Il ritratto di copertina, un olio su tela ad opera del pittore Steven Lindsay, ce lo mostra incupito, sguardo triste e un po' malinconico. Quasi rassegnato. Chissà con chi ce l'hai, caro vecchio Lloyd. Magari col mondo intero che non ti ha mai capito fino in fondo (oddio, nell'era dei Commotions il consenso in realtà era quasi unanime, magari espresso con misura e pacatezza tipicamente British, questo sì), o forse, più semplicemente, con te stesso. L'aver sbagliato diverse scelte strategiche, in una carriera altalenante che comunque ha già superato il trentennale, deve aver contribuito a renderti inquieto e assai perplesso sul futuro. Chi ti segue e ti apprezza da una vita in effetti non avrebbe scommesso molto su un tuo nuovo disco, dopo cinque anni intrisi di silenzio e quasi al traguardo dei sessanta.
Ma il tuo orgoglio di inglese tutto d'un pezzo mai ti avrebbe mai permesso di uscire di scena nell'anonimato, senza un guizzo, che ne so, un coup de théâtre.
E così hai radunato nel tuo attico mansardato in Massachusetts parte della gloriosa truppa che fu (Neil Clark alla chitarra e Blain Cowan ai synth, ovvero 3/4 di Commotions che non registravano insieme dal 1987), e quello che ne è venuto fuori è un disco di pura sintesi elettronica. A volte lento e misurato, a volte più ritmato, ma sempre con la classe e il piglio dei giorni migliori.
Direte voi, che c'azzecca il nostro crooner col synth-pop di matrice eighties, da sempre fuggito come la peste a partire dall'esordio fulminante di "Rattlesnakes"? Non c'è nulla di cui vergognarsi, Lloyd, è cosa buona e giusta non arroccarsi su posizioni acquisite e cercare nuovi territori mai esplorati. Giova realmente alla salute e soprattutto alla carriera. Ma poi, non è capitato anche anche al tuo quasi coetaneo Paul Weller? Il Modfather, dopo aver fatto dell'avversione alla tecnologia una ragione di vita, improvvisamente qualche anno fa è stato scoperto a trastullarsi con gingilli e diavolerie elettroniche, come un bimbo beccato con le manine nel vasetto di Nutella. Ne uscì quel lavoro controverso che è "Sonik Kicks", dove tra motorik beats e kling klang in certi frangenti sembra di ascoltare una band di Dusseldorf e non il padre nobile del britpop.
E a proposito di Dusseldorf, ricordi l'estemporanea collaborazione con Hans-Joachim Roedelius dei Cluster, esperimento poi ripetuto l'anno successivo? Per non parlare poi del tuo "Plastic Wood" del 2001, album completamente strumentale. Certo, in entrambi i casi si trattava più che altro di suite ambientali con spruzzatine di kraut-rock e kosmische sound, nulla a che vedere con la formula easy che ci hai proposto per questo "Guesswork". Però, ecco, il ghiaccio in un certo senso era già stato rotto.
Ci accingiamo così all'ascolto, a metà tra il sorpreso e il dubbioso, ma già l'iniziale "The Over Under" spazza via le nubi e illumina di immenso. Sette minuti di poesia musicata, eterea, rallentata, una melodia efficacissima che si snoda tra note minime di piano ed effetti ambientali lontani. Una voce più profonda, appesantita dagli anni, ma per questo ancora più efficace, e un'atmosfera che porta dritti ai gloriosi tempi della trilogia. "Mainstream" come disco di riferimento.
La successiva "Night Sweats" cambia parzialmente registro. È l'episodio più classicamente synth-pop del lotto, quello che più di tutti contiene i dettami che hanno reso celebre il movimento: intro minimale con singole note di synth, base robotica sorretta da drum machine e basso pulsante, e classico riff sintetico che poi è il vero marchio identificativo del genere. Un cantato accorato, quasi invettivo e "motherfucker" come se piovesse. Ci si addolcisce appena nel ritornello, prima del pirotecnico finale.
Più leggera ma ugualmente efficace, e anzi per assolvere il compito di singolo decisamente più efficace, "Violins", riuscito mix tra l'Erlend Oye solista (lui pure elettronico, come reazione inconscia all'acustica dei Kings Of Convenience) e gli Erasure attuali. Tutto "Guesswork" è un riuscito alternarsi di brani midtempo e ballad assassine, di archi sintetici e delicati passaggi al piano, un'atmosfera crepuscolare e malinconica palpabile in ogni solco. Esemplare in questo senso "Remains", gioiello di improbabile e disarmante dolcezza e vetta indiscussa dell'album. In altri passaggi invece l'incedere è più scarno, minimale, accompagnato da suoni sintetici glaciali e percussioni elettroniche che ne completano l'arrangiamento.
Quello che colpisce è la qualità media delle canzoni, sempre ben sopra la sufficienza. Clamoroso, ad esempio, il ritornello di "When I Came Down From The Mountain", che si apre in una melodia esaltata da tappeti di synth e chirurgici interventi di chitarra elettrica a suggellare un intreccio sonoro di enorme impatto emotivo. E si chiude, e non è una coincidenza, con rimandi totalmente à-la Kraftwerk di "Autobhan" nell'incipit di "Loudness War". D'altra parte, dei Cluster, Ralf & Florian erano cugini di primo grado, geograficamente ancora prima che musicalmente.
L'operazione è perfettamente riuscita, caro Lloyd: il paziente, sopravvissuto a questi tempi bui di revivalismo imperante spesso fuori luogo e tempo massimo, è vivo e sta bene. È tempo di addolcire il tuo sguardo e lasciarti andare alla poesia che questa volta sei riuscito a creare.
31/08/2019