Per il secondo disco dei suoi Drugdealer, Collins ha voluto sfidare la personale visione artistica, rinunciando in parte a quell’approccio poco formale che ha caratterizzato i vari step della sua carriera di musicista (Run Dmt, Salvia Plath).
A suo modo una vera e propria rivoluzione, che dà i suoi frutti in “Raw Honey”, un album che mostra velleità dai toni arditi e stuzzicanti già dalla copertina in stile United States Of America, anche se le fonti d’ispirazione sono sempre Brian Wilson, Burt Bacharach e il sogno californiano dei primi anni 70.
Ed è forse per omaggiare i primi approcci con il ruolo di musicista che Michael Collins introduce l’album mettendo in moto un'auto, avendo egli iniziato la carriera on the road, vagando per gli States su un treno merci in cerca di suoni, sample e armonie da inserire nei deliziosi e astratti collage pop.
Grazie alle sonorità ancor più raffinate e a un parterre di musicisti nel pieno della forma - Shags Chamberlain, Brian e Michael D’Addario (Lemon Twigs), Josh Da Costa, Sasha Winn (Silk Rhodes), Natalie Mering (Weyes Blood) - l’album dei Drugdealer è uno dei più riusciti teletrasporti sonori degli ultimi tempi.
Nessun cedimento, nessuna imperfezione, se non quelle funzionali alla natura baroque-pop delle canzoni. “Raw Honey” è un disco che pesca sapientemente sia nelle delicatessen dei Flying Burrito Brothers o degli Eagles prima maniera (“Lonely”), che nelle evocative colonne sonore made in Italy degli anni 70, raggiungendo picchi emotivi perfettamente incorniciati ora dalla voce di Weyes Blood (“Honey”) ora da quella di Sasha Winn (“Lost In My Dream”).
E’ per certi versi una festa di note e armonie, perfetta per rievocare i fasti delle radio Fm americane, con tanto di coretti in falsetto, sax e Wurlitzer (“Fools”) e languide ballate cheek to cheek che hanno il profumo del lost classic in stile Roy Orbison meets John Grant (“Wild Motion”).
Non sorprende che Mac DeMarco sia della partita in veste di ingegnere del suono, avendo sempre condiviso con Collins la stessa chiave di lettura della musica pop americana.
“Raw Honey” scava nello stesso solco della nuova generazione pop-psych, con un’attenzione alla multidimensionalità sonora di band come Steely Dan o 10cc, piuttosto che ai fraseggi lo-fi di altre band pop-retrò, ed è stranamente in questa più artificiosa ed elaborata tessitura musicale che alberga l’estrema vitalità e freschezza di un disco tra i più piacevoli e intelligenti di questi primi mesi dell’anno.
(07/05/2019)