DIVENERE – Forever (2018, autoprodotto)
shoegaze, dream-pop
Non sono certo musicisti di primo pelo i materani Divenere, in pista dal 2005 e da tempo trasferiti a Roma, con quattro album già alle spalle. “Forever” è il lavoro che delinea una svolta decisiva nel loro percorso artistico: presentato come un Ep, ha tutti i crismi del lavoro compiuto, vuoi per il numero di tracce (7, quindi quasi un album), vuoi per la durata complessiva, vuoi per la qualità del materiale inserito. Grandi melodie, cascate di chitarre elettriche, tensione emotiva altissima: accantonati gli esordi di matrice indie e new-wave, le attuali coordinate musicali si dirigono in maniera forte verso dream-pop e shoegaze. Lo strumentale “Willy Wonka” e ancor più la dolce “7 Months Of Prudence” (con una coda da antologia) sono i due brani chiave, in grado di far sciogliere persino l’ascoltatore apparentemente più indifferente. Ma anche la successiva “When You Say Goodbye” non scherza mica. Merita una menzione speciale la bella copertina in formato 45 giri, realizzata da Albertine Simonet ed Emanuele Manco. Claudio Spagnuoli, voce e chitarra dei Divenere, ha prodotto pochi mesi fa l’ottimo “Sentimentale/Jugend” che ha segnato il ritorno in grande stile dei Kimt 1918. Ecco che tutto torna… (Claudio Lancia 7/10)
GIANLUCA MONTEBUGLIO – È tutto bellissimo Ep (2018, Octopus Records)
songwriter
Ascoltando le cinque tracce del primo Ep di Gianluca Montebuglio verrebbe da esclamare “Campania felix” a voce altissima. Già, perché la formula cantautorale del musicista casertano è ricca di trovate acustiche graziose e penetranti. Una ricetta sonora che trova terreno fertile grazie anche a una narrazione spontanea, con passaggi metaforici significativi (“La moglie di Anselmo ha capelli di amianto e l’amore come solo argomento” da “Io, libero”), ammiccanti esternazioni (“Sussurravi che scoparmi è come amare un angelo di carne e sangue, e tutto è niente” da “Lei invece è Gaia”), e fugaci imprecazioni atte a evidenziare tematiche contemporanee come il disagio di chi vive sulla propria pelle un’incessante emigrazione (“Bestemmiano i padri dei loro figli andati” da “Cose blu”). L’accostamento stilistico che salta all’orecchio è quello con i benemeriti Virginiana Miller del magnifico “Gelaterie sconsacrate”, ma è un rimando che resta in superficie. Montebuglio ricama la propria tela acustica con melodie leggere, stuzzicanti, personalissime. Non mancano soluzioni singolari, per l’occasione curate in cooperazione con l’ottimo polistrumentista Lorenzo De Gennaro (in cabina di regia anche per quanto concerne la produzione artistica) come l’elettronica posta da tappeto al ritmo dell’open track, o i meravigliosi fraseggi di “Ettore e gli altri”. Un esordio breve e avvincente, a cui segue inesorabile la necessità e la voglia di ritrovarsi dinanzi al primo Lp. Buona la prima (Giuliano Delli Paoli 7/10)
GIACOMO SCUDELLARI – Lo Stretto Necessario (2018, Brutture Moderne)
folk, songwriter
Disco di debutto per questo ravennate nato nel 1986, e che, da solista, aveva pubblicato solamente un Ep nel 2013. Queste nove canzoni hanno una struttura compositiva, sonora e ritmica che richiama la canzone italiana tradizionale, e anche nei testi si parla di argomenti d’altri tempi come la sambuca, le taverne, il dar da bere agli orti. Scudellari e il produttore Francesco Giampaoli (Sacri Cuori, Classica Orchestra Afrobeat) sono però abili nel dare al risultato due aspetti importanti: da un lato, il giusto tocco di modernità che non snatura il carattere classicista della proposta ma la porta lontanissima dal risultare puramente retrò e nostalgica; dall’altro, una freschezza contagiosa in ogni aspetto del lavoro, suoni, melodie, timbro vocale e testi. Si può essere introspettivi e lanciarsi in riflessioni e auto-analisi partendo dalle vicende della quotidianità anche con un’attitudine positiva e propositiva, e questo disco ne è un perfetto esempio (Stefano Bartolotta 7/10)
PMS - Di Giallo E Grigio (2017, Arealive)
alt-pop, classical
Le due giovani musiciste napoletane - Martina Mollo (voce, piano, synth) e Caterina Bianco (voce, violino, viola) - provengono da un'educazione classica ma dal 2016 hanno intrapreso un lodevole percorso nella muis a popolare colta che sconfina nel pop. Dopo l’esordio di “Premenstrual Syndrome Ep” (2016), il nuovo “Di giallo e grigio” passa da momenti modern classical a percussioni elettroniche con canti bizzarri che ricordano la scuola milanese del Rock In Opposition della Cooperativa L'Orchestra, in particolare i Mamma non piangere. Ideato per stare su un vinile, divide i brani nettamente in due parti; i primi brani seguono un percorso vocale (l’ipotetico lato A) con i testi di Martina Mollo, figlia di Massimo Mollo del Gruppo Operaio E' Zezi. Notevoli i cori in napoletano di “Il cielo gonfio di giallo e grigio”, come anche l’inatteso drumming di “Lo scrivo in nero”. La seconda parte (l’ipotetico lato B) è un insieme di citazioni colte che esplorano territori tra minimalismo e musica classica moderna. Dal lento incedere di piano e violino di “Catarsi” alle atmosfere lente e tenebrose di “Salendo il Moiariello” ai malinconici archi di “Ritorni”, tutto ci porta a una musica colta capace di comunicare emozioni (Valerio D’Onofrio 6,5/10)
CANÌS - Effetto Doppler (2018, Lapilla)
songwriter
Già cantante di un complesso di cover, Daniele Soriani (proveniente da una sperduta frazioncina dell’entroterra pavese) debutta con l’alias Canìs con “Effetto Doppler”, un concept da subito distinto per i titoli delle canzoni, i mesi dell’anno (più un finale eponimo). Fin troppo sfacciata è l’imitazione di Tom Waits via Capossela nel preludio “Gennaio”, ma è solo un antipasto a dire il vero anche fuorviante. I mix d’arrangiamento a seguire sono altamente personali: in “Febbraio” e “Luglio” Soriani fa coesistere un palpito reggae con fanfare solenni di legni, un galop alla Conte e una ballad pop; l’impressionismo da camera di “Aprile” e “Novembre” si accende ed eccita in un bolero; il concertino in “Maggio” quasi approccia quelli di Kevin Ayers; in “Ottobre” compaiono percussioni metalliche, al punto da rassomigliare a un omaggio agli Einsturzende Neubauten. E così via. Disco insieme conciso ed istrionico, anche dal punto di vista vocale, canta di apatia, indifferenza, rimpianti antichi. Ammirevole per le orchestrazioni, ingrommate di retrò e non esattamente rivoluzionarie ma forti, spontaneamente spumeggianti. Quando zoppicano vanno sul sicuro con Dalla (“IX Settembre”) e il folklore (una mazurka per piano, “Marzo”). Corretta la chiusa, dedica in silenzio. Uno dei migliori esordi di cantautorato tricolore del 2018. Co-produzione con Ponderosa (Michele Saran 6,5/10)
KEROUAC – Ortiche (2018, Granita Records)
urban songwriting
Album di debutto per il 21enne padovano Giovanni Zampieri, che punta sull’unione tra songwriting classico e suoni di matrice urban, in modo da dare la maggior concretezza possibile a un cantato che punta principalmente sull’emotività e a testi che raccontano di come un ragazzo dei nostri tempi possa sentirsi a disagio per colpa di certe convenzioni sociali e della sensazione di non poter esprimere compiutamente la propria personalità a causa dell’eccesivo controllo imposto su tutti noi dall’alto. L’idea è buona e tecnicamente ben realizzata, grazie ad una buona varietà negli arrangiamenti, comprese le parti ritmiche, a un cantato che trova un buon equilibrio tra essenzialità ed espressività e a testi realmente evocativi degli stati d’animo che rappresentano. Il problema è un’eccessiva uniformità melodica lungo tutto il disco, così che, man mano che si va avanti, è sempre più difficile prestare la giusta attenzione. Kerouac, quindi, mostra di essere già in grado di realizzare buone canzoni, ora deve lavorare anche affinché il loro insieme abbia la stessa efficacia dell’elemento singolo (Stefano Bartolotta 6.5/10)
ALBERTO LA NEVE & FABIANA DOTA – Lidenbrock: Concert For Sax And Voice (2018, Manitù Records)
jazz
Le suggestioni mistiche di Kamasi Washington, colui che sta sdoganando il jazz contemporaneo presso gli ambienti indie, potrebbero essere state determinanti, o quanto meno aver costituito un punto di riferimento decisivo nella scrittura di questo concept che prende spunto dal romanzo di Jules Verne “Viaggio al centro della terra”. Il sax tenore di Alberto La Neve (che ha anche composto il tutto) disegna gli scenari sonori sui quali si adagiano i vocalizzi di Fabiana Dota, a metà strada fra fascinazioni mediorientali e tradizione italiana. Il disco è una suite in quattro movimenti, tesa a ripercorrere alcune delle tappe fondamentali del romanzo di Verne, immaginando una sorta di percorso scandito dei titoli “Dèpart”, “Islande”, “Sneffels” e “Retour”. E’ jazz contaminato con etno-folk ed elettronica: loop machine, multi effetti, field recordings e improvvisazioni creano stratificazioni sopra una tela intessuta prevalentemente grazie agli apporti di sax e voce. Una prova più che convincente da parte di entrambi gli artisti coinvolti (Claudio Lancia 6,5/10)
USING BRIDGE - Floatin’ Pieces (2018, autoproduzione)
grunge
Romagnoli, in quartetto (voce-basso, due chitarre, batteria), Using Bridge ribadiscono la loro vocazione di ferro per Pearl Jam, Soundgarden e Queens Of The Stone Age in “Floatin’ Pieces”, contemporaneamente ingaggiandone una competizione a distanza. “Amigdala”, boogie tribaloide con pianoforte da saloon, poco canto e ferino, un duello di chitarre affilate, e pure qualche allucinazione, è finora il miglior brano della carriera. Poco sotto stanno la title track, più dance alla “Mammagamma” di Alan Parsons che hard-rock, e la corsa scalmanata di “Werewolves” (forse un po’ troppo alla “Feel Good Hit Of The Summer” dei Queens). La ballata alcolizzata “Velvet Sky” è invece pura e semplice imitazione dei classici che comunque, vuoi per furia o impeto, non scivola nella copia-carbone. Negli 8 minuti di “God Knows” persino azzardano - ma i risultati sono misti - una dilatazione psichedelica. Quarto disco dalla fondazione del complesso (2002), un acerbo “Sha-Wao” (2004), un’evitabile rivisitazione unplugged, “A Night In Acousticland” (2012), per completare gli scimmiottamenti del grunge storico e accompagnare un “And I Will Be Heard” (2012) senza una gran direzione. Dunque un po’ il loro debutto: creatività al minimo sindacale e buoni quattro pezzi (su nove) giù di giri, eppur carico di trasporto e, nonostante l’incompiutezza, proliferante di distorsioni esacerbate, assalti e ringhi (Michele Saran 6/10)
BABEL FISH - Follow Me When I Leave Ep (2018, Tempura Dischi)
post-rock
Quartetto del modenese devoto al più classico post-rock italico, Babel Fish debutta con un Ep omonimo (2017) registrato in presa diretta in un teatro. A distinguerli, e dunque a giustificare la loro esistenza, è la tessitura discretamente fitta di arpeggi e accordi, e un tempo qua e là scattante. Un anno esatto dopo gli fa seguito un secondo Ep, “Follow Me When I Leave”, ancora chiaramente di transizione. Non si va per brani interi ma a singoli momenti o singole caratteristiche. Da “Morning Birds” si estrapolano gli arpeggi sospesi, tendenti alla stasi, a sua volta tendenti al paradisiaco; in “TGD” fa bella mostra un drone da funerale prolungato ad libitum; nei sette minuti di “Follow Me When I Leave”, a parte gran distorsione, le capriole della batteria, e la debole canzone, vince a mani basse la maratona della chitarra ritmica, ridotta a ectoplasma di riverberi opalini. Strasentito e un pochino scolastico (gli assoli mandano un certo olore di hard-rock vecchia scuola che, davvero, non si sposa), riabilitato da un gran carico d’entusiasmo misto a sentimento e, per gli aficionados del genere, una sporta di suoni da leccarsi i baffi. Tecnicamente in buona salute (Michele Saran 6/10)
CARA CALMA - Sulle punte per sembrare grandi (2018, Cloudhead)
emo
Nati a metà 2016 in quel di Brescia, i quattro ragazzi dei Cara Calma debuttano con “Sulle punte per sembrare grandi”, situato nel solco del pop-core italico: strillato, esistenziale, scalmanato. Oltre a una certa logorrea condita con distorsione chitarristica a profusione (“Ci dicevano”, pure con un malleabile contrappunto del violino di Nicola Manzan), il complesso si affida quasi del tutto a prevedibili, ginnici virtuosismi (“Rispettare i centimetri”, “Morti”, “Domenica”), che comunque convergono anche in una grand-ballad davvero solenne, “Buoni propositi”, anche se ricalcata da mille e mille modelli tratti dall’alternative anni 90. Se si prende il sugo, cioè il messaggio generazionale, c’è qualcosa di stimolante nel suo severo nichilismo non privo d’autocritica. Le canzoni però non hanno flusso, il sound è meccanicamente allineato al genere, nemmeno prodotto benissimo (Karim Qqru dei Zen Circus ci mette forse una pezza). Inutili tutt’al più le ospitate. Co-edito con Phonarchia (Michele Saran 5/10)