Nei settanta minuti di questa lunga immersione, Roach mette in scena il soundscape più inquieto degli ultimi dieci anni della sua carriera: nemmeno "Possible Planet" e "Dynamic Stillness" si erano spinti tanto in profondità nell'evocare l'instabilità, nell'indagare il dark side delle visioni del maestro californiano. Qui si arriva addirittura a sfiorare il contatto con certe deviazioni post-industriali, in una contemplazione che si sofferma sui dettagli più sinistri e angosciosi dell'oscurità: quelli, appunto, legati al venir meno della vista.
Così le usuali nebulose immersive, in grado di guidare negli angoli più remoti dell'immaginazione e di evocare gli scenari più vari e lontani nel tempo, si trasformano qui in strumenti funzionali a sensazioni nuove: il timore e l'inquietudine. Il silenzio riconquista un ruolo preponderante e a decadere è anche l'usuale continuità del flusso, qui spezzato da vagiti concreti, rumori distanti e irriconoscibili. Quasi fosse il luogo prediletto e inconscio di tutte quelle impurità solitamente filtrate per favorire l'evoluzione della purezza.
Operazione indubbiamente necessaria, minoritaria solo finché confinata all'omaggio per pochi, "Invisible" è l'affermazione ultima di un artista incapace di esaurire gli stimoli, ancora in grado di edificare cattedrali sonore su semplici e intime associazioni di idee o immagini. Elaborato negli ultimi giorni di un anno buio e piovoso, semplicemente osservando i contrasti di luce e la sostanziale parità emotiva tra giorno e notte, è una fuga, un'evasione dalle magnifiche evocazioni della sua musica verso un luogo dove l'occhio abdica.
(11/03/2015)