lato del Tyler che ben conosciamo, quello che piace ai fan della prima ora e ai ragazzini che ne hanno decretato il successo, si snocciola in brani aggressivi e diretti come la frastagliata “Jamba”, l’horrorcore più spinto (e manierato) di “Pigs” e “Trashwang”, i break-beat filiformi di “Domo 23” e la blaxploitation sporca e rugginosa (appunto) di “Rusty”.
10/04/2013