"Capacity", come "abilità", ma anche come "capienza". Probabilmente quella dello spazio della memoria, che il sophomore dei Big Thief esplora nelle sue possibilità di ritenzione e nel suo restituire narrazioni frammentate, chissà quanto attendibili o alterate dallo scorrere del tempo.
Chiamati alla prova della maturità dopo il promettente, seppur acerbo "Masterpiece", al secondo vagito i quattro di Brooklyn riescono nel tentativo di inserirsi con discreta personalità in una tradizione di storyteller americani che sfruttano l’arma del racconto individuale per abbracciare un’esperienza universale.
Il percorso proposto dall’album qui presente è infatti quello di una raccolta di fotografie dai toni sbiaditi, in cui si annidano inquietudini mai completamente represse, brevi vicende di un’infanzia e un’adolescenza su cui gravano le ombre dei primi incontri con la morte e di storie d’amore transitorie. Che si tratti di episodi di vita della cantante, Adrianne Lenker, o di semplici invenzioni narrative non ci è dato sapere, nonostante la bella immagine di copertina, ritraente la stessa Lenker adagiata in tenera età tra le braccia di un giovanissimo zio, somigli a qualcosa di più che un indizio.
Ciò che invece risulta limpido sin dai primi ascolti è la capacità di questi ragazzi di servirsi con coscienza di espedienti classicamente alt-country per rinvigorirli con geometrie ritmiche essenziali e misurati rumorismi chitarristici, il tutto con estremo nitore, come se ogni base strumentale non fosse altro che una pagina bianca su cui la Lenker può tessere il proprio racconto.
È questo ciò che accade in "Shark Smile", effettiva entrata in scena della band dopo la delicata preghiera per voce e acustica in apertura: una tirata da levelland che guarda agli Wilco attraverso la lente di Joni Mitchell, all’occorrenza travolta da lampi improvvisi che acuiscono il retrogusto dolceamaro e il fascino misterioso di esperienze rivissute a posteriori ("She was a shark smile in a yellow van/ She came around and I stole a glance/ In my youth, a vampire/ Evelyn shown quiet as roses sting/ It came over me at a bad time/ But who wouldn't ride on a moonlight line?/ I had her in my eye, 85 down the road of a dead end gleam/ And she said woo Baby, take me").
Nomi propri di persone e precisi riferimenti geografici costituiscono le accensioni momentanee di una narrazione che procede per accenni, che colma per immagini simboliche ciò che è stato stinto dal tempo o che non può essere apertamente esplicitato. Ecco allora che le sorti di ogni composizione, complice anche l’assenza di hook strumentali, sono tutte appannaggio della voce narrante, delicata e imperturbabile come una Hope Sandoval, placidamente rassegnata anche quando il mondo sembra grandinarle addosso (la title track, ma anche "Watering", uno degli episodi più affini all’indie-rock tout court).
I veri highlight giungono però sui passaggi più sofferti, ad esempio "Coma", che si presenta su un claudicante intro cantato con un filo di voce, à-la Lisa Germano, per poi schiudersi dolcemente su un refrain corale da applausi. Oppure il singolo "Mythological Beauty", giocato sulla reiterazione di figure melodiche e ritmiche per tratteggiare luoghi della memoria che sanno al contempo di culla e di gabbia. E non è da meno "Haley", squisito gioiello alt-country accarezzato da un’ombra di violoncello, mirabile anche nella preparazione a un ritornello difficile da dimenticare.
Più in generale, colpisce la maturità con cui i quattro operano di sottrazione, facendo sì tesoro di quanto appreso come allievi al Berklee College of Music, ma per annullare qualsivoglia dimostrazione di tecnica e scavare nell’essenza delle proprie canzoni. Vengono così servite undici tracce limate all’osso, in cui ogni componente appare pressoché invisibile, tanta è la discrezione con cui agisce per lasciare campo libero alla pioggia d’immagini che inonda l’apparato testuale (a volte al limite della verbosità, come nella pianistica "Mary") e di cui la stessa voce della Lenker non è che una funzione.
Certo, così facendo si rischia anche di oltrepassare la soglia dell’inconsistenza (la radioheadiana "Great White Shark"), ma fortunatamente la maggior parte del lavoro riesce a mantenersi al di qua del guado, proprio perché denso di esperienza concreta. E se le coordinate stilistiche di riferimento sono certamente quelle dell’Americana, l’autenticità di questi flussi di coscienza, a cavallo tra autobiografia e fiction, risplende anche e soprattutto nei numerosi momenti di deviazione dal genere ("Objects"), veri e propri cenni di sguardo verso un qualcos’altro che non può essere raccontato fino in fondo.
La forza di "Capacity" sta infatti nell’uso consapevole di un linguaggio allusivo, forte anche di una padronanza dei propri mezzi che di rado abbiamo sentito in questo 2017. Possiamo allora aggiungere il nome dei Big Thief alla lista delle band da tenere d’occhio, in attesa di ulteriori sviluppi che ci auguriamo possano mantenere le promesse di questo secondo sforzo.
19/07/2017