Si presenta come pop, ma cambia pelle di continuo: sguscia, sbanda, si increspa, scintilla. E tutto con mezzi fuori asse rispetto all’industria.
“Pink Car” è il secondo album dei Racecar, trio scozzese dell’East Lothian che crea le sue visioni in casa, autofinanzia i progetti tramite crowdfunding (col sostegno dell'agenzia pubblica Creative Scotland) e intanto sogna archi, fiati, sessionisti: l’ambizione è quella di chi ha prospettiva e la alimenta a partire dal proprio soggiorno, con la consapevolezza però che realizzarla appieno richiede mezzi più ampi. E in effetti il disco – inciso in buona parte nel proprio home studio – è un esempio di bedroom rock che gioca su scala espansa, senza cedere mai a manierismi lo-fi e pose naïf.
Il riconoscimento ottenuto con il debutto "Orange Car", interamente inciso fra le mura della cantante Izzy Flower e premiato dalla Bbc con due track of the week, ha dato loro slancio e ambizione: “Pink Car" è il tentativo di alzare l’asticella, mantenendo la stessa creatività ma con mezzi più articolati. Ventimila sterline di budget hanno permesso alla band di coinvolgere musicisti esterni, un orchestratore esperto, e puntare ad arrangiamenti dal respiro strumentale allargato senza rinnegare le proprie origini casalinghe.
A partire da alcune solide pietre d'angolo - uno spirito orgogliosamente indipendente, un estro pop frizzante e scherzoso, una chiara proiezione in direzione electro e funk - Izzy Flower, Robin Brill e Calum Mason maneggiano i generi come moduli intercambiabili, senza mai perdere la bussola. Le affinità si affastellano, ma nessuna prevale: il disco ha il passo sghembo e sornione dei The Chap e ha qualcosa della teatralità stralunata dei Fiery Furnaces. A più riprese sembra flirtare con l’electro-funk ipervitaminico di Knower, ma qua e là pare richiamare perfino i resti fratturati della folktronica (Zammuto, Diagrams, Gablé), o il prog-pop imprendibile e camaleontico dei finlandesi Rubik. Un mosaico di echi, senz'altro perlopiù inconsci, che traccia dopo traccia prende forma e diventa linguaggio proprio.
Molti brani partono da un’idea apparentemente lineare e poi si deformano. “Got You Into It”, “Fall Leave” e “Whenever I” suonano come versioni Adhd del power pop, ma con una spinta ipercinetica e una saturazione di colori che, per chi ha familiarità col campo, viene spontaneo associare al rocambolesco power/prog dei Crying. “Zephyr” viaggia sui 7/8 come se fosse il tempo più naturale del mondo, trovando spazio per un basso incalzante e linee violinistiche che spingono la coda verso territori quasi Pentangle (o Stereolab? I due stili paiono intrecciarsi, e la voce pulita di Izzy Flower in qualche modo richiama entrambi). “Inevitable” parte da un’ossatura indie-pop per poi esplodere in una sezione orchestrale e cambiare ancora direzione con un rap finale – uno degli snodi più imprevedibili e spiazzanti del disco.
Ma c’è anche spazio per il raccoglimento e per un’estetica più rarefatta, come in “Metronome”, che si muove lenta e ipnotica tra sospensioni vocali e riverberi arborei, evocando l’etereo art-pop di Aurora. “Remains” esplora invece una direzione antipodale, con distorsioni elettroniche che si mescolano a momenti di limpidezza quasi danzereccia, con un tiro tra l’industrial e l’electropop. Ogni traccia sposta un po’ più in là il confine, senza però che il tutto rischi di sembrare un collage: la coerenza non è negli stili che si susseguono, ma modo in cui ogni deviazione sembra necessaria, nella fluidità con cui tutto cambia senza preavviso.
“Pink Car” è un disco di pop progressivo che non ha bisogno di proclamarlo. Lo dimostra canzone per canzone, trovando nella libertà e nell'autonomia - dagli steccati stilistici, dai cliché camerettari, perfino dalle etichette indipendenti - la sua forma più precisa.
23/04/2025