Potremmo iniziare polemici: la solita operazione di sciacallaggio su artisti morti che ancora fatturano tanti quattrini per le varie mogli, figlie/i, parenti, avvocati, manager, case discografiche. E sarebbe facile pensare così anche per questa su Tom Petty. Il dubbio, però, entra quando ascoltiamo nel documentario “Somewhere You Feel Free: The Making Of Wildflowers” la voce dell’interessato commentare che, sì, "Wildflowers" è stato il progetto più importante della sua vita. “Penso che colpisca ogni area della musica che mi parla veramente - dice Tom - c'è un po' di rock, un po' di blues, un po' di folk”. Scopriamo poi che il disco avrebbe dovuto essere un doppio: Tom, Rick Rubin (produttore del disco) e Mike Campbell (chitarrista degli Heartbreakers e compagno di avventure musicali del Nostro) ai tempi lo completarono così, 2 cd con 25 canzoni, quasi due ore di musica, ma la Warner (con cui Petty iniziava il contratto, scappando dalla Mca) preferì farlo uscire come singolo. Bisognava infatti cavalcare l’enorme successo di "Full Moon Fever" (1989), "Into The Great Wide Open" (1991) e quel "Greatest Hits" (1993) milionario, trascinato dall’hit creata per l’occasione, “Mary Jane's Last Dance”, registrata proprio allontanandosi dalle session di "Wildflowers" per rispettare il contratto con la Mca. Tutti quegli anni dedicati a scrivere musica (il primo disco, "Tom Petty & The Heartbreakers", risale al 1976) e suonare concerti con gli Heartbreakers in giro per gli States lo avevano reso un personaggio del calibro di Springsteen, amato, rispettato e ascoltato da tutti: non si cambia stazione se passano “Free Fallin’”.
"Wildflowers", seppur lungo più di settanta minuti e con 15 canzoni, è diventato un mezzo classico, diciamo mezzo perché i 90's per molti hanno riservato ben altri capolavori, il decennio di grunge, hip-hop, trip-hop, musica elettronica ha sconvolto le orecchie molto più della 12 corde di Tom nel suo canto di mezza età. I problemi personali, specie il divorzio dalla prima moglie, non lo allontanarono dalla carriera, talmente al top da annoverare giusto il disco precedente ("Travelling Wilburys", 1988) in compagnia di Bob Dylan, George Harrison, Roy Orbison e appunto, lui, Tom Petty o meglio Charlie T. Jr nel supergruppo degli immaginari fratelli Wilburys. Un ingombrante spartiacque che lo portò, guidato dalle produzioni di Jeff Lynne ("Travelling Wilburys", "Fool Moon Fever", "Into The Great Wide Open") su soluzioni più accattivanti, lasciando alle spalle le nubi elettriche di fine anni 70.
I primi quattro album con gli Heartbreakers viaggiavano tra riff alla Stones inaciditi da ritmi punk e chitarre gementi alla Television, tutto ben ventilato, come piacerebbe oggi, dalla finestra aperta sulla West Coast, Byrds in primis, ma anche Creedence e Little Feat; i pezzi di quei primi dischi ormai sgomitano nelle classifiche rock del meglio di quegli anni. Poi ci sono gli 80's: un po' un ripetersi, le produzioni si fanno più opache, meno ruvide e perdono di spontaneità. Un disco a metà con Dave Stewart degli Eurythmics, "Southern Accents" (1985), un tour appoggiando il perennemente stranulato Dylan, appena uscito dal misticismo dei suoi primi quarant’anni, e infine, anche lui, alla soglia degli anta, è pronto per rinascere e scrivere quei pezzi che, sì, di nuovo ascolteremo nelle classifiche rock, solo di 20 anni dopo, magari accantoa “Smells Like Ten Spirt”. "Wildflowers" è l’ultimo capitolo, il meno pop, di quello squarcio commerciale che fece suonare le canzoni di Petty nelle radio di mezzo mondo, dei suoi tre progetti solisti, l’unico in cui non appare Jeff Lynne alla console (ritornerà con lui nel suo terzo solista, "Highway Companion", 2006), bensì Rick Rubin.
Nel 2016, poco dopo aver celebrato i 40 anni di carriera con un supertour insieme agli Heartbreakers, giusto un anno prima di morire, Tom dichiarò che la next big thing della sua discografia sarebbe stata la riedizione di "Wildflowers" con la seconda metà dell'album, una raccolta che chiamò "All The Rest". Dieci canzoni di quelle session lasciate fuori dalla versione originale tra le quali apparivano quattro tracce poi riprese nella colonna sonora del film "She's The One" (1996).
Il progetto originario del doppio "Wildflowers" da un paio di anni è diventato realtà, grazie all'impegno della sua famiglia, dei suoi compagni di band e dei suoi collaboratori. La versione base consiste in un doppio cd con l’edizione originale, ovviamente rimasterizzata più tutto il resto: le 10 track escluse originariamente. La versione deluxe prevede in aggiunta un cd con 15 home recordings/demos e un altro con 14 Wildflowers’ live tracks suonate dal nostro con gli Heartbreakers durante gli anni, comprese le versioni di "It's Good To Be King" e "Walls" raccolte da un'ormai leggendaria serie di 20 concerti che il gruppo suonò al Fillmore di San Francisco nel 1997. Secondo Campbell, l'unico progetto che gli piacerebbe vedere realizzato perché veramente speciale: le scalette erano diverse tutte le sere, la band aveva artisti ospiti, la sala una acustica meravigliosa e tutto fu registrato. Chissà se arriverà un live da quei good old days…
Su "All The Rest" tra i pezzi che appariranno due anni dopo nella soundtrack "She’s The One" ci sono due versioni del blues “Climb That Hill”, una risuonata e praticamente identica a quella pubblicata successivamente e un’altra, scarna e acustica. Tra taglia e cuci e senza quasi cambiamenti, arriveranno sulla stessa colonna sonora anche: la beatlesiana “Hung Up and Overdue”, con guarda caso Ringo alla batteria e Carl Wilson ai cori (e nonostante questo, tagliata da "Wildflowers" per eccessiva durata), il tributo alla sua terra adottiva, la jingle “California” (entrambi anche sull’home recording in versioni svestite) e, infine, la più facilona “Hope You Never”. Rubin era alla console anche per "She’s The One" e nulla di strano, se utilizzarono lo stesso materiale.
Le cinque canzoni che rimangono sono inedite e, dopo un paio di ascolti, sembrano essere state sempre lì. Se arrivavate alla fine dell’ascolto di "Wildflowers" felici e con voglia di altro materiale di Petty simile, era sicuramente per questa recuperata amputazione di pezzi. “Something Could Happen” è un midtempo che rispecchia appieno la spontaneità creativa di quel momento, tra Beatles e Richard Thompson. "Somewhere Under Heaven" esce dagli schemi delle strutture più frequentate nella collezione originale: una 12 corde elettrica marca con accordi pieni la marcia psichedelica interrotta da un riff che ci trasporta in un viaggio lisergico tra 60's e 70's. Sembra che Tom abbia rispolverato il cilindro del cappellaio matto di "Into The Great Wide Open", ma solo per questa occasione.
"Leave Virginia Alone" va veloce, sfrecciando su accordi acustici e delicati riff, riportandoci al John Fogerty da autostrada. Il pezzo fu assegnato a Rod Stewart per il disco "A Spanner In The Works", ma la versione ridotta di Petty lascia indietro di svariati chilometri quella del poco ispirato Rod the Mod di quegli anni. "Tanta confusione è entrata nella mia vita/ Tanta confusione gira nel mio cervello/ Tanta confusione mi ha fatto a pezzi", canta Tom nell’inedita e folkie “Confusion Wheel”, ribadendo gli stati d’animo che lo coinvolgevano durante le registrazioni del disco. In quel periodo la sua vita personale crollò e lo portò a deragliare (specie nell’uso di droghe pesanti), nonostante si trovasse al top del suo potenziale creativo. Ricorda Petty che quelle canzoni nacquero sinceramente, solo in un secondo momento si accorse del filo personale e comune che le legavano.
Rubin, nel già citato documentario, lo conferma: a Tom per quelle session venne lasciata la più ampia libertà di creare e suonare. Si faceva accompagnare da quasi tutti gli Heartbreakers come fossero dei turnisti, non voleva coinvolgere ufficialmente la band perché aveva chiaro che "Wildflowers" era un disco solista, senza votazioni democratiche sulle scelte musicali da intraprendere. Alla fine, a parte il batterista Stan Lynch (che poco dopo uscì in malo modo dal gruppo, sostituito prima con Dave Grohl e poi con Steve Ferrone), tutti gli Heartbreakers parteciparono e, come ricorda lo stesso Benmont Tench (tastierista), negli anni successivi Tom avrebbe affermato sicuro che era il miglior disco fatto insieme.
L’ultimo inedito di "All The Rest" è il country “Harry Green": parla di un ragazzo che Tom incontrò da giovane, a lezione di spagnolo. "Mi ha aiutato a uscire da una situazione in cui mi trovavo/ ha fermato un bifolco dal prendermi a calci nel culo", canta. Harry Green è probabilmente uno pseudonimo di una persona reale, apparsa nella vita di Petty molti, molti anni fa. Secondo la figlia Adria, Petty alla fine degli anni 60 e durante gli anni 70, fu perseguitato per avere i capelli lunghi, perché sembrava una ragazza. Si sentiva quindi affine a tutte le persone oppresse per essere gay, perché era quello di cui era accusato, senza sosta.
Il modo di lavorare di Jeff Lynne era diverso da quello di Rubin, su "Full Moon Fever" le parti erano lavorate e registrate separatamente, spesso prima la voce, per poi indirizzare gli arrangiamenti delle basi musicali sulle interpretazioni di Petty. Non proprio lo stesso che suonare jammando canzoni con un gruppo, il disco uscì pop, lontano dall’atmosfera roots, calda e avvolgente ottenuta su "Wildflowers". Nulla toglie alle produzioni di Lynne, è lo stesso Rubin a dirlo, fu proprio grazie al successo dei dischi in cui avevano collaborato che Tom arrivò sicuro a "Wildflowers", concentrandosi sempre più nel songwriting. Le versioni delle 25 canzoni scritte per il progetto sono "solo" le naturali trasposizioni del suo lavoro svolto in fase di composizione, cercando di ottenere per ogni tema il meglio e impegnandosi come se dovessero ripetere all’infinito il trionfo di “American Girl”, ricorda Campbell.
Tom preparava i pezzi nel suo studio casalingo su un registratore a otto piste prima di riunirsi con Rubin, Campbell e Tench ai Sound City Studios, lì insieme vestivano i demo. Sempre nel documentario, “Somewhere You Feel Free: The Making Of Wildflowers”, Rubin parla per esempio della title track, che, mantenendo sempre lo stesso giro di accordi, si arricchisce progressivamente di una cinquantina di accorgimenti, che la rendono unica. Tench, dal lato suo, ricorda quei 18 mesi spesi a lavorare con Petty, molto divertenti: registrarono la maggior parte del disco nella stessa stanza dove incisero "Damn The Torpedoes" (1979) e le 75 take di “Refugee”.
Per tutte queste ragioni, probabilmente oggi siamo stati invasi da una serie di demo e home recording inediti, lasciati a stagionare senza un preciso motivo. La figlia di Petty, Adria, coinvolta nella riesumazione musicale di "Wildflowers", conferma che il padre lavorava come produttore di demo molto segretamente, era un elfo Keebler che operava riservatamente e a volte arrivava con qualcosa praticamente finito come “You Don't Know How It Feels” (la versione delle home recording ha solo alcune liriche differenti, per il resto suona come l’originale).
Tra le home recording, a parte i pezzi già noti, spiccano le inedite: “There Goes Angela (Dream Away)” con Neil Young nel cuore; “A Feeling Of Peace”, sixties quanto basta, una elettrica a inondarla di gorgoglianti riff e la voce del Nostro doppiata come se Roger McGuinn e David Crosby fossero nella stessa stanza in quel preciso momento. “There’s A Break In The Rain (Have Love Will Travel)” vira su soluzioni più soul, con la voce sempre abilmente doppiata, e ci lascia pensierosi sulla potenza che avrebbe avuto insieme agli Heartbreakers.
La Super Deluxe Edition, infine, diventa molto più elaborata a livello di packaging e comprende un quinto cd: "Alternate Takes (Finding Wildflowers)", che contiene 16 registrazioni in studio di take alternative e versioni jam delle canzoni di "Wildflowers" eseguite mentre Tom, i membri della band e il co-produttore Rick Rubin lavoravano per completare l'album nel 1994. Appare il simpatico country "Girl On LSD" (che già era live nella deluxe e originariamente B-side del singolo "You Don't Know How It Feels"), una versione di “House In The Woods” rotta da un intermezzo swing, una acustica di "Cabin Down Below" e una elettrica di “Wake Up Time”, con nulla da invidiare alla potenza dell’originale al piano.
“Drivin’ Down Georgia” era già spuntata in un paio di live del 1993, emersi l’anno passato, un rock’n’roll venato di blues nel migliore stile Heartbreakers 70. “You Saw Me Coming”, inedita, è l’ultima della lista, inizia dove finiva “Crawling Back To You” ma poi i beat aumentano e diventa una tirata ballad elettrica.
"C'è molta intimità in alcune di queste registrazioni, mostrano davvero il suo umorismo, la sua capacità di scrivere canzoni e il suo grande stile di canto", dice Mike Campbell, e appoggiamo definitamente le sue parole: "Se sei un fan della band, dopo aver ascoltato tutta questa roba, ti sentirai più vicino a Tom e più in grado di capirlo come essere umano".
23/01/2022
Wildflowers & All the Rest
Wildflowers
All The Rest
Home Recordings
Wildflowers Live
Finding Wildflowers (Alternate Versions)