Il nuovo progetto del cantautore americano, “Sundowner”, è nato in circostanze particolari, anguste. Per Kevin Morby è quasi un outing, anzi il doloroso outing di un musicista che non è riuscito a coltivare le proprie ambizioni con tutta la tenacia necessaria per restare fuori dalla prevedibilità di molti cantautori suoi coevi.
In verità un po’ dispiaceva che il folksinger americano non avesse trovato la giusta dimensione. Dopo l’eccitante e oscuro “Singing Saw”, non sembrava possibile che tanto talento dovesse restare preda della routine: non tanto quella del raffinato e sensibile "City Music”, quanto quella del lieve tedio della svolta spirituale di “Oh My God”. Alla fine è bastato un semplice registratore a cassetta su quattro piste (Tascam) e il ritorno nella natia Kansas City per lasciarsi alle spalle noie e incertezze e abbracciare la ritrovata ispirazione.
“Sundowner” è il disco di un artista che riesce ancora a emozionarsi di fronte all’aspra bellezza, di canzoni nate durante i ritagli di tempo rubati a giornate ricche di disillusioni e paure, queste infine scaturite dalla scomparsa di amici e punti di riferimento ideologico per Morby.
Lasciare New York e poi Los Angeles è stata una necessità per Kevin: il peso delle responsabilità legate al proprio lavoro era diventato ingombrante e l’unica strada per vincere ansia e affanno era poter riscoprire silenzi e spazi ampi dove far risorgere la musa, quella che anima il disco già dalle prime note di “Valley”.
Che queste canzoni avessero una loro sinergia e un’impellente necessità di restare grezze e naturali è diventato sempre più evidente per il musicista, soprattutto quando ha preso corpo “Campfire”, dove, senza alcuna enfasi, Kevin affronta il dolore per la perdita di amici e colleghi come Jessi Zazu e Richard Swift.
Non sono gli unici fantasmi che ispirano queste fragili canzoni: nell’aspra ballata alla Lou Reed “Jamie”, Kevin rivive il dolore per la morte di un amico d’infanzia, avvenuta quando l'artista era appena maggiorenne, mentre la figura di Anthony Bourdain ispira la natura errante e avventurosa di molte tracce. Ed è racchiusa nel viaggio la speranza che illumina "Sundowner", quello condiviso con la compagna Katie Crutchfield (Waxahatchee), ed è l’essenza della poesia on the road la fonte d'ispirazione della profonda e magica “Don't Underestimate Midwest American Sun”, della delicata “Provision” e dell’avventurosa traccia strumentale “Velvet Highway”, quest'ultima affidata al piano e alla drum machine.
In questo itinerario è dunque naturale che Morby intercetti le suggestioni di autori che hanno già degnamente raccontato l’America rurale e urbana: Bob Dylan in “Wander”, Lou Reed nei sette ipnotici minuti di “A Night At The Little Los Angeles” e Leonard Cohen nell’eccellente e magnetica title track.
Strano a dirsi, ma per molti versi “Sundowner” è il vero album della spiritualità. Non complementare, semmai antitetico all’eccessivo “Oh My God”. Kevin Morby ha finalmente ritrovato la sua musa, lasciandosi alle spalle il sogno della Grande Mela e dei bagliori di L.A., ritornando a coltivare il personale orticello artistico, che forse non sarà mai rigoglioso come quello dei molti artisti che ne hanno ispirato il percorso creativo, ma brillerà finalmente di luce e colori autentici.
19/10/2020