Precursore e modello del punk, resistenza spassionata allo stravolgimento della forma-canzone, sponda di semplicità nell’era degli eccessi che furono i primi anni Settanta: il power pop, spesso, lo si inquadra così. E non senza ragioni. La ripresa della leggerezza pop-rock dei primi Beatles e della sfrontatezza adolescenziale tanto coltivata dai mod, l’attaccamento al trittico strofa-ritornello-bridge (intervallata da assoli, sì, ma senza strafare), l’adozione dei timbri chitarristici taglienti dell’hard, senza però sposare i toni cupi dell’heavy metal: questi sono tutti elementi documentabili, ravvisabili da chiunque abbia ben presente anche soltanto “My Sharona”. Come facilmente tracciabile è l’ascendente di queste soluzioni sul punk rutilante dei Buzzcocks o sui Blondie di “Hangin’ On The Telephone” (che poi sarebbe una cover dei Nerves…), su Joe Jackson, sui Jam e da lì su una parte dell'hardcore punk e sui nascenti alternative rock e indie-rock, per poi giungere, sì, ai Weezer e a quella gente lì.
Tutto vero, insomma. Già. Però è solo metà della storia. Metà magari non proprio in senso numerico (la “corrente principale” del power pop forse muove davvero nella direzione evidenziata) ma sul piano stilistico-culturale. Perché la scuola canzonettara del guitar-pop anni Settanta ha seguito anche un’altra via, e non serve neppure scavare tanto per evidenziarla. Basta prendere in esame un paio di nomi chiave – facciamo Badfinger, Artful Dodger, Cars, giusto per disporre di un ventaglio sufficientemente variagato – e fare caso a quanto siano in realtà elaborati, grandiosi, colorati alcuni (la maggior parte?) dei loro pezzi. Essenzialità? Voglia di divertimento senza tanti fronzoli, quattro accordi e via, e l’ampollosità lasciamola ad altri? Non sembra il modo migliore per inquadrare i tre brani che aprono questa playlist, la sfavillante “Wayside” con i suoi cambiamenti di umore (e un assolo mezzo scippato da “Taxman”), “In The Meantime/Some Other Time” e i suoi voltafaccia sinfonici, eredi del Paul McCartney più magniloquente, “Bye Bye Love” con quell’apertura che pare presa di peso dagli Yes.
Il fatto è che alla varietà dell’esistente, in questo caso come in molto altri, stanno strette le scatole che costruiamo per ordinarla. Mentre alcuni brani power pop ben si adattano all’approccio back to basics che le narrazioni critiche hanno costruito sopra al (non) genere, altri mostrano un piglio assai più roboante e massimalista, canzonettaro, sì, ma assai attratto dall’esplosivo inventario di fantasie pirotecniche che la transizione Sixties-Seventies aveva messo a disposizione. Baroque pop, sunshine pop, pop progressivo e progressive rock, ma anche glam, pomp rock, Aor: tutti questi filoni presentano innumerevoli punti di contatto con gli sviluppi settantiani del power pop, e lo scopo di questa playlist è proprio metterli in evidenza.
Un'esplosione armonica
Superato il terzetto iniziale, si iniziano ad approfondire le connessioni in una sorta di percorso storico, dalla sorgente alla foce (con tutti i limiti che l’analogia presenta). Si parte dai barocchismi post-Beatles e subito si incontrano – sotto mentite spoglie – due personaggi fondamentali: Jeff Lynne e Todd Rundgren. Il primo, prima di dare vita alla Electric Light Orchestra, è mente e penna dei The Idle Race e si unirà ai The Move di Roy Wood, da cui prenderà vita il progetto che lo renderà maggiormente noto. Il secondo esordisce come membro e autore principale dei Nazz, avviando poi una ricca e celebrata carriera solistica e affermandosi come produttore (peraltro, anche dei Badfinger e proprio del primo album dei Cars). Le loro visioni complementari illustrano già, pienamente e sui due versanti dell’oceano, la traiettoria a cui si sta guardando: musica orgogliosamente ancorata al modello della popsong, ben consapevole che i soliti accordi sono, appunto, soliti perché efficacissimi nel fare il loro sporco lavoro; al tempo stesso, però, anche musica che ha attraversato da un capo all’altro la tana del Bianconiglio dalla psichedelia, e ne è emersa sì con lo sguardo frastornato dalla meraviglia, ma anche con l’ambizione di riconoscere il potenziale di ciascuna truccheria incontrata o pensata, metterlo al servizio del songwriting, farne uno strumento di design emotivo.
I brani immediatamente seguenti esplorano ulteriormente il territorio in cui la three-chord song si arricchisce di passaggi armonici eclettici, impiegati per dare colore, aprire le porte a sensazioni inattese, variare l’atmosfera anche solo per una breve parentesi. Il libro di accordi della coppia Lennon/McCartney funge da manuale delle istruzioni per tutta una serie di artisti dai nomi oggi poco ricordati, fra i quali tuttavia quello dello statunitense Emitt Rhodes ha vissuto nel corso del tempo di una meritatissima, ancorché minoritaria, riscoperta.
Proseguendo, seguire le orme del sunshine pop porta ai suoni via via più progressivi dei Crabby Appleton (formazione che condivide con i Millennium il chitarrista e cantante Michael Fennelly) e agli Stories, fondati dal bassista e cantante Ian Lloyd con Michael Brown dei Left Banke. “I Can’t Understand It” è un pezzo successivo all’addio di Brown, ma i due album precedenti non sono putroppo disponibili sulla piattaforma che ospita la playlist. Il brano, comunque, risponde perfettamente ai desiderata: piglio energico e raggiante, riffone prima-quinta-quarta che si vena di ombre già nella strofa con il passaggio di un accordo a minore (IVm), poi raddoppia nel pre-chorus con un ulteriore accordo minore, solo per poter scompigliare al meglio le carte nel ritornello grazie a una nuova raffica di accordi maggiori, con prestiti tuttavia da una tonalità differente.
I toni un po’ camp della canzone introducono adeguatamente l’infilata successiva, giocata su episodi tanto scintillanti quanto camaleontici e – in qualche caso – davvero difficili da etichettare. I neozelandesi Split Enz sono sicuramente una vecchia conoscenza degli appassionati di pop arty e stralunato (in una parola, ovviamente balenga: Zolo), ma le astrusaggini dei The Quick e del duo Mark & Clark Seymour, vertice di sfarzosità kitsch-rock per una dimensione parallela che non avesse conosciuto i Queen, raccolgono oggi, probabilmente, ben pochi aficionados. Meno strabordanti ma altrettanto eclettici i Graduate, che dietro a un suono un po’ mod, un po’ disco e un po’ 10cc nascondono le premesse di una carriera di grande successo: si tratta, guarda un po’, di Curt Smith e Roland Orzabal dei futuri Tears For Fears.
Diverse delle tracce finora incontrate assegnano un ruolo importante al piano, spesso impiegato in maniera percussiva ma dando risalto anche a note di passaggio e rivolti armonici. Emerge ancora un raccordo in genere tenuto in secondo piano, quello col piano-rock di Elton John o Billy Joel – i cui nomi, peraltro, non stonerebbero nell’elenco scegliendo episodi opportuni (per Joel uno qualunque da “Glass Houses”, per esempio).
Una splendente grandeur
È ancora Michael Brown, con i suoi Beckies, ad aprire una nuova sezione della compilation, ancora una mutazione che spinge questo power pop sovrabbondante al suo approdo più naturale – l’incontro plateale con il progressive rock e con i suoni larger than life che, specialmente in terra americana, andavano a declinarlo nella direzione del nascente Aor. Ecco dunque i tronfissimi e luminosissimi prog-rocker statunitensi Fireballet e Starcastle (fra i pochissimi ad avere mai inciso per major nel filone, e ovviamente anche i primissimi a venirne scaricati), ed ecco anche le mosse in direzione del mercato americano dei Gentle Giant – assai più apprezzati fra Canada e States che in madrepatria – e l’esperienza degli olandesi Kayak, che già nel 1973 combinavano le costruzioni del progressive rock sinfonico con un’attenzione alla brevità e all’effervescenza pop.
Forse l’inclusione dei canadesi Rush potrà suscitare sguardi perplessi, ma il pezzo scelto (e non solo quello: “Limelight” sarebbe andato altrettanto bene) ha tutti i crismi di un tagliente power pop dagli accenti hard e progressivi. Conoscendo un po’ la (limitata) scena prog americana, è a questo punto scontato accostare i Crack The Sky, da chi li ricorda etichettati spesso come “i Rush statunitensi” (anche se il pezzo in lista, a mo’ di chiusura del cerchio, ricorda più che altro i soliti Beatles). E a chi affidare la conclusione, se non a una band che, unendo hard, progressive, power pop, devozione per i Left Banke e attenzione maniacale al dosaggio dei diversi elementi musicali ha fatto la storia dell’Aor e del rock americano tutto? Con “It’s Easy” dei Boston questa storia alternativa del power pop giunge al suo compimento – non perché non possa proseguire (c’è la – contemporaneissima – playlist sul Fabloo apposta per dimostrarlo!) ma perché giunta a un punto fermo. Il punk, la new wave, l’indie-pop: tutti figli diretti o indiretti del power pop, certo. Ma c’è power pop – un altro power pop, ma anche lo stesso – il cui sbocco è stato alla vetta delle classifiche a stelle e strisce, non nelle vesti minimali e metropolitane della new wave neyorkese, ma in quelle assai più maestose e patinate dell’arena rock.
P.S. Lo si sarà colto, ma chi avesse apprezzato i brani di questa playlist farebbe bene a recuperarne altre a cui è strettamente collegata, a partire da quella dedicata al power pop comunemente inteso (tema anche di una puntata di BlahBlahBlah Ondarock On Air) e proseguendo con le selezioni sul sunshine pop e sul progressive pop anglosassone degli anni Settanta e su microgeneri rifuggi-categorie come Zolo e Fabloo. Per saperne di più sull’Aor, ecco infine le puntate di Rock in onda e BlahBlahBlah, la classifica dei migliori dischi del filone secondo la webzine Louder e un approfondimento/playlist sulla costola hi-tech Aor sviluppatasi negli anni Ottanta. Come sempre, buoni ascolti!