E’ innegabile che a
Pharrell Williams piacciano i colpi di scena. Non appena il pubblico comincia a mostrare insofferenza tanto per i suoi recenti coretti buonisti e
old-school quanto per le sue innumerevoli ospitate, eccolo richiamare al suo fianco l’altra metà dei Neptunes, il fidato Chad Hugo, e il jolly Shay Haley per dare sfogo alle sue visioni più fantasiose e ardite senza metterci necessariamente la faccia. E chi se lo aspettava in questo 2017 dominato e forse un po’ appiattito da una
trap imperante un nuovo album dei N*E*R*D? Sono infatti passati sette anni da quell’ultimo “
Nothing” che aveva gettato i semi (a partire dalla collaborazione coi
Daft Punk) di quella che sarebbe diventata la seconda e più redditizia fase della carriera solista di Williams.
E’ curioso e soprattutto piacevole constatare come il loro
sound, sempre caratterizzato da
beat spezzati e fughe propulsive, bassi minacciosi e inserti demenziali riesca a suonare ancora oggi come un boccata d’aria fresca e tutt’altro che datato. Complici la capacità dei due Neptunes di riforgiare in chiave contemporanea (quindi con maggiore propensione all’
hook strumentale che al ritornello
killer) le proprie peculiarità sonore e la presenza di diversi ospiti che negli ultimi mesi hanno dominato le classifiche statunitensi.
Tra questi spiccano Future e
Kendrick Lamar, ormai immancabili ogniqualvolta si ricerchino connotazioni più cupe o maggiore impegno socio-politico, la
bad girl Rihanna (vera mattatrice in quella frenesia da
twerking che è “Lemon”) e il nuovo prezzemolino
Ed Sheeran, fortunatamente quasi mascherato dal suo falsetto, nella soffice cantilena di “Lifting You”, un pezzo talmente appiccicoso e trasversale che potrebbe diventare la loro “
Paper Planes”. Guarda caso, nel febbricitante delirio di “Kites”, è proprio la ribelle
M.I.A. ad aggiungere un po’ di spezie doc alla formula, nonostante l’orientaleggiante sapore di “ESP” sembri tutt’altro che posticcio e meno appetitoso.
E’ però con “Don’t Don’t Do It!” che “No_One Ever Really Dies” lascia la sua zampata di classe: raffinata introduzione come se
Stevie Wonder ci stesse ancora spiegando la vita segreta delle piante (c’è dietro lo zampino di
Frank Ocean) e improvvisa apertura su una trascinante festa ska. Gli fa eco, in chiave ancora più punkeggiante, l’altrettanto indiavolata “Deep Down Body Thurst”, che contende alla contagiosa “1000” il titolo di pezzo più scavezzacollo del disco. Sintesi perfetta tra le sperimentazioni del sottovalutato “
Seeing Sounds” e il
crossover di “
Fly Or Die”, “No_One Ever Really Dies” funziona meglio quando evita i due estremi (fine a se stesso il
pastiche in compagnia di Andre 3000 e un po’ annacquata la psichedelia di “Lightning Fire Magic Prayer”) e si pone come fine ultimo quello di far ballare e al tempo stesso di suonare come un’invettiva contro una società sempre più razzista, in balia di odio da
social network e politici ottusi.
Quale di questi due scopi verrà raggiunto con maggior successo lo capirete quando, battendo il piede al ritmo di “Voilà” e “Secret Life Of Tigers”, vi sembrerà quasi di sentire
Britney Spears e
Gwen Stefani fare i cori in completino da
cheerleader.
29/12/2017