Sono l’ingegno e l’ambizione – in dosi necessariamente superiori alla norma – a far sì che alzare la posta in gioco non conduca alla rovina bensì al più clamoroso trionfo, alla sublimazione di un percorso che sembra esistere quasi soltanto in virtù di quell’apogeo perseguito con così tanta dedizione.
La parabola del visionario Jack Barnett, compositore alla guida dei These New Puritans col fratello George, ha verosimilmente già toccato il suo momento di perfezione ed estasi espressiva attraverso la grandeur sinfonica e corale di “Field Of Reeds”, progetto che perlomeno in ambito art rock rischia di rimanere ancora a lungo ineguagliato. Una consapevolezza che di certo ha attraversato anche i suoi stessi fautori, costretti a scendere di qualche gradino più in basso per riacclimatarsi con una dimensione raccolta e “portatile” anche in favore delle esibizioni dal vivo.
La via più logica, benché non semplice, era quella di un ponderato compromesso stilistico fra il trascinante manifesto bellico di “Hidden” e la profonda introspezione del successivo capolavoro. Un’impresa, anzi, che giustifica totalmente i quasi sei anni di distacco forzato, arco temporale di una covata malefica e sibillina che ha offerto al presente “Inside The Rose” una tavolozza di inedite cromie, su tutte lo stradominante rosso dei video ufficiali – visibilmente girati su pellicola – e delle impattanti fotografie promozionali.
Tra copiosi velluti lynchiani, torsioni di corpi nudi e riflessi acquei deformanti, i fratelli Barnett sembrano invitarci ad attraversare lo specchio, fanno appello alla sensorialità ma attraverso il filtro di un’inconscia e tormentata attività onirica. L’apertura di “Infinity Vibraphones” fa idealmente da ponte e anello di congiunzione con “Organ Eternal”, proiettandone il rigore ritmico e percussivo in uno scenario tanto sinistro quanto morbosamente sensuale.
You do a great impression
Of someone who is
Lost
Well I’m lost too
So let’s get lost together
(“Anti-Gravity”)
“Bellezza, trascendenza, oblio, estasi e occhi” sono i temi cui allude Barnett, negando di fatto qualsiasi interpretazione arbitraria del concept, volutamente arcano e autoriferito nel suo svolgimento, a dire il vero alquanto sintetico seppur foriero di un più ampio potenziale. L’aura romantica e decadente dei testi, per la prima volta in mano a George, trova perfetta rispondenza nei solenni arrangiamenti neoclassici di Jack che, senza contrarre debiti ingenti, attingono segnatamente alla darkwave di Coil e Dead Can Dance.
Tra le pieghe dei nove brani ritorna anche un massiccio complemento digitale: prorompenti venature elettroniche forgiano “Beyond Black Suns” (compartecipata dalla cantante taiwanese Scintii) e si mescolano alla martellante sezione acustica di “Into The Fire”, in cui si manifesta brevemente la voce recitante filtrata di David Tibet, simbolica restitutio a Jack Barnett per il suo contributo compositivo all’apocalittica cosmogonia di “I Am The Last Of All The Field That Fell” (“We sang like roses/ The fire within/ Changing wings/ Splitting the line/ Open your heart/ Scattered stars”).
Ma nel mezzo dell’ormai consolidato incedere marziale che marca i passaggi più estroversi, anche dopo diversi ascolti rimangono comunque angoli di imperscrutabilità, dedali stratificati entro i quali siamo condotti soltanto dal cantato alla Dave Gahan di Jack. Non è poi un caso che proprio a metà strada sia situato il singolo “Where The Trees Are On Fire”: completamente avvolto nel calore degli archi e ottoni, il suo ermetismo lirico rappresenta l’essenza più pura della sospensione cognitiva indotta dalle atmosfere chiaroscurali dell’opera (“This is where your dreams come true/ your nightmares too, your nightmares too”).
Un ipnotico sottofondo post-minimalista di synth percorre il sommo enigma di “A-R-P”, ultimo rito iniziatico ordito dai fratelli Barnett nelle stanze della loro eccentrica Loggia Nera (“No, this is not a dream/ This is really happening/ And I see you/ This is some kind of truth/ A kind of lie/ Together we can fly”): solo l’epilogo corale “Six” ritorna infine alle porte dell’eburneo Eden scolpito nel loro magnum opus – la riverenza nei confronti del compianto Mark Hollis, quella sì, era già palese e dichiarata – e, per un attimo appena, la rosa sembra dischiudere le opprimenti volute dei suoi petali.
Escludendo il fervore post-punk dell’esordio, la compagine dell’Essex ha dimostrato una chiarezza d’intenti e una coerenza stilistica rare e invidiabili, poiché convogliate in una prassi creativa che non ammette stasi né ripetizione, bensì un continuo progredire e affinarsi. “Inside The Rose” è un altro soggiogante cerimoniale del quale i These New Puritans sono al contempo officianti e vittima sacrificale, oracoli di un oscuro mistero che, non potendo sciogliersi, si fa viva e bruciante Arte.
Burning in, burning out
This is the fire you can't put out
Isn't life a funny thing?
All those words and they say nothing
(“Beyond Black Suns”)
22/03/2019