La strada dell'estinzione è lastricata di buone intenzioni
E’ una constatazione che - per quanto riguarda le colonne sonore - il 2019 sia stato segnato in modo decisivo dalla compositrice
Hildur Gudnadottir con l’accoppiata “
Chernobyl" e “
Joker”. Ma per completezza ci sarebbe anche da segnalare un settore in crescita che è quello delle colonne sonore per documentari, che ci accompagna da anni in sordina, celato dietro una tipologia di prodotto dove la musica sembrerebbe essere meno importante rispetto al prodotto film, ma che a volte può fornire piacevoli scoperte. Proprio le condizioni socio-economiche in continuo peggioramento, guerre, crisi economiche, la chiarissima sensazione di trovarsi all'interno di uno scenario distruttivo che andrà avanti sino al suo limite, senza alcun possibilità di rallentamento o inversione di marcia, stanno spingendo il genere documentario a una nuova vita e a una nuova consapevolezza.
Dalle prime esperienze di
Robert Wyatt con il dimenticato “The Animals Film” (1982), l’album elettronico del geniale musicista
canterburiano, alle recenti
soundtrack di
Trent Reznor & Atticus Ross - “
The Vietnam War” (2017) - a
Ben Frost che ha suonato per Amnesty International in “The Invisibles” (2010), documentario sull’immigrazione del Centro e del Sud America, o i
Mogwai di “
Atomic” (2016), o infine la collaborazione di Atticus Ross, Leopold Ross & Bobby Krlic in “
Almost Holy”, la colonna sonora per documentario sembra avere un nuovo e prolifico futuro davanti a sé.
Il musicista americano
William Ryan Fritch si cimenta da anni nel genere
soundtrack e nel 2019 lavora per il documentario “Artifishal”, che sembrerebbe figlio (dopo quasi 40 anni) del progetto “The Animals Film”, che nel 1982 aveva dato una svolta sperimentale alla carriera di Wyatt. Quello che nel 1982 era una denuncia dei maltrattamenti sugli animali, ma che immaginava una possibile alternativa, oggi nel 2019 diventa una denuncia di tutto il genere umano e del capitalismo dominante, costretto per autoalimentarsi vorticosamente a produrre immense fabbriche di esseri viventi trattati alla stregua di oggetti, maltrattati all’inverosimile, nati come prodotti da consumare per alimentare un mercato e un'ideologia che ha la produzione infinita come unico scopo.
“La strada dell'estinzione è lastricata di buone intenzioni”, ci dicono gli autori di “Artifishal”, sottolineando come le “buone intenzioni” apparenti (sfamare un maggior numero di persone possibile) si scontrino con la prioritaria ricerca del profitto illimitato e con l'inevitabile prossima estinzione del salmone selvaggio come di altri tipi di pesci.
William Ryan Fritch si cimenta con 29 brani brevi di stampo tipicamente
modern classical, con piano, archi e elettronica a sovrapporsi lentamente senza prevalere l’uno sull’altro, senza slanci particolarmente innovativi ma cercando soprattutto di fare da sottofondo alla potenza disturbante delle immagini, in modo da accompagnarle senza cercare di mettersi in primo piano rispetto a esse.
I brani da segnalare sono l’iniziale “Without Wild”, interessante gioco di percussioni, il triste
loop di “Paved With Good Intentions”, uno dei momenti più drammatici, gli svariati e languidi piano solo (“The Elwha Dam”, “Starving Orcas”, “Life Cycle”), i cupi vortici di archi (“Industry”, “Cascade”), i momenti in cui piano e elettronica convivono meglio (“An Unnatural Spectacle”).
La lunga lista di brani si chiude con gli struggenti piano e archi di “Lose The Wild, Lose Ourselves”, titolo che diventa monito per le nuove generazioni, probabilmente troppo distratte dal sottofondo assordante del consumismo estremo del Ventunesimo secolo per poterlo ascoltare.
01/02/2020