"Fai rumore"? Detto fatto. Antonio Diodato c'è riuscito a modo suo, vincendo l'edizione n. 70 di Sanremo, mettendo (quasi) tutti d'accordo e seducendo il pubblico con il fascino discreto del suo stile intimista. Quando si dice nomen omen...
Eppure, come ha riconosciuto lui stesso con onestà dopo il trionfo all'Ariston, la sua carriera non è stata tutta rose e fiori: lo testimoniano "i concerti davanti a otto persone" e tutti i rospi ingoiati prima di poter finalmente ottenere i meritati riconoscimenti, anche su quel palco, dove non ha avuto bisogno di ringraziare nessuno che ce l'abbia portato dentro, avendo già offerto ottimi contributi nel 2014, tra i Giovani, con "Babilonia", e nel 2018, in gara tra i big, con "Adesso" insieme a Roy Paci.
Con perfetta (e un po' paracula) tempestività, proprio nel giorno di San Valentino, Diodato ha pubblicato anche il nuovo album, "Che vita meravigliosa". Titolo apparentemente ingannevole: negli undici brani non si respira certo un senso di acritico ottimismo, al contrario, si percepisce quel senso di straniamento di chi si accosta alla vita come a "una giostra folle" o alle "montagne russe", per usare le sue stesse parole. Uno spirito catturato fin dalla copertina dal sapore fantastico, realizzata da Paolo De Francesco: un disegno di figure retoriche quasi surrealista, dove emerge il conflitto tra l'ambizione di un tutto visibile e la ricerca di una verità nascosta nelle cose e nelle persone. E con diversi rimandi alla tracklist, con un palazzo-alveare e una piscina di calma apparente che sta per essere sconvolta da un missile, metafora degli accadimenti che sconvolgono le nostre vite; sullo sfondo, una fabbrica che richiama l'Ilva, lo stabilimento siderurgico che ha avvelenato Taranto, la città per cui Diodato - nato ad Aosta ma originario di quei luoghi - si batte pervicacemente da anni.
Gli undici brani segnano un'ulteriore evoluzione nella ricerca del suono e nella scrittura di Diodato, che si fa ancor più asciutta e diretta, flusso di coscienza e analisi scrupolosa di sentimenti innescati dal vissuto del quotidiano. Con un sotterraneo senso di sgomento per il nichilismo e l'individualismo che scavano fossati nelle nostre relazioni quotidiane lasciando un senso di vuoto (emblematica, in tal senso, "Solo").
Il tutto, però, è reso sempre con leggerezza, a cominciare proprio dalla classica ballata dalle sfumature radioheadiane che si è imposta al Festival, in cui quel lacerante grido di dolore ("Fai rumore") si scioglie in arrangiamenti calibrati e mai ridondanti. Stesso discorso per la title track, che ha anticipato l'album accompagnando le immagini del film "La dea fortuna" di Ferzan Özpetek: un delicato inno alla vita, alla gioia e ai dolori che accomunano gli esseri umani, sospinto da un’andatura sinuosa e nostalgica.
Proprio gli arrangiamenti sono uno dei punti di forza del disco, grazie anche al lavoro collettivo di uno staff di prim'ordine, con Tommaso Colliva (Calibro 35, Muse) in cabina di regia, Fabio Rondanini alla batteria (Calibro 35, Afterhours), Rodrigo D'Erasmo (Afterhours, direttore d'orchestra a Sanremo e arrangiatore degli archi), Daniel Plentz (Selton e la superband di Nic Cester) alle percussioni, Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) alle chitarre, il basso di Roberto Dragonetti e Raffaele Scogna alle tastiere. Ne scaturisce un denso respiro orchestrale che ben si integra con la potenza vocale dirompente di Diodato, anche se a volte finisce col mascherare qualche limite dei brani in fase di scrittura.
Ecco allora strati di archi avvolgere l'altro atto di dolore di "Fino a farci scomparire" (con più di un occhio strizzato alla lennoniana "Across The Universe" dei Beatles), tastiere synth-pop alla Battiato sorreggere l'impalcatura della tesa "Alveari" (quasi uno spoken word sulle cadute che aiutano a crescere, per uno degli episodi migliori del lotto) e stranianti pulsazioni elettroniche scandire l'invettiva contro il "paese-cialtrone" di "La lascio a voi questa domenica", ispirata a un tragico caso di cronaca cui il cantante ha assistito su un treno, di ritorno a Milano ("Qualcuno si è buttato sotto un treno nella stazione di Cattolica, sarò stato un pazzo, un disperato depresso da questa domenica").
E se "Il commerciante" finisce con l'ironizzare sulle storture della società digitale, "Non ti amo più" e "Ciao, ci vediamo" si ricollegano al gusto vintage un po' sixties già manifestato nei lavori precedenti, raccontando in un'accattivante cornice pop-rock quella fine di una relazione (con Levante?) che invece sulla conclusiva "Quello che mi manca di te" si tinge di autentica sofferenza, attraverso un commosso rosario di ricordi ed emozioni, tra "viaggi stellari e vecchi amori", recitato in punta di voce su un gonfio tappeto orchestrale di fiati e archi. Una chiusura in cui c'è tutto il pathos - forse a volte eccessivo, ma sempre sincero e sentito - che caratterizza da sempre lo stile del cantautore pugliese.
"Che vita meravigliosa" è un delicato valzer sui sentimenti, giocato con classe e sobrietà. È l'onesto stato dell'arte del Diodato del 2020, cantautore serio e schivo, in viaggio sul sottile crinale tra cantautorato classico (verrebbe da dire "indie") e mainstream pop. Sentiero decisamente insidioso, in cui tanti sono finiti col vacillare se non cadere fragorosamente. Ma se continuerà a percorrerlo con la stessa umiltà e serietà d'approccio, circondandosi di musicisti di questo valore, c'è da credere che nei prossimi lavori riuscirà a raggiungere nuovi traguardi. Magari trovando una penna ancora più fluida e costante. Per la canzone italiana, in ogni caso, una risorsa su cui poter ormai contare appieno.
01/03/2020