La scena del progressive-rock e del Canterbury sound contemporanea offre da anni spunti di interesse e di rinnovamento. Nomi come Homunculus Rex, Syd Arthur, Jack O’ The Clock, Crayola Lectern, Sanguine Hum, Arch Garrison, Needlepoint, Charlie Cawood, Stars In Battledress, Magic Bus, The Tangent, Diagonal, Pennies By The Pound sono ormai familiari ai cultori di genere, un numero consistente di artisti che rinnovano con ardore e consapevolezza un’era da molti ritenuta irripetibile.
Un interessante esordio targato 2020 ha aggiunto a questa lista il nome degli Zopp, progetto del polistrumentista Ryan Stevenson e del batterista Andrea Moneta, ex-Leviathan (quelli prog non metal), un vero e proprio atto d’amore del gruppo di Nottingham per la scena prog e per Canterbury, fermo restando la dedizione di Ryan per Igor Stravinsky e Steve Reich, influenze che fanno capolino soprattutto nell’attività collaterale del musicista come autore di colonne sonore.
Con il secondo album “Dominion”, la band degli Zopp predilige un sapiente rigore stilistico. A beneficiarne è non solo la scrittura delle tracce ma anche l’intero assetto strumentale. Ryan Stevenson crea un raffinato e vivido arazzo sonoro con un tripudio di tastiere (Hammond, Mellotron, Korg e altri synth), chitarre (sia acustiche che elettriche), flauto e sax tenore (quest’ultimo affidato alle mani sapienti di Mike Benson, Jorgen Munkeby e Rob Milne), quaranta minuti ispirati e tecnicamente ineccepibili che alternano citazioni di Gong, Marillion, Hatfield And The North, Caravan, Gentle Giant e Yes, senza mai apparire eccessivamente retrò o nostalgici. Gli Zopp compiono un deciso passo in avanti, con un progetto destinato a rinverdire ardori e discussioni tra i fan del progressive-rock, ma certamente non adatto a reclutare nuovi adepti. Un’opera fresca e stimolante, pronta a esplodere nella dimensione live.
A far da perno sono due lunghe composizioni (quasi undici minuti per “You” e oltre quattordici per “Toxicity”), puro concentrato di virtuosismi prog-rock, melodie post-Beatles, psichedelia e influenze jazz/Canterbury, due brani che, al di là di una lieve esuberanza sonora, reggono senza problemi il confronto con le fonti d’ispirazione.
In queste due tracce risiede anche una delle novità di rilievo di “Dominion”, ovvero il ruolo della voce, assente nel primo album, che aggiunge ulteriori nuance alle composizioni. Anche l’intensa melodia di “Amor Fati”, che apre l’album, è sottolineata dal canto, in questo caso un coro di voci femminili, Sally Minnear e Caroline Joy Clarke, che ben si amalgama con il tessuto strumentale e ne esalta la magia.
Non c’è nessun cedimento creativo in “Dominion”, a partire dalla brevissima “Wetiko Approaching” (un minuto e cinquantanove secondi), un concentrato di variazioni tonali di piano e tastiere degne della miglior tradizione canterburiana, che Ryan interpreta con consumata padronanza vocale.
Le restanti tre tracce restano ancorate alla formula strumentale dell’esordio, con un’ambiziosa partitura a base di organo, chitarre elettriche, basso e batteria che richiamano il furore delle fughe prog degli Emerson Lake & Palmer (“Reality Tunnels”), ai quali fa da contrasto un delicato interludio (“Uppmärksamhet”), mentre a “Bushnell Keeler” spetta il compito di mettere a fuoco con più decisione le assonanze con il Canterbury sound (anche se non manca un lieve brio funky), grazie a un riuscito intreccio di tastiere e fiati, impreziosito dal tocco magico del flauto e da una ricca elaborazione strumentale.
Con “Dominion” Ryan Stevenson e Andrea Moneta espandono il raggio d’azione della loro musica, assimilando stimoli e suggestioni affini culturalmente al progressive rock e al Canterbury sound, stemperando quelle ingenuità che avevano accompagnato l’esordio e candidando gli Zopp come autori di una delle opere più mature e apprezzabili della moderna scena prog.
(04/03/2023)