Scoprire che dietro il folgorante ritorno discografico di John Cale, "Mercy", si celasse un tesoro di ben ottanta canzoni, scritte durante il lockdown, pronte a far parte di nuovi progetti discografici, è stato scioccante e stimolante. "Poptical Illusion" di queste canzoni ne contiene ben 15, concettualmente e stilisticamente vicine alle raffinate divagazioni elettro-soul, hip-hop, r&b e funk del precedente disco, ma ai chiaroscuri di "Mercy" è subentrata un'attenzione alla luce e ai colori che cambia in parte la prospettiva.
Che la prevedibilità non fosse di casa nel mondo del gallese è cosa ben nota, non stupisce dunque che dopo aver dialogato con i fantasmi del proprio passato in "Mercy", con "Poptical Illusion" John Cale si diletti nel confondersi tra la folla sussurrando di paura del futuro, di amore e rabbia, con sferzante umorismo.
All'ansia e all'apprensione sono subentrati un lieve cinismo e un po' di rabbia, quest'ultima più evidente in alcuni titoli che nella sostanza sonora: i testi si aprono a tematiche più sociali, mettendo in risalto l'avidità e la scorrettezza della classe politica, mentre le canzoni vibrano di apparente spensieratezza e gaudio.
È un Cale ricco di risorse quello messo in campo da "Poptical Illusion". Le canzoni invitano a ripartire dai propri sbagli senza curarsi delle conseguenze - "Fai in modo che ti accada nel futuro, una vita migliore rispetto al tuo passato, evita tutti gli errori che abbiamo fatto quando eravamo più giovani" ("Davies And Wales") - le sottostanti cadenze pop sono stuzzicanti nonché memori del geniale album con Brian Eno "Wrong Way Up".
"Shark, Shark" non è solo uno dei due singoli che hanno anticipato l'uscita del disco, ma è anche una delle più graffianti e sarcastiche invettive contro gli orrori della vita moderna, un rock-blues in chiave industrial che ruggisce alla maniera di una moderna "Sister Ray". Quel che è evidente è l'abilità di John Cale di insidiarsi sotto pelle: accade in particolar modo con il sommesso ringhio trip-hop di "Funkball The Brewster", con l'onirica e oscura "I'm Angry" e con il groove noir di "Edge Of Reason", tre brani che, insieme al digital-noise di "Company Commander" (un'accusa contro la destra che brucia biblioteche come in "Farenheit 451"), graffiano con dolcezza ma lasciano un segno indelebile.
"Poptical Illusion" conferma l'interesse del musicista gallese per la musica trip-hop, considerata dall'ex-Velvet Underground come la più autentica tra quelle contemporanee, erede di una scena rock ormai estinta (stessa stima viene concessa solo ai Lankum). Cale resta uno dei veri trasgressori dei codici rock e pop: amalgama il minimalismo di Terry Riley con la sensualità del soul e del trip-hop in "God Made Me Do It (Don't Ask Me Again)", offre leggerezza e sapienza pop nelle vivida "All To The Good" e dispensa autentico romanticismo sulle pulsanti trame ritmiche di "Laughing In My Sleep".
In tutto questo splendido campionario che l'ex-Velvet Underground ha assemblato per "Poptical Illusion", fanno capolino un paio di piccoli capolavori da custodire con cura. Nel primo, "There Will Be No River" (una bellissima poesia sulla ciclicità degli eventi storici), Cale riprende in mano la viola per una ballata pianistica in stile Erik Satie, mentre per l'ancor più incisiva "How We See The Light" il musicista gallese sfodera una quantità di intuizioni armoniche e melodiche che si evolvono e si intrecciano con la stessa lucidità dei migliori Blue Nile o degli Lcd Soundsystem.
L'ottantaduenne musicista di Carmarthenshire saluta la vecchiaia con un album godibile e intrigante, che non mostra alcun segno di stanchezza o cedimento. La semplicità non è stata mai così complessa e "Poptical Illusion" non è l'ennesimo disco da accantonare tra le curiosità della produzione contemporanea: la lucidità artistica ed espressiva di John Cale è tale che viene da chiedersi perché nessuno lo abbia proposto per la Casa Bianca, l'età è quella giusta e la razionalità è quella di un giovanotto, ma anche questa è una poptical (pop e political) illusion.
22/06/2024