Il 2014 è iniziato da nemmeno un mese e porta già sulla sua lista la firma di Steve Roach. L'instancabile vate dell'ambient music si presenta, esattamente come avvenuto l'anno scorso, con un progetto collaborativo ad arricchire il catalogo della fida Projekt: ad affiancarlo in questa sua nuova opera è Kelly David, musicista con base in Colorado che ha seguito da vicinissimo l'evolversi della scena californiana, senza mai riuscire però ad emergere al pari dei suoi contemporanei.
Amici di lunga data, i due hanno deciso di unire le proprie anime artistiche dopo anni di progetti e idee, fino ad oggi sempre puntualmente rimandati a date da destinarsi e mai effettivamente concretizzatisi.
A conseguirne è dunque “The Long Night”, un'opera che torna a vertere come prevedibile sull'espressione più classica dell'ambient del maestro di La Mesa, ma in grado all'interno di essa di cercare e trovare punti di contatto con alcuni degli universi confinanti. Capita così che a solcare un reticolo fisso di droni oscuri tanto da lambire in alcune occasioni il puro dark-ambient vi siano a turno le pulsioni viscerali coniate al fianco di Byron Metcalf, sfumature di sinewaves e i più classici flussi astrali divenuti ormai marchio di fabbrica della sua miscela. Una contaminazione già propria di gran parte delle ultime opere dell'artista, impegnato da qualche anno a questa parte in una conciliazione fra la moltitudine delle sue anime sonore.
Il risultato è un magniloquente inno alla notte, esplorata in tutte le sue facce e da punti di osservazione situati in luoghi e ambienti diversi, dalla foresta artica riprodotta in copertina a boschi tropicali, passando per distese desertiche e vaste praterie. Anche il cielo stesso viene dipinto con volti diversi: scuro e privo di qualsiasi luce nell'avvolgente “Last Light”, solcato da nuvole alte e fitte nella prima metà di “Calm World”, pronte poi a dissiparsi rapidamente nella seconda per lasciare spazio a estese costellazioni. Nei battiti sotterranei di “The Deep Hours” queste sembrano prendere vita e dare il via a una sorta di danza primordiale, per poi fermarsi di colpo e lasciare spazio al passaggio simultaneo di più comete nel conclusivo quarto d'ora della title track.
L'abilità con cui questi mostri sacri da tre dischi di inediti all'anno (Roach) o dal tardivo quanto meritato arrivo nell'Olimpo (David) si dimostrino in grado di musicare immagini e suggestioni è dato tutt'altro che sorprendente. Ciò che continua a stupire ancor oggi è la capacità di rendere tutto questo per mezzo di un linguaggio talmente inconfondibile e personale da aver trovato nella variazione sul tema l'unica possibile via di sviluppo.
Evoluzione che nonostante questo continua a non mancare, a presentarsi ciclicamente, sebbene sotto forma di un processo graduale, imperniato più su cambi atmosferici e combinazioni stilistiche che su autentici sviluppi sonori. Una musica che trova nel legame dialogico con l'ambiente una fonte di linfa vitale che sembra sempre più lontana dal potersi esaurire.
22/01/2014