“Voglio diventare grande”, “non vedo l’ora di essere adulto”: quante volte chiunque, da bambino o da adolescente, ha ripetuto queste frasi vedendole come equivalenti di rivendicazioni di libertà e indipendenza. I fratelli Rehof (in arte Communions) tornano a quattro anni di distanza dal loro esordio con un album che ruota intorno al tema della crescita, ma soprattutto alla rivelazione che diventando adulti la vita non fa altro che complicarsi e più si prende coscienza del mondo più la visione delle sue forme diventa sfocata. Una
coming of age rovesciata, narrata attraverso quindici canzoni che centrifugano
britpop, indie-rock e romanticismo
wave.
L’oscurità che permeava i primi vagiti dei fratelli danesi sulla scia dei compatrioti
Iceage e
Lower è ormai lontana, già il precedente "
Blue" si discostava da quegli stilemi e questo nuovo "Pure Fabrication" è, per stessa ammissione dei suoi creatori, un sigillo per attestare la loro diversità da una scena che li ha fortemente influenzati e fatti crescere ma in cui hanno voluto affermarsi come un
unicum.
Mentre sono alla ricerca di gemme pop dagli arrangiamenti esuberanti, i Communions non dimenticano quindi le sensazioni melanconiche evocate da altri artisti del Nord Europa, come
Logh,
The Radio Dept. o
Cardigans, ma sempre guardando con entusiasmo alle rive britanniche oltre il Mare del Nord.
La tripletta che dà avvio al viaggio verso la maturità del nostro protagonista è di quelle da incorniciare. “Bird of Passage” mette subito in mostra le influenze wave con chitarre scintillanti avvolte nel mistero, che si fanno condurre da una ritmica solenne verso vette altissime dove brilla
un fuoco indimenticabile. “Humdrum” si tuffa trascinata da cassa e basso verso onde di chitarre a tratti liquide e a tratti sabbiose e rimanda, come altri momenti del disco, alle canzoni più dirette dei mitici
Mansun. È poi la volta di “Cupid”, pop song cristallina che si insidia subito nel cuore con i suoi “papapa”, appiccicosi ma non invadenti.
“My Little Planet” entra in scena come una ballata dolce, oscillante e fantasmatica, per poi alternare questi momenti ad andature midtempo che tengono incollati alle cuffie, presentando un altro asso vincente per la coppia. Il basso RnB di “Learn to Play” si rivela subito perfetto per sorreggere i versi dal morbido ondeggiamento hip-hop che si aprono e distendono poi su un sognante ritornello.
I Communions continuano a mostrarsi maestri nella varietà di arrangiamenti anche all’interno dello stesso pezzo come in “Signs Of Life” che vede alternarsi, oltre a vari cambi di ritmica, chitarre acustiche e chitarre elettriche, prima soffici e poi ronzanti.
Il disco prosegue con questa altalena di sensazioni agrodolci che passa prima attraverso il pezzo più scuro del lotto, “Splendour”, il cui ritornello mostra più di qualche debito con gli
Smiths e poi per l’enigmaticità di “History-The Siren Song”, che potrebbe essere una bella
outtake del
Corgan di "
Mellon Collie".
Si giunge così all’affascinante “Blunder In The Street”, caratterizzata da corde più robuste ma mai asfissianti, e in seguito a una delle domande chiave del percorso, “Is This How Love Should Feel?”, che presenta una delle sezioni ritmiche più interessanti dell’intero lavoro.
È a questo punto, però, che Pure Fabrication comincia a mostrare qualche segno di stanchezza, dovuto più alla lunghezza che va assumendo e alle tante (troppe?) soluzioni presentate che all’effettiva bontà dei pezzi restanti.
Se infatti gli unici brani che non riescono a incidere del tutto sono le eccessivamente zuccherose “Here And Now” e “Celebration”, le restanti “Hymn”, “Androginy” e “The Gift Of Music” si distinguono ancora per raffinatezza ed eclettismo. La prima, dopo un verso cantato col piglio di
Alex Turner e un ritornello che strizza troppo l’occhio agli
Oasis, si trasforma in qualcosa di simile a un pezzo degli
Echo and the Bunnymen non deludendo le aspettative; la seconda richiama attraverso le sue smaliziate linee vocali i maestri
Suede; mentre la terza si dimostra una degna conclusione del viaggio, un arpeggio tranquillo, senza ritmica, che ci accompagna verso le dolci-amare riflessioni finali.
I fratelli Rehof hanno intrapreso benissimo la loro strada verso l’età adulta, ne hanno visto le difficoltà ma sono riusciti a trarne il meglio. Questo secondo capitolo della loro storia, al netto di qualche calo e di una durata complessiva forse un po’ faticosa, ci mostra la piena maturazione di un gruppo da cui è ora legittimo aspettarsi ancora di più.
11/12/2021