La prima delle news meritevoli di attenzione è che Moby quest'anno si è ricordato di celebrare le nozze d'argento col disco che gli ha regalato soldi, successo e fama imperitura, e quindi dedicherà a "Play" un mini-tour con la consueta stitichezza che lo contraddistingue in materia di live, opposta da sempre all'incontinenza che lo piglia quando si tratta di pubblicare nuovo materiale.
La seconda, ancora più importante visto che dalle nostre parti il newyorkese non si farà vedere, è che finalmente stiamo a discutere di un bel disco, come invece non lo erano stati tutti quelli che lo hanno preceduto da molto tempo a questa parte. Era dallo scintillante "Last Night" del 2008, infatti, che il bisnipote di Herman Melville non ci regalava emozioni degne di nota, reduce com'era da una pletora di dischi poco ispirati come "Wait For Me" e "Destroyed" e altri decisamente brutti, per esempio "All Visible Object" (appesantito oltre modo dall'orrida cover di "My Only Love", che il sommo Ferry lo perdoni).
Il tutto inframmezzato da un'infornata senza senso di pubblicazioni ambient, sino ad arrivare a questi ultimi anni post-pandemia, con la fastidiosa tassa orchestrale che prima o poi tutti i musicisti di successo che invecchiano devono pagare, e cioè "Reprise" e "Resound NYC".
È graditissima sorpresa - sinceramente in pochi ormai ci speravamo - ritrovare sprazzi del vero Moby in un album elettronico senza alcuna influenza rock e con una componente dance ridotta all'essenziale. Siamo qui posizionati in territori che furbescamente, ma con classe, vanno a strizzare l'occhiolino a "Play" ma soprattutto al successivo "18", da cui il primo singolo "Dark Days" sembra provenire.
Una lucentezza quasi cinematografica in molte tracce e atmosfere downtempo malinconiche e non sempre immediate, quasi dub, ricche di contaminazioni gospel, jazz e R&B.
Come in ogni sua produzione che si rispetti, Moby presta particolare attenzione alla questione vocale, lui che è sempre stato geniale nello scovare dal nulla voci sconosciute e renderle completamente partecipi dell'impianto sonoro che di volta in volta si accingeva a realizzare. In questo, "Always Centered At Night" non fa eccezione, con tredici perfetti vocalist su altrettante tracce.
Il suono severo del pianoforte su una ritmica gospel, un loop vocale sofferente e in dissolvenza con gli archi aprono l'album, ma già da "Dark Days" la voce si innalza verso atmosfere eteree e più cadenzate, sorrette da una raffinata impalcatura electro-blues. Finalmente, dopo tanto mestiere e poca creatività, ecco canzoni che arrivano al cuore e trasudano passione, desiderio di comunicare, con suoni che si fondono armonici in un'onda musicale in continuo movimento.
Il breakbeat veloce e sincopato quasi spoken word di "Where Is Your Pride" e le atmosfere sognanti in puro trip-hop di "Transit", dal ritmo rallentato con echi e accordi di piano a scandire il passaggio tra strofe e ritornello, anticipano "Wild Flame", gioiellino dal groove irresistibile, sostenuto da sintetizzatori e percussioni tribali, mentre basso e chitarra funky si intrecciano magnificamente con la voce black di Danaè, altra scoperta di Moby proveniente dal Sudan. Non ci sono riempitivi o episodi in tono minore, ogni singolo brano brilla di luce propria e si incastra alla perfezione col successivo, seppure siamo in presenza di un album più eterogeneo e quindi meno monocorde, in senso musicale, di quanto era lecito aspettarsi.
C'è spazio anche per un'indovinatissima cover di "We're Going Wrong" dei Cream, che brucia altrettanto lentamente e rimane quasi sospesa, con l'elettronica in primo piano a sostituire le chitarre originali.
Il finale arriva come un treno e ti investe di emozioni con l'ipnotica "Sweet Moon", una voce lamentosa che emerge dal buio, sorretta da schizzi di chitarra che iniettano note lunari di contorno a una fantastica visione notturna, e la conclusiva "Ache For", in cui la voce jazzata di José James, novello crooner, si accompagna al piano e alle delicate spazzolate del rullante, e ci regala l'istantanea perfetta in musica di una notte stellata newyorkese degli anni Sessanta.
"Always Centered At Night" è un disco che vale, un'opera di rinascita artistica che davvero rappresenta il meglio dello stile di Moby senza che per l'ennesima volta il concetto debba esserne abusato. Bentornato, "little idiot", ci eri mancato.
17/06/2024