L'idea dell'avanzamento come progresso sembra perseguitare molto di più gli addetti alla critica che i musicisti stessi. Ancor più assurdo richiederlo a chi ha dato sempre il massimo, accettando sfide espressive decisamente insidiose o più semplicemente cercando una seppur minima forma di ordine, una provvisoria compiutezza a partire dal caos dell'improvvisazione libera.
Chi ricomincia sempre dalla carta bianca non ha nulla da dimostrare, perché ogni volta diventa altro: in questo senso Supersilent è un eterno esordiente, sempre in partenza e mai in arrivo, e i numeri progressivi dei loro tredici album sembrano equivalere a livelli di difficoltà crescente, a un'asticella che deve necessariamente alzarsi per mettere alla prova i performer (che puntualmente la superano) ma soprattutto chi ascolta, spiazzato e provocato con soluzioni né ovvie né "facili".
Gli ultimi dispacci poi, se possibile, si sono fatti ancor più imperscrutabili nel loro sviluppo interno – che pure sopravvive, nonostante l'apparente informalità dell'insieme – ogni brano sembra disconfermare il precedente di modo che non ci sia permesso fare un bilancio ponderato (pratica piuttosto futile nel caso di insiemi del tutto distinti dal classico “album”).
Nel loro attuale e persistente assetto in trio, gli impavidi avanguardisti hanno appena firmato un nuovo contratto con la Smalltown Supersound, interrompendo la lunga sequenza storicamente custodita da Rune Grammofon e che con essa simboleggiava, in un certo senso, l’identità stessa della onorevole label norvegese.
Dal 2009 (“9”) a oggi l’unico tratto di continuità nell’operato di Arve Henriksen, Helge Sten e Ståle Storløkken è lo stradominio di sintetizzatori e live electronics, che con il celebrato “6” hanno introdotto un sound alieno in sessioni che ancora potevano afferire all’avant-jazz, per quanto eterodosso.
L’ultima metamorfosi, le cui registrazioni sono quasi tutte datate alla fine del 2014, sembra voler dare voce al maggior numero possibile di approcci espressivi: alle volte esercitando un controllo che rasenta lo zen, una lenta accumulazione pochi minuti prima del furore rumorista sguinzagliato al quinto blocco, dove dal nulla si manifesta una sorta di organo bachiano in preda a convulsioni grottesche (un nuovo acme eminentemente Supersilent).
Non esiste alcun divario nella coesistenza forzata tra “pieno” e “vuoto”: a mo’ di interpunzione, l’innaturale freddezza di alcuni condotti senz’aria lega tra loro i take più impetuosi – tra synth schizoidi e beat spezzati alla Autechre – vagando per lande deserte di memoria sci-fi che si inaspriscono con intensità crescente (2, 4) sino alla voragine digitale della settima sequenza, possibile riesumazione degli incubi ricorrenti di Trent Reznor; alfine si fa strada, tra clangori post-industriali, la tromba solitaria di Henriksen, al confronto forse l’unica nota di sentimento in un variegato pot-pourri di gesti inconsulti e ostinata inazione.
Qui abbiamo in mano l’ennesimo lascito di un’entità votata alla perpetuazione di un punto interrogativo sulla materia musicale: se qualcuno, di rimando, ancora si chiede "cosa sta succedendo?" e "cosa significa?", per lui il gioco è già finito da un pezzo.
18/10/2016