Il mio racconto parte dalla serata di lunedì 10 febbraio 2020, una delle ultime occasioni di evasione prima che il Covid-19 azzerasse ogni possibilità di aggregazione. Gli Editors stanno per salire sul palco dell'Atlantico di Roma quando, nella selezione musicale programmata prima del concerto, parte il nuovo singolo dei Pearl Jam, "Dance Of The Clairvoyants". Il pubblico esplode in un boato, ballando e cantando come non sarebbe poi più stato possibile per mesi: centro pieno. Eppure, pochi giorni prima, quando la band di Seattle diffuse il primo estratto da "Gigaton", furono in molti a criticare il pezzo, non gradendo la "svolta stilistica" del gruppo. Ma dentro quel groove che richiama i Talking Heads c'era una luce forte, il tentativo di scrollarsi di dosso le consuetudini, il desiderio di aggiornarsi, rinnovarsi, affidandosi peraltro a un nuovo produttore, Josh Evans, al posto dello storico Brendan O'Brien. Ne risulta una delle migliori trasposizioni possibili del loro suono agli anni Venti, sventolata con coraggio, per fare in modo che l'etichetta di "dinosauri del rock" finisse appiccicata sul volto di qualcun altro. Le aspettative per un disco (finalmente) sorprendente prendevano così il sopravvento sui timori dell'ennesima sonora delusione...
Niente di più sbagliato, e i fan più "conservatori" potranno dormire sonni tranquilli: "Clairvoyants" - la canzone musicalmente più interessante di "Gigaton" - resta un episodio isolato: (quasi) tutto il resto dell'album suona Pearl Jam nella maniera più tradizionale che si possa immaginare. E parliamo dei Pearl Jam del nuovo millennio, ovviamente, quelli che vanno da "Binaural" in poi, perché i capitoli precedenti restano su un livello ormai irraggiungibile, siamo tutti d'accordo sin dal 1994. Niente influssi electro, al bando gli svarioni funk, nessun episodio alieno alle loro consolidate abitudini compositive, zero deviazioni: i Pearl Jam non sono i Radiohead, i Pearl Jam non sono Zappa, e neppure Bowie. Non hanno bisogno di architettare rivoluzioni copernicane: per chi li adora vanno benissimo così. Quindi ecco servito un disco che, come d'abitudine, ripropone una democratica alternanza fra pezzi più tirati, i rockettoni iper-classic da stadio, perfetti per tutte le stagioni e per tutte le generazioni, e quelle ballad diventate col tempo sempre meno sofferte e sempre più malinconicamente simili fra loro.
Se siete curiosi di intercettare qualche colpo illuminato, lo troverete nello spirito avventuroso della bass guided track "Quick Escape" (scritta chiaramente da Jeff Ament, con un giro di basso che con un briciolo di fantasia potrebbe ricordare l'andatura degli Editors di "Sugar" e della Bjork di "Army Of Me"), oppure proverete soddisfazione nello slancio ritmico dell'altro singolo anticipatore, "Superblood Wolfmoon", energetica composizione che cela dietro un mood spensierato il ricordo di una persona cara recentemente scomparsa (potrebbe trattarsi della sorella della moglie di Eddie Vedder).
La prima parte dell'album funziona abbastanza bene, completata da "Seven O'Clock", pensata per rinnovare la tradizione dei grandi midtempo del quintetto, con una coda che riporta in scena il passo epico dei classici, e dalla trascinante opening song "Who Ever Said", solita prevedibile partenza super-sprint. L'unico momento minore della prima mezzora è "Alright", una noiosa lullaby che manda la band in sofferenza, incapace di trovare la via d'uscita da una comfort zone a tratti insopportabile.
La seconda metà dell'album procede a velocità di crociera, dominata (ma sarebbe il caso di dire "castrata") dall'eccesso di autocontrollo, attraversata da un sentore di monotonia appena interrotto dai ritmi up della sequenza "Never Destination"/"Take The Long Way": la prima è quasi un r&b impazzito (ma sono fiati quelli che si scorgono sullo sfondo?), l'altra è il contributo dai tratti heavy di Matt Cameron. Il resto della tracklist scorre fino al termine senza colpo ferire, senza nessuno di quei twist che sapevano lasciare di stucco l'ascoltatore. A tratti si ha quasi l'impressione di avere fra le mani una manciata di outtake ripescati dal fondo di un cassetto, ma non quelli di categoria "superior" raccolti in "Lost Dogs", no, semmai outtake di "Backspacer" o "Lightning Bolt", non proprio dischi memorabili.
Dopo lo sbiadito esperimento firmato da Stone Gossard, "Buckle Up", sorta di funerea Christmas song che fallisce il bersaglio ripiegandosi su sé stessa, "Gigaton" - letteralmente - si spegne, con le tre tracce finali scritte a immagine e somiglianza del Vedder solista, quasi un "disco nel disco": del resto è il medesimo schema già presentato nel tritico che chiudeva "Lightning Bolt". Arrivano infatti prima una ballad dalle inflessioni country per sole voce e chitarra, "Comes Then Goes" (il mesto omaggio a Chris Cornell?), che procede stancamente, senza sussulti, per oltre sei minuti di assoluto immobilismo, e le ultime due composizioni, "Retrograde" e "River Cross", che indugiano sulle rassicuranti atmosfere che già furono di "Into The Wild". Un finale in calo, che non rende giustizia a quelle che erano apparse oneste e accettabili premesse. Un album zeppo di déjà-vu, con poche novità soffocate nei cliché di strade già battute, e molto meglio, parecchi anni fa. Chissà se a guidare le scelte abbia influito il timore di deludere la larga schiera dei fan di lungo corso.
Mike McCready ogni tanto esegue uno dei suoi numeri da circo, talvolta scimmiottando le peripezie di altri guitar hero (ora Eddie Van Halen, ora Stevie Ray Vaughan), rischiando così di far mettere in discussione dai detrattori la propria personalità, persino Cameron pare imbrigliato in esecuzioni troppo "telefonate". Poi, certo, nessuno potrà applicare a "Gigaton" il bollino di "disco brutto", i Pearl Jam non saranno mai in grado di farne uno, sapranno sempre garantire un livello minimo sindacale di qualità, e in caso di disastro ci sarà sempre la voce di Vedder a mantenere la nave a galla. Ma pare inevitabile considerare "Gigaton", a pari merito con "Backspacer", come il loro lavoro meno riuscito.
Per fortuna l'evidente costante calo di ispirazione non inficia la consueta attenzione ai testi, con la band in prima linea nella Resistenza anti-trumpiana (gli Stati Uniti stanno entrando nella campagna elettorale che condurrà alle Presidenziali) e nella promozione di una forte coscienza ambientalista, sottolineata anche dal concept grafico dell'album. Alcuni versi potrebbero persino essere letti come inconsapevoli profezie riguardanti la complicata situazione contingente. Colpiscono, in particolare, il "We're stuck in our boxes/ When it's open no more" e il grido "I'm Positive, Positive, Positive" che emergono fra le righe di "Dance Of The Clairvoyants".
Vedder e compagnia si ritrovano così ad aver partorito uno dei loro gadget più modesti per giustificare un nuovo tour che non potrà (per il momento) partire: non esattamente il risultato che avrebbero sperato. Ma poco male: i loro fan più affezionati resteranno impassibili ad attenderli, pronti a sborsare fior di quattrini per la prossima deluxe edition, l'ennesima sequenza di bootleg ufficiali, gadget di ogni tipo e un biglietto area pit per il prossimo concerto. Sperando di aggiudicarsi la rincorsa verso un posto in transenna, per provare a portarsi a casa un plettro di Mike o il tamburello di Eddie. E magari incrociare i propri occhi con i suoi, e sentirsi per qualche istante al centro del mondo. In una di quelle notti d'inizio estate da ricordare per l'eternità.
26/03/2020