Olafur Arnalds

Some Kind Of Peace

2020 (Decca Records)
modern classical

Un viaggio introspettivo tra dolore e bellezza

di Elena Di Tommaso

Come un tempo necessario, un momento di riemersione e ripresa tra l'affastellarsi di pensieri dolorosi e ingombranti, il quinto album del compositore islandese Ólafur Arnalds è capace di accendere dei bagliori di bellezza che come piccole lanterne illuminano una strada invasa da un densa oscurità. "Some Kind Of Peace" è un lavoro decisamente introspettivo e riflessivo, privo di qualsiasi orpello. Tutto ruota attorno a semplici e delicati motivi di pianoforte, archi che si fondono con l'elettronica ambientale e poca voce. L'affascinante delicatezza di questo fluire musicale è tale da raggiungere sin da subito l'inconscio e dare un senso di tepore, di distensione, di pace.
Nonostante le scelte strumentali e melodiche siano abbastanza nostalgiche e malinconiche, le dieci tracce, incentrate sulla vulnerabilità umana, sono capaci di instillare un senso di positività, donando una sensazione di conforto e rilassatezza.

Non estraneo alle collaborazioni, l'artista islandese unisce le forze con altri amici e colleghi già dall'opener "Loom", uno dei brani più elettronici del disco. Qui il musicista britannico Bonobo contribuisce a rendere il suono pulsante, eclettico, con schemi di arpeggi fratturati, una modulazione vocale che richiama quella dei Sigur Ròs, tra il picchiettio del piano che rispecchia come un luccichìo sulla superficie dell'acqua e bassi che creano un vortice che ondeggia, si tende e poi si placa.
In un album prevalentemente strumentale, la rara apparizione della voce impreziosisce due brani in cui collaborano la cantante islandese JFDR (Jófríður Ákadóttir) e la compositrice e produttrice tedesca Josin (Arabella Rauch). La prima, con la sua voce pura, intrisa di desiderio e densa di una bellezza dolorosa, canta su "Back To The Sky", un florido brano electro-pop dal gusto cinematografico sul tema della perdita, collocato a metà della tracklist, in cui si domanda "Cosa faccio/ Con metà di me stesso?", e alla fine del brano l'accettazione: "Allora quando le stelle si allineano/ Con una sorta di pace/ Potrei essere amato da te". Josin, invece, offre uno dei momenti più toccanti dell'album con "The Bottom Line", un brano sognante e malinconico in cui la sua voce intensa imita la profondità del violoncello, seguendone i rigonfiamenti in una sorta di processo del "lasciar andare", un'evoluzione della morte in rinascita, in un continuo divenire.

I brani strumentali partono da "Woven Song", una traccia per pianoforte e archi accompagnata da un campione vocale femminile di un'antica tribù peruviana che intona una canzone curativa tradizionale. "Spiral" inizia con una curva discendente di violini, ripresi quasi subito dalla viola, mentre sotto intervengono man mano pianoforte e violoncello creando un'atmosfera morbida e al termine del brano Arnalds riproduce la melodia con un fonografo vecchio di 100 anni. A instillare gocce di pace ci pensa "Still", una traccia che riecheggia Max Richter e inizia con una raccolta di motivi sparsi per pianoforte e poi gradualmente si intreccia con gli archi lasciando loro tanto respiro da cedere la parte finale.

In "New Grass" il pianoforte si fonde con la parte degli archi che fiorisce lentamente, entrambi gli strumenti si sovrappongono e si intrecciano. "Zero" si colloca in uno spazio ultraterreno, a metà del brano dominano i sintetizzatori ma riesce a non perdere mai quella delicatezza e dolcezza che lo caratterizza e che insieme a "We Contain Multitudes" , che si apre con un frammento di conversazione e si concentra poi sul piano con un gran lavoro di pedali, costituiscono delle composizioni minimaliste sulla scia di Nils Frahm.
Introducono perfettamente "Undone", l'ultima traccia che si apre con una meditazione struggente sulla natura della morte da parte della cantante americana Lhasa de Sela, deceduta per un cancro al seno all'età di 37 anni: le parole piene di speranza viaggiano attraverso il piano, gli archi si uniscono presto per costruire un ampio crescendo orchestrale e poi gradualmente svanire in un passaggio che sembra riflettere il viaggio della vita stessa.

Quest'album non sarà rivoluzionario come il precedente "Re:member" del 2018, ma non è meno affascinante: scritto da Arnalds nel suo studio sul porto di Reykjavik durante la pandemia, contiene tutto il senso di isolamento sullo sfondo di un mondo caotico che lotta quotidianamente per re-esistere.
"Some Kind Of Peace" è un album che basta a se stesso: sebbene parli di solitudine, contiene momenti sublimi e una musica che dà conforto e incoraggia generando calore emotivo. Ha la capacità di risintonizzare l'Io interiore ed elaborare il tumulto esterno, liberare la mente e alleviare le ansie.

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In cerca di pace nel caos della pandemia

di Valerio D'Onofrio

Utilizzare la parola promettente per il compositore islandese Olafur Arnalds oggi non ha più molto senso. Dall'esordio dell'allora diciannovenne musicista di "Eulogy For Evolution" (2007) sono passati tredici anni e una decina di album che hanno segnalato Olafur come un interprete peculiare della modern classical tra piano, momenti sinfonici e saltuarie influenze pop-rock. Una carriera altalenante, che ha forse conosciuto il suo apice con "...And They Have Escaped The Weight Of Darkness" (2010) e che ha trovato nella soundtrack una prevedibile evoluzione naturale.

Il lockdown e l'isolamento forzato a Reykjavík sono gli eventi che hanno dato il via alla registrazione di "Some Kind Of Peace", tentativo di trovare - nel caos della pandemia - una strada verso un "tipo di pace", qualunque esso sia. L'album è fondamentalmente diviso in due parti, quella delle collaborazioni (tre brani) e quella legata alla modern classical tipicamente figlia della poetica di Max Richter. Non è la prima volta che la voce non sembra aggiungere nulla di davvero positivo alla musica di Olafur; ne è la conferma "Back To The Sky" con la cantante islandese Jófríður Ákadóttir, brano troppo banalmente pop per poter restare nella memoria.
La collaborazione con il producer britannico Bonobo nel brano "Loom" è già più interessante e ricorda molto da vicino le colonne sonore da videogame di C418, donando un'atmosfera giocosa e persino infantile nel complesso piacevole.

Nei brani tipicamente neoclassici Olafur si trova di certo più a suo agio, col suo pianismo minimale fatto di piccolissimi pattern di note ripetute. "Zero" trova la soluzione migliore e più originale in un intro di piano etereo che scompare via via avvolto in un mare di synth avvolgenti.
In altri brani come "New Grass" il piano crea melodie tanto brevi e sfuggenti, con pattern minimali di pochi secondi da rasentare la musica da carillon o lo scherzo di un bimbo su un pianoforte. Interessanti il canto orientale di "Woven Song" o i violini tipicamente modern classical di "Spiral", anche se fin troppo derivativi.

C'è spazio ancora per la collaborazione con la cantante Josin ("The Bottom Line"), intimista e ben calibrata ma di certo non memorabile, e per i due brani finali "We Contain Multitudes" e "Undone", in buona parte simili tra loro, con due brevi intro parlati e impalpabili melodie di piano che trasmettono la "Kind Of Peace" tanto ricercata. L'aggiunta degli archi di "Undone" è commovente, ma troppo simile a centinaia di brani già sentiti. L'opera di sottrazione di "We Contain Multitudes" risulta più efficace, riuscendo nella sua semplicità a essere uno dei brani più riusciti di un disco che, ancora una volta, non è quello della consacrazione definitiva del giovane talento islandese.

10/12/2020

Tracklist

  1. Loom feat. Bonobo
  2. Woven Song
  3. Spiral
  4. Still / Sound
  5. Back To The Sky feat. JFDR
  6. Zero
  7. New Grass
  8. The Bottom Line feat. Josin
  9. We Contain Multitudes
  10. Undone




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