AFI

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Cantando il dolore

Fra gli anni 90 e i 2000, gli AFI sono stati fra le formazioni hardcore punk più coinvolgenti, tra melodie antemiche, atmosfere emozionali e tinte dark. Ma negli ultimi anni non hanno mantenuto la stessa genuinità

di Alessandro Mattedi

Il periodo che va dagli anni 90 ai primi anni 2000 ha visto salire alla ribalta molte formazioni punk-rock e hardcore che hanno acquisito notevole popolarità, mostrando tanto una forte carica melodica e incalzante, quanto momenti più riflessivi, sonorità più dirette e scanzonate da un lato o più malinconiche ed emozionali dall'altro. Sono così saliti alla ribalta gruppi come gli Offspring, i Rancid, i NOFX o i Bad Religion; accanto a loro, e un po' più in ritardo prima di ottenere successo commerciale, ci sono gli A.F.I., acronimo di A Fire Inside. Nel corso degli anni 90 e 2000 si sono consacrati internazionalmente come una delle formazioni hardcore melodiche più celebri, con uno stile che dagli esordi più grezzi ed energici si è poi man mano melodicizzato e fatto sempre più raffinato e ricercato, aggiungendovi pervasive atmosfere gotiche, spruzzi elettronici, elementi alternative-rock e ritornelli emozionali. Coi loro guizzi melodici e i singulti emotivi hanno confezionato alcune hit antemiche di grande successo, ma negli ultimi anni la loro ispirazione è calata e le pubblicazioni hanno perso di qualità. Ripercorriamone la carriera.

Il gruppo si forma nel 1991 a Ukiah, vicino San Francisco, dall'incontro di Davey Havok (cantante), Mark Stopholese (chitarra) e Vic Chalker (basso), quest'ultimo rimpiazzato dopo poco da Geoff Kresge. A loro si aggiunge Adam Carson, che stava imparando a suonare la batteria. Detto con schiettezza, tutti "stavano imparando" praticamente da zero, e imparavano in fretta con sessioni lunghe ed estenuanti nei garage e negli scantinati a coverizzare gli idoli della loro adolescenza, portando al massimo impegno l'approccio do-it-yourself della cultura punk. Davey Havok avrebbe commentato con sarcasmo quel periodo alcuni anni dopo: "Eravamo davvero stupiti di come riuscimmo addirittura a mettere assieme la nostra mer*a abbastanza da pubblicare uno split".
La California è una terra di punta nel campo hardcore-punk, avendo tra l'altro dato i natali a molti dei massimi capolavori del genere e ai pionieri più influenti (Dead Kennedys, Fear, Germs, Social Distortion, Adolescents e Black Flag, tra i tanti). Il neonato gruppo trova molta affinità soprattutto nella corrente dell'hardcore melodico e in album come "No Control" dei losangelini Bad Religion, che divorano nota per nota. Ma a ciò aggiungono anche un discreto interesse per l'horror-punk dei Misfits, un sottogenere del punk-rock influenzato dal post-punk, dal primo gothic-rock e dal rockabilly, con particolari caratteristiche estetiche e liriche ispirate dai B-movie horror. Dai Misfits i quattro riprendono l'estetica e gli elementi più dark.
Naturalmente gli A.F.I. dei primi anni sono un po' differenti da quelli che avrebbero poi ottenuto successo internazionale, maggiormente influenzati dal rock alternativo, dall'emo e dal punk-pop. Ciò è vero in primis perché il gruppo avrebbe sperimentato dei cambi di line-up che sarebbero stati significativi per la direzione musicale. Ma le origini di questi cambiamenti sono state possibili grazie a un'attitudine aperta che si può riscontrare fin dagli esordi; pur nella loro differenza, presentavano già il substrato per far attecchire i semi dei successivi cambiamenti.

Il debutto ufficiale arriva nel 1993 con l'Ep Dork, uno split assieme ai Loose Change che mostra tanta acerbità quanto il talento dei californiani, anticipando il primo Lp pubblicato due anni dopo.
Answer That And Stay Fashionable è ispirato al film "Reservoir Dog" (Le iene) di Quentin Tarantino, dalla parodia in copertina fino alle citazioni inserite nell'album. Il disco contiene anche una cover di "Man In A Suitcase" dei celebri Police, rimpiazzata nella successiva ristampa da una cover di "Open Your Eyes" di un gruppo punk-rock minore, i Circus Tents. Si tratta di un album di genere, che non aggiunge nulla ai canoni dell'hardcore-punk. Le canzoni inoltre tendono ad assomigliarsi troppo e la prova vocale di Havok è tendenzialmente piatta, per lo meno rispetto alle sue future performance. Si tratta comunque di un album veloce e potente, e i brani rimangono d'impatto, straripanti di energia e dai testi ironici e spiritosi. Fra bassi intermittenti, "gang vocals" e schitarrate che colpiscono in faccia, il risultato, pur non rimanendo negli annali, mette in buona luce il gruppo nel circuito punk & dintorni underground. Ciò gli porta un contratto con la Nitro Records, l'etichetta indipendente di Dexter Holland degli Offspring.

Il secondo disco, Very Proud Of Ya, mantiene l'approccio diretto e "up-to-face". Non ci sono particolari cambiamenti, è giusto semplicemente un po' più breve ma con più brani. Ci sono pezzi interessanti, ma gli ingredienti sono un po' riciclati da punk-rock e hardcore melodico per arrivare alla lunghezza di un Lp. La proposta, comunque, piace alla scena underground che vede negli A.F.I. uno dei gruppi più in forma nel panorama hardcore-punk, ma manca di quell'appeal commerciale che sta facendo in questi anni la fortuna di varie altre formazioni affini e che gli impedisce di consacrarsi. La maggior parte della stampa musicale comincia anche a trovarli troppo ripetitivi (tranne nello zoccolo duro più fedele al mantenersi "duri e puri"). Artisticamente ciò non è per forza un male: può permettere ai californiani di mantenere spontaneità nelle composizioni e aggressività genuina negli attacchi di chitarra e nel canto. Ma il rischio è sempre quello di sfociare nella monotonia.
Durante il tour successivo, il bassista Kresge lascia il gruppo e al suo posto subentra Hunter Burgan, non solo per completare i concerti ma anche come membro ufficiale.

Col terzo album, Shut Your Mouth And Open Your Eyes, il gruppo mostra due lati della stessa medaglia. Da un lato, i quattro sono più maturi e consapevoli delle proprie capacità, il che permette loro di azzeccare una quantità maggiore di riff inicisivi, di attacchi vocali accattivanti, di giri di note più congeniali per comporre ed eseguire ciò che intendono esprimere con la musica. Dall'altro, le coordinate stilistiche iniziano a star loro strette, non solo perché grazie a quest'album gli A.F.I. iniziano ad acquisire una fanbase più estesa con maggiori interessi musicali, ma anche perché gli stessi membri del gruppo sentono di voler staccarsi dalle loro origini e proseguire verso maggiori contaminazioni stilistiche. Nell'album si avverte un maggior peso delle influenze horror-punk del gruppo. D'altronde, si accentuano anche le aperture melodiche, senza mai sfociare direttamente nel gothic-rock, ma col senno di poi si nota come ci sia un'evoluzione coerente che porterà agli album successivi. È presente un quinto membro "fantasma" del gruppo, che contribuisce alle backing vocals: è Jade Puget, amico di vecchia data di Davey Havok, nonché ex-membro dei Loose Change (e dei Redemption 87), quelli dell'Ep split iniziale. All'interno del booklet è indicata la frase "A Fire Inside": è la prima volta che viene citata esplicitamente e da questo momento in poi sarà l'acronimo ufficiale del gruppo.

La frase viene ripresa subito dopo per l'Ep A Fire Inside, in cui si notano soprattutto le due cover di Cure e Misfits (escono anche altri Ep in questi anni, ma a tiratura molto limitata e trascurabili, se non per i fan collezionisti).

Il cambiamento maggiore fino a questo punto avviene nel 1999 con Black Sails In The Sunset. Infatti Mike Sopholese lascia la chitarra e al suo posto subentra proprio Jade Puget. È il cambiamento più significativo, perché Puget è un'iniezione di novità sonore nella musica del gruppo. Il suo stile è molto meno ruvido e granitico di quello di Sopholese: meno "thrashy", tendenzialmente più "grunge", ha un tocco più delicato delle corde e si concede maggiori aperture melodiche e atmosferiche. Ciò non gli impedisce di suonare bruciante e di preparare riff ad alto impatto, ma li contornia con una cura inusuale nel songwriting e varie raffinatezze compositive.
Il disco nella sua nicchia ottiene il riconoscimento della critica, facendosi apprezzare soprattutto con le canzoni più lunghe e relativamente più articolate, così come attraverso le atmosfere più corpose, che danno la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di più "profondo". Il merito è anche dei testi più introspettivi e malinconici, influenzati molto dalla darkwave inglese e dal deathrock americano. Nel brano nascosto "Midnight Sun" viene anche citato Charles Baudelaire.
Davey Havok ha nel frattempo modificato il suo stile canoro, tramutando le urla sguaiate in un canto gridato forte e controllato che a volte sfocia nell'emo/screamo, altre volte si colora di tinte cupe, vicine a David Bowie e a Robert Smith. Stiamo ancora assistendo alla trasformazione del gruppo, non abbiamo però di fronte la creatura finale.

The Art Of Drowning esce nel 2000 ed è fino a questo istante il capolavoro degli A.F.I.
Il loro hardcore-punk a tinte cupe si fa ancora più pessimista e intimista, a cominciare dal titolo dell'album che si riferisce, nelle parole di Havok, all'autodistruttività della specie umana, che si preoccupa solo dei propri bisogni personali e del proprio egoismo, ma si dimentica le proprie responsabilità verso il mondo. La copertina stessa è di aspetto pienamente horror-punk stile Misfits, e il primo brano (escludendo una breve intro di 30 secondi) si chiama in maniera abbastanza esplicita "The Lost Souls", accompagnando i riff brucianti di chitarra con possenti e intermittanti bassi a rendere il tutto più tetro.
C'è però un aspetto di riscossa, non si sfocia nella misantropia fine a sé stessa, ma si cerca di scuotere l'ascoltatore facendolo riflettere sui temi cari al gruppo e prendere atto di quelli che gli americani ritengano siano i cambiamenti personali da condurre (come nel singolo "The Days Of The Phoenix"). Ciò si ricollega anche alle influenze della cultura straight edge.
I brani sono di una potenza più calibrata e smussata rispetto al loro passato, ma impressionante per la carica malinconica che l'accompagna tra le righe. La durata dei brani ormai è stabilmente più lunga della media punk-rock, viaggiando in media sui 3-4 minuti, in maniera più congeniale al rock alternativo; non a caso, il disco ottiene un discreto successo commerciale, con molti brani riprodotti su stazioni radio anche non legate al punk. Vi sono inoltre i primi sprazzi di elettronica (come in "The Despair Factor", che sarebbe diventata un inno del gruppo).
Molti giornalisti musicali iniziano in questo biennio a definire il gruppo "gothic-punk", ma gli A.F.I. rigettano la definizione. Rimane certo, nel complesso, ancora un album legato all'hardcore-punk melodico (soprattutto quello di Ignite, NOFX e primi Offspring) e al post-hardcore più ricercato; ma le contaminazioni horror-punk e gothic, nonché le cesellature certosine della chitarra di Puget (che non disdegna stratificazioni o doppi attacchi) si fanno ormai persistenti. Il risultato è di sorprendente spontaneità ed equilibrio tra le verie tendenze. Ed è l'ultimo disco per l'etichetta indipendente Nitro Records.

Il culmine del percorso evolutivo del gruppo arriva nel 2003 con l'ambizioso Sing The Sorrow, debutto su major, per la DreamWorks, che rappresenta un netto taglio rispetto al passato per i quattro californiani. È il loro album di maggior successo commerciale (disco di platino) e probabilmente il loro album migliore, assieme al precedente, con cui forma un rapporto di complementarietà. E' il balzo in avanti più lungo della loro progressione stilistica, tanto che The Art Of Drowning a confronto appare ancora come il lato più hardcore-punk del gruppo. Sing The Sorrow ha ormai definitivamente trasformato la musica in una forma di ballata hardcore molto melodica e atmosferica, sicuramente molto influenzata dal gothic-rock, dall'emocore e dall'alternative-rock, ma soprattutto arricchita da raffinatezze compositive che riescono nel difficile compito di coniugare impeto, orecchiabilità e versatilità.
Anche se i puristi punk-rock più underground potrebbero storcere il naso per una intro come "Miseria Cantare" - con i suoi suggestivi tappeti di tastiera, l'imponente rintocco della batteria e il canto sentimentalista di Havok con cori epici e infuocati di sfondo - il disco sancisce il successo commerciale e di critica del gruppo, che ottiene finalmente la celebrità internazionale. Il singolo "The Leaving Song, Part II" è l'apice dell'opera, con riff brucianti memorabili, un arrangiamento particolareggiato e spunti vicini al dark-metal. Altrettanto intensa è "...But Home Is Nowhere", con il suo ritornello anthemico e le esplosioni di rabbia e malinconia ad alternarsi tra loro.
Forse si può imputare al gruppo che tutta questa nuova attitudine dark, così emozionale e malinconica, risulti a volte un po' troppo palesata, al punto da apparire artificiosa. Non a caso, molti fan di vecchia data ormai gridano al tradimento. Ma per tutti gli altri resta un nuovo traguardo superato: il riffing creativo di Puget e il canto appassionato di Havok riescono a tirare fuori uno dei dischi punk più riusciti del 2003.

La formula viene ulteriormente approfondita tre anni dopo con Decemberunderground, che vede il gruppo insistere sul lato più melodico e atmosferico. È un disco molto catchy, che sembra fungere da filo conduttore che ricolleghi gruppi come Offspring, Finch, My Chemical RomanceU2 e Cure. Nel suo genere è di buon livello, ma si posiziona almeno un gradino più in basso rispetto ai due precedenti, perché perde un po' di intensità e si avvicina, a tratti, al manierismo. Ciò che ha caratterizzato in maniera particolarmente efficace il gruppo in questi ultimi anni è stato l'equilibrio fra tendenze diverse, il mescolare bianco e nero, il sapore dolceamaro che rendeva i brani piccole perle di energia, commozione, adrenalina, introspezione e tragicità allo stesso tempo. Questo gioco di chiaro e scuro viene ricordato dal gruppo nel titolo stesso del disco, che mette a contrasto il gelo dell'inverno di dicembre e il fuoco del loro rock. Stavolta, però, il quartetto mette un po' in secondo piano l'aspetto più tagliente per concentrarsi su quello malinconico ed emotivo. Il risultato è evocativo, con un Havok più in forma che mai dal punto di vista lirico ed espressivo. La formula, però, non è spiazzante come in precedenza, e a tratti risulta un po' prevedibile. La stessa orecchiabilità in alcuni momenti appare forzosa. Rimane in ogni caso l'ovvio risultato dell'evoluzione del gruppo fino a questo punto, ed è, ancora una volta, innegabile la classe compositiva dei musicisti, soprattutto nei pezzi più coinvolgenti ("Kill Caustic", "Miss Murder", "Summer Shudder", "Love Like Winter," "37mm"). Col senno di poi, è un album apprezzabile, soprattutto rispetto a quanto pubblicato successivamente.

Nel 2009 esce Crash Love, che prosegue il discorso melodico andando a enfatizzare ed espandere influenze più emo-pop, power-pop e punk-pop. Il risultato, però, non convince appieno: troppo di maniera, poco incisivo. Le stesse parti malinconiche perdono di genuinità e sembrano più un calco dei Placebo al ritmo dei Green Day. I testi si fanno più banali e stereotipati. I suoni puliti e precisi iniziano a sembrare eccessivamente laccati. Viene messo da parte l'aspetto più variopinto di Decemberunderground, di cui Crash Love appare come una versione diluita e monotona. Si tratta di un disco troppo lineare dal punto di vista stilistico, discontinuo qualitativamente e ben più prevedibile, che fatica a centrare il guizzo melodico a differenza dei predecessori.
Svettano nell'insieme ritornelli anthemici come quelli di "End Transmission" e i contrappunti zuccherosi di "Darling I Want To Destroy You,", purtroppo rovinati da liriche che sembrano la parodia di Havok. Il resto del disco, tuttavia, è insipido.
Nonostante le recensioni positive su alcune riviste di settore, Crash Love delude il pubblico e non viene premiato neanche dalle vendite.

Il risultato non cambia granché con Burials, del 2013, dove è palese la crisi di idee del gruppo, che tenta di suonare più profondo e cupo, ma ricicla sé stesso senza trovare la giusta combinazione di melodia ed energia. Negli intenti il disco dovrebbe essere un intrigante ibrido di punk-pop e goth-rock, aggiornando lo spirito dei Joy Division a quello dell'epoca post-hardcore ed emocore. Ma il risultato, nella maggior parte delle canzoni, lascia a desiderare. Salvo poche eccezioni ("A Deep Slow Panic", "The Conductor") quasi tutti i brani suonano annacquati, anonimi, difettando del gusto creativo che aveva contraddistinto i dischi di dieci anni prima.

Per l'inizio del 2017 viene rilasciato il nuovo album omonimo, ma immediatamente noto come The Blood Album a stampa e pubblico per via della copertina. Decimo lavoro in studio per la simbolica stellina sullo scudetto, adotta un approccio riepilogativo, ripercorrendo anche i lontani primi dischi con l'intento di riprenderne alcuni elementi che vengono miscelati al discorso intrapreso con gli ultimi lavori. In pratica, una strizzatina d'occhio ai fan originali del gruppo, senza perdere di vista quelli più recenti.
Purtroppo, forse proprio per via della forzata sintesi, non vengono rievocate del tutto le qualità che quei dischi, pur ancora molto acerbi, mostravano, ovvero la potenza capace anche di forte emozionalità, l'energia viscerale e genuina. Più che a esaltare la melodia più mainstream degli ultimi tempi con l'energia degli esordi, la band sembra invece dedita a stemperare l'energia con l'accessibilità al grande pubblico. Non è necessariamente un male: nei suoi momenti migliori, l'album si mostra davvero orecchiabile e può spingere i fan recenti ad approfondire la discografia del gruppo. Ma altrove si cade nella monotonia e nella prevedibilità. E non sempre i bassi che rievocano la darkwave o il palm-muting delle chitarre risultano particolarmente ispirati, anzi, a volte appaiono espedienti artificiosi, allontanando il ricordo dei picchi di melodramma di metà carriera. 

Nel 2021, dopo quattro anni di attesa, gli AFI decidono di scoprire le carte in tavola e aprirsi del tutto al loro amore per le sonorità wave anni 80: Bodies è un lavoro nostalgico, curato nella ricerca sonora, innaffiato di atmosfere lievemente malinconiche ma senza strafare, trascinato dalla voce espressiva di Davey Havok. Se si eccettua l'iniziale "Twisted Tongues", catchy e solare, e alcune parentesi un po' più schitarrate come le punk-pop "Looking Tragic" e "No Eyes", il lavoro pesca a piene mani dal periodo post-punk e dark. Ci sono nenie cullanti che ricordano i Cure ("Dulcería") e gli Smiths ("On Your Back"), piccole pennellate synth-pop miscelate agli arrangiamenti chitarristici ("Escape From Los Angeles"), rimandi ai Siouxsie and the Banshees e ai New Order ("Death Of The Party"), malinconici mix tra Joy Division e Green Day ("Begging For Trouble").
La fedeltà sincera e appassionata a certe sonorità è apprezzabile, la volontà di seguire la propria ispirazione anche, ma a mancare spesso è la scrittura delle canzoni. Gli AFI alternano pezzi forse non brillanti, ma efficacemente ispirati, ad altri che suonano rattoppati con pochi spunti melodici senza troppa convinzione. In particolare, le canzoni più carismatiche si concentrano nella prima metà dell'album, mentre nella seconda si fanno più stantie, quasi esercizi di stile fini a sé stessi. La finale "Tied To A Tee" è una marcia funebre dolceamara in cui il gruppo cerca di esaltare l'atmosfera, ma è penalizzata dalla ripetitività, dal contrasto non efficace tra gli arrangiamenti volutamente scarni e il ritornello emotivo, e dall'improvvisa conclusione non enfatica.
Per la maggior parte, le canzoni sono brevi, retaggio delle origini del gruppo, il che da un lato è un aspetto positivo perché il disco scorre immediato e fluido, ma dall'altro il tutto suona meno sviluppato e profondo di quanto potrebbe. Gli AFI hanno però trovato gli ingredienti a loro più congeniali e si può vedere con fiducia al loro futuro.

Così si chiude, per il momento, la discografia degli AFI. Il declino degli ultimi anni non compromette l'impronta personale e originale mostrata dalla band californiana nel corso della stagione più ispirata della sua carriera. Chi vorrà cimentarsi in questi territori dovrà necessariamente fare i conti con gli A Fire Inside.

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Discografia



Dork / Stick Around(mini split,Key Lime Pie, 1993)
Answer That And Stay Fashionable(Wingnut, 1995)
Very Proud Of Ya(Nitro, 1996)
Shut Your Mouth And Open Your Eyes (Nitro, 1997)
A Fire Inside(Ep, Adeline, 1998)
Black Sails In the Sunset (Nitro, 1999)
The Art Of Drowning (Nitro, 2000)
Sing The Sorrow(Dreamworks, 2003)
AFI(antologia, Nitro, 2004)
Decemberunderground(Interscope, 2006)
I Heard A Voice – Live From Long Beach Arena (live, Interscope, 2007)
Crash Love (Interscope, 2009)
Burials (Republic, 2013)
AFI (The Blood Album)(Concord, 2017)
Bodies (Ex Noctem Nacimur, 2021)
Pietra miliare
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