L'etichetta si attaglia comodamente a parecchie band, generalmente britanniche, del panorama attuale. Facilissimo accostarla agli Everything Everything, ai Field Music, ai Mew. Forzando un po' la mano, la si potrebbe appioppare anche a gente come Alt-J o Foals, sebbene la propensione per guizzi matematici, funambolismi art-pop e progressivissimi castelli di carte sia in loro meno spiccata.
Piaccia o meno la locuzione, oggi non ci sono più scuse: va ripescata dal dimenticatoio. Perché è la migliore possibile per descrivere ciò che stanno combinando i britannici Dutch Uncles, britannici nonostante il nome e giunti ormai al quinto pressoché impeccabile album.
Poiché gli zii non fanno alcun mistero delle proprie influenze, e il loro puzzle musicale è prima di tutto un incastro encomiabilmente frullato, ricombinato e ricontestualizzato di già sentito, cominciamo pure da qui: da dove viene il loro suono? Da King Crimson, Japan, Talking Heads, Xtc, Kate Bush. Potremmo dire che ne è un plagio spudorato, non fosse che... Come diavolo dovrebbe suonare un plagio di Xtc e King Crimson al tempo stesso? E di Kate Bush e Japan?
Se discernere le singole fonti del Dutch Uncles sound è un gioco da ragazzi, molto meno agevole è mettere a fuoco il segreto del loro estro ricombinatorio. Ben lungi dal valere quanto una semplice somma di parti, il loro stile lambiccato e incorporeo - eppure effervescente, quando non ipercinetico - è frutto di una costruzione tanto precisa quanto sfuggente.
Proviamo a scorgerla nella title track: alla partenza, e per tutto il primo minuto, il pezzo è una stratificazione di unità semplici - batteria tum-pa in 4/4, basso estroso e angoloso, accordi di tastiera atipici ma ripetitivi, voce. Siamo in pieno territorio wave, con un suono scheletrico e immateriale che fa molto Polyrock; finito il ritornello, però, le carte si scompigliano. Entra un riffone di chitarra, frippiano nel colore e soprattutto negli schemi ritmici (20/4? Ammesso che abbia contato giusto!) e lo statico gioco di incastri muta in una ridda di sfasamenti e deragliamenti tra livelli sovrapposti. Fa la sua comparsa qui per la prima volta la sensazione che caratterizzerà pressoché ogni brano del disco: l'epifanico effetto "what the fuck?!" che si materializza al passare da prevedibilità a completa imprendibilità della costruzione ritmico-melodica.
Inutile sforzarsi per ritracciarne tutte le ulteriori istanze: il disco ne è costellato, basta un brano a caso per trovarne dal paio in su. Andiamo - per dire - a "Baskin'", la traccia dopo: se non basta a spaesare il segmentatissimo fraseggio di chitarra che apre il pezzo (siamo dalle parti delle cose a cui ci ha abituato Bo Madsen coi Mew), i saliscendi di archi che spezzano la sezione Crimson-ottantiana di metà brano provvedono senz'altro a far perdere la bussola in modo definitivo. E "Same Plane Dream"? Attacco alla Gentle Giant in 7/4 (peraltro instabili), e-piano, bordate di basso con qualche deriva karniana, continui stop'n'go che - non so a voi - ma a me rimandano dritti alle pazzie ritmiche dei Django Django (anche loro discreti trituratori di influenze). Più che lo shock per l'essersi persi, dunque, a rendere accattivante il tutto è la rapida successione di fulminei nonché del tutto passeggeri attimi in cui si ha sensazione di essersi ritrovati: di esser riusciti a individuare un appiglio, sia esso un richiamo stilistico più esplicito, uno schema ritmico più dritto o un semplice elemento melodico che riesce a far presa sulla memoria a breve termine.
Non si può dire, in effetti, che le canzoni dei Dutch Uncles siano in senso stretto "orecchiabili". Sono ingarbugliate, ed estetizzanti, e oblique: l'immediatezza di strofe e ritornelli non pare tra le loro priorità. Eppure, proprio in quest'ultimo "Big Balloon" - album che per certi versi porta all'estremo la cervellotica leziosità che da sempre contraddistingue lo stile degli zii - sembra scorgersi una deliberata attenzione all'efficacia pop delle costruzioni ritmico-melodiche. In nessun mondo possibile "Hiccup" sarà la nuova hit dell'estate, ma tra astrusaggini ritmiche degne di "Discipline" e ghirigori vocali presi di peso dal Sylvian di "Tin Drum", il brano riesce a risultare più diretto e "canzonettaro" di qualunque cosa presente sui due dischi in questione. "Streetlight" prova più esplicitamente ancora a giocare alla pop-song: la si potrebbe quasi chiamare un lento, un pezzo se non sentimentale almeno atmosferico in un modo piuttosto coraggioso e atipico per i canoni della band.
Nonostante la discreta fortuna critica di cui la formazione gode, il successo di pubblico pare lontano: il tour dell'album copre poche date, tutte in madrepatria. Peccato, perché chi ha avuto occasione di vederli parla di un'ottima riuscita live e, considerata la combo di vitalità e perizia tecnica che anima la loro musica, non paiono davvero esserci ragioni per credere il contrario.
(18/03/2017)