“Projector” è il disco di debutto dei Geese, giovanissimo quintetto proveniente da Brooklyn che non palesa alcun timore reverenziale nell’offrire una cangiante proposta costruita su minuziose elaborazioni provenienti da disparati generi musicali: dall’art- al post-punk, dal math-rock, per arrivare anche a inflessioni provenienti dal rock progressivo.
La produzione del disco affidata a Dan Carey (Goat Girl, Lounge Society) facilita l’accostamento ai britannici Black Midi (c’era proprio lui nella stanza dei bottoni dello straordinario “Schlagenheim”). Il confronto non appare del tutto infondato, anche se l’ensemble newyorkese sembra aver imboccato una corsia ben definita, edificata su eccellenti attorcigli chitarristici, repentini cambi di ritmo, implosioni ed esplosioni che giungono inaspettate. Inoltre, laddove band come Squid e i già citati Black Midi tendono ad appoggiarsi con vigore (e tanta efficacia) verso un math-rock talvolta d’ardua digeribilità, i Geese provano a conservare crismi accessibili, intensi e divertenti.
La voce tonante, spesso affettuosa, del cantante Cameron Winter guida ciascuno dei nove brani a narrare testi così surreali da far rivivere quel tipico malessere che ha generato le fortune dei concittadini (sarà un caso?) Paul Banks, Julian Casablancas e rispettive insigni compagini. I virtuosi riff dei chitarristi Gus Green e Foster Hudson - vedi l’assolo al fulmicotone in “Fantasies/Survival” - forniscono alle canzoni un senso di emozione cinetica, spesso compensata da affascinanti armonie e lacerata da incisi che trasformano ogni struttura fino a quel momento disegnata.
Ecco perché i momenti migliori del disco si palesano quando i Geese si allontanano dalla cosiddetta comfort zone. Il concetto è perfettamente esemplificato dal singolo "Disco", nei suoi sette minuti di groove smontati ripetutamente e sbattuti, nella parte centrale del pezzo, verso un frenetico sballo che pare accompagnare alla conclusione. E invece è proprio qui che la scena si spalanca verso una nuova direzione, imprevedibile, che si forgia sull’agitata distorsione della sequenza d’apertura.
Mentre la title track riprende alcune delle sinuose e devianti prospettive care a David Byrne e ai suoi Talking Heads e l’altro succulento singolo “Low Era” menziona i carichi energetici e un po' schizofrenici dei primi Franz Ferdinand, uno dei punti culminanti in scaletta è senza dubbio rappresentato da "Exploding House", episodio dall’introduzione rovente, pesantemente stratificata e ricoperta di synth, prima delle immancabili mutazioni che trainano in un vortice di sensazioni e fragorose sonorità.
Sembra quasi che i testi - poetici e spesso rivolti a esternare ansie e paure - vengano affiancati da queste continue variazioni di stile e cadenza come se dovessero fungere da meccanismi di difesa, via di fuga dalla mischia: una chiave di lettura che potrebbe configurarsi come il vero messaggio emanato da “Projector”.
"Opportunity Is Knocking" è la perfetta chiusura del cerchio, un'enorme rampa di lancio à-la Strokes fluttuante verso strumentali che passano dalle orchestrazioni per archi ad arpeggi per pianoforte dilaniati da ossessionanti spaccate chitarristiche, mentre Winter chiede in modo quasi goffo se davvero: "Is This The End?".
Curiosamente alieno, ma stranamente familiare, “Projector” è il prodotto di cinque adolescenti il cui amore per la musica ha toccato ogni aspetto della loro vita, inquieta, angustiata per un futuro incerto, repressa e frustrata per un presente con poche prospettive. Forse ha davvero un senso la figura in copertina, nata da un sogno, sinistra ma dannatamente attraente, come il talento dei Geese.
02/11/2021