Francesco De Gregori si è stancato da tempo di fare dischi. Da diversi anni, ormai, la sua attività principale è una sorta di dylaniano NeverEnding Tour dalle svariate declinazioni: per orchestra nelle arene e in versione intima nei piccoli teatri, con Antonello Venditti (qui il nostro report) e – seppur per un unico evento – con Checco Zalone, con i suoi successi storici e con le sue canzoni meno conosciute. Proprio a queste ultime, da lui stesso ribattezzate “Nevergreen, perfette sconosciute” in una recente residency milanese, è dedicata la nostra nuova playlist. Un excursus che passa in rassegna tutte le gemme disseminate nei solchi dei suoi album e spesso ingiustamente trascurate a beneficio delle hit. Niente “Rimmel, “Generale” o “La donna cannone”, dunque, e neanche i due tormentoni da spot tv (“La storia” e “Sempre per sempre”). In questa selezione si cercherà di dare spazio alle più gloriose nevergreen, oltre ad alcune chicche ben note ai fan ma magari rimaste un po’ più lontano dalle luci della ribalta che potremmo definire "hit mancate". Ne abbiamo scelte 32, proprio come le “perle nella notte” della ragazza di “Due zingari”, per una delle tante selezioni possibili, in grado comunque di restituire un quadro piuttosto fedele e completo dell’universo poetico degregoriano.
Qui sotto la playlist, a seguire i commenti per ogni brano.
Dolce signora che bruci
Una delle prodezze di “Theorius Campus” (1972), il debutto discografico di De Gregori assieme al compare di Folkstudio Antonello Venditti. Un duo che non avrà futuro, salvo ricomporsi cinquant’anni dopo in versione live per un fortunato tour. Scritta dal Principe e cantata a due voci, questa struggente ballata – recuperata proprio nei live di quei concerti iniziati nel 2022 - insinua il sospetto che l’improbabile tandem, pur non essendo esattamente la versione italiana di Simon & Garfunkel, non avrebbe affatto sfigurato: suadente e ironica, delinea un altro ritratto femminile spiazzante: “Dolce signora che bruci, per che cosa stai bruciando?/ i gerani al tuo balcone si stanno consumando… il tuo album di foto sta andando alla deriva/ e il tuo amante prezioso se ne è andato un’ora fa/ ma io posso capire la tua età”.
La casa di Hilde
Tema ricorrente nel canzoniere di De Gregori, l’infanzia spesso diviene proprio la prospettiva da cui si dipana la narrazione. Attraverso il candore e la schiettezza del lessico dei bambini, il Principe smaschera la realtà, denudandola di tutte le sue ipocrisie e sovrastrutture. Prima di tante incursioni in quel mondo, “La casa di Hilde” è proprio il racconto di un bambino. È l’avventura di una gita in montagna vissuta nell’infanzia da Edoardo De Angelis, il deus ex machina dietro il debutto solista “Alice non lo sa”. De Gregori la traduce in una canzone premurandosi di farla firmare anche all’amico che gliel’ha raccontata. Qualcosa cambia, nel testo finale: il contrabbandiere non era il padre ma una persona incontrata nella baita. Ma sono dettagli. Resta immutato il senso di uno sbalordimento tutto infantile, di un sogno a occhi aperti, di un’iniziazione terribile e affascinante (“Io mi ricordo che avevo paura, quando bussammo alla porta” e ancora “il cielo sembrava più grande, ed io mi sentivo già uomo” e infine “il mezzo bicchiere” di vino bevuto insieme agli adulti). Il racconto, carezzato da ricami di chitarra country-folk, si snoda attraverso una sequenza di flash che illuminano proprio i particolari più stupefacenti agli occhi di un bambino: il padre dall’ombra due volte più grande, la cetra di Hilde nel buio e i diamanti luccicanti che nasconde, il fucile del doganiere, il padre che alza le mani, la foto ricordo, unica presenza nelle sue tasche, la capra catturata oltre il confine. Tutto è avvolto in un clima trasognato e fiabesco. Ma alla fine l’eccitazione dell’avventura sembra stemperarsi nell’amarezza: “Quando fu l’alba lasciammo la casa di Hilde/ Oltre il confine con molto dolore”.
Saigon
Mai riproposto dal vivo, “Saigon” resta uno dei gioielli grezzi dell’album d’esordio solista. La quotidianità apparentemente serena di una ragazza vietnamita restituisce il senso dell’orrore, passato o ancora incombente: “Donna giovane del Vietnam/ com’è strano coltivare il mare/ quanti fiori ti ha dato già/ quanti altri te ne potrà dare/ da qui a Saigon la strada è buona”. Come in un sogno, il mare dove si agitavano le ombre minacciose degli elicotteri americani diviene un campo fiorito, si può quasi respirarne il profumo, al posto, per un attimo, dell’odore acre del napalm. La guerra del Vietnam è il grande spartiacque politico di quegli anni. De Gregori l’ha già denunciata a suon di satira con “La Ballata di Spiro Agnew” ai tempi del Folkstudio, qui invece mantiene un tono più pacato e riflessivo. Un racconto acerbo, ma già liricamente potente, innervato da un basso pulsante, dalla chitarra blues di Roberto Ciotti e dal controcanto di Edoardo De Angelis. Paga pegno, forse, a un arrangiamento un po’ ingenuo e fintamente orientaleggiante. Nel 1989 Paola Turci ne realizzerà una cover così bella da lasciare “esterrefatto” lo stesso De Gregori, che la riconoscerà come superiore all’originale. “Non era una città autentica, ma un luogo della mente e del mondo, un simbolo di libertà – spiegherà - Saigon mi è rimasta vicina, forse perché non sono andato avanti abbastanza per rinnegare qualcosa”. E poi aggiungerà: “Forse quegli anni e quelle suggestioni furono per molti di noi proprio come ‘Il paese delle meraviglie’. E tutto il disco di Alice è immerso nello spirito di quel tempo, un tempo in cui forse ci immaginammo migliori di quello che eravamo”.
Niente da capire
D’accordo, era il singolo dell’incompreso Lp della “La Pecora”, ma “Niente da capire” non ha mai conquistato le luci della ribalta delle più grandi hit del Principe, che l’ha riproposta con parsimonia anche nei suoi concerti. Eppure, è uno dei suoi primi capolavori: sorretto da un elegante arpeggio e da melismi insinuanti, De Gregori ci mette molto di suo: il sarcasmo del titolo – in risposta alle accuse di ermetismo - un irridente incipit (“Le stelle sono tante, milioni di milioni”, dallo spot di una nota marca di salumi) e una temeraria (per l’epoca) allusione a una moglie un po’ troppo disinvolta. Roba esplosiva, in tempo di referendum sul divorzio. E infatti non passerà in radio fino al fatidico 13 maggio 1974. Sorte ancora peggiore toccherà ai “giochetti da impazzire” di Giovanna. Anche se era “la migliore”, non poteva evidentemente spingersi a tanto. Così, per tutelare da cotanto ardore le orecchie degli italiani, il verso venne trasformato nel più innocuo “però Giovanna è stata la migliore, ma è un ricordo che vale dieci lire”.
Cercando un altro Egitto
Il canzoniere di De Gregori è risultato spesso profetico. Anche verso sé stesso. Accade anche alla premonizione presente in questo brano del 1974, che anticipa di un paio d’anni le minacce e il celebre “processo” del Palalido. “Era mattina presto e mi chiamano alla finestra/ mi dicono: ‘Francesco, ti vogliono ammazzare’”. Rievocando l’episodio riportato dal Vangelo secondo Matteo (2,13-23), in cui Giuseppe, assieme a Maria e Gesù neonato, fugge in Egitto dopo aver appreso che re Erode il Grande vuole far uccidere tutti i bambini della zona, De Gregori, ironicamente, si immagina posto di fronte a una minaccia simile e sogna di fuggire anch’egli, portando con sé tutto ciò che c’è di buono. L’altro Egitto diviene così allegoria di una società più giusta e pacificata. Il brano è un bizzarro patchwork d’impronta cinematografica, dove in un gioco di stacchi e dissolvenze si susseguono immagini e riferimenti, inclusi spettri inquietanti della storia del Novecento: “L’ufficiale uncinato che mi segue da tempo/ mi indica col dito qualcosa da guardare/ le grandi gelaterie di lampone che fumano lente”. Ovvero: i lager nazisti, visti dagli occhi innocenti e trasognati di un bambino, oppure volutamente “mascherati” per ingannarlo.
Bene
È strano anche il pudore che De Gregori ha nei confronti di quella che è senza dubbio una delle sue canzoni più belle eppure è rimasta - per il grande pubblico - una “nevergreen”. “Bene” è un abisso di malinconia legato a un ricordo d’amore giovanile. Tutto troppo intimo e toccante per essere cantato dal vivo. E infatti non troverà mai spazio nelle scalette dei concerti. Peccato, perché il brano è un prodigio di melodia trattenuta – la chitarra che “piange gentilmente”, il rintocco del piano a sottolineare un tema armonico lineare, ora più acuto, ora più grave – e un altro incanto di liriche minimali. Una lettera d’addio che si ferma sul ciglio della nostalgia (“Ricordi che giocavo coi tuoi occhi nella stanza e ti chiamavo mia, ben oltre la coperta ad uncinetto, c’era il soffio della tua pazzia”), appena in tempo per frenare le lacrime, magari con l’aiuto dell’ironia: “E adesso puoi richiuderti nel bagno a commentare le mie poesie”. Ma è anche una struggente, orgogliosa ode all’adolescenza che svanisce (“Mia madre è sempre lì, che si nasconde dietro ai muri e non si trova mai”, “Le navi di Pierino erano carta di giornale”). Con tutta la debolezza di quel tenerissimo congedo: “Ma puoi chiamarmi ancora amore mio”. Da brividi, e col minimo degli orpelli.
Arlecchino
L’avventura solista di De Gregori avrà sempre radici ben piantate nello scantinato di via Garibaldi, la casa madre cui continuerà a rivolgersi con affetto e nostalgia. Come in questa storia di un artista-funambolo sospeso sulla corda di una vita spesa a incantare il pubblico (“Arlecchino è già sul filo, la gente vuole vedere cosa fa”) dove il verso iniziale – “Fiori falsi e sogni veri tra gli eroi della friggitoria Chantant” - celebra proprio il Folkstudio degli inizi in cui “non era importante neanche mangiare, bastava sorridersi, bastava comunicare”. Un tenero ricordo degli esordi carbonari in quel Greenwich Village trasteverino da cui uscì una nuova generazione di cantautori.
Pezzi di vetro
Anche in questo caso, la gloria non è mancata, specie tra i fan del Principe, ma mai abbastanza, per quella che resta una delle vette del suo canzoniere, inclusa in “Rimmel” (1975). Metà canzone d’amore criptata, metà manifesto d’una vita intera, “Pezzi di vetro” è tutta una vertigine di emozioni e sospensioni. Il protagonista è una figura popolare, ma non è un fenomeno da baraccone (“niente a che vedere col circo, né acrobata né mangiatore di fuoco”), è un artista di strada, spavaldo e irridente. Un “santo a piedi nudi”, che danza con tanto di benedizione di una stella personale, sotto il suo “angolo retto”. È un personaggio felliniano, un archetipo della vitalità, dell’incoscienza della giovinezza, ma è soprattutto lo spunto per raccontare l’incanto del rapimento amoroso. Camminando sui cocci aguzzi, però, ci si espone inevitabilmente alla vulnerabilità dei sentimenti, alle ferite dell’abbandono e della fugacità di quella “prima volta”. E basta così. Perché stavolta non c’è proprio niente da capire. Il lirismo visionario del testo, denso di riferimenti letterari (“La luna e i falò” di Pavese, il Montale dei “cocci aguzzi di bottiglia”), è calato in una cornice musicale sobria ed elegante, con le sue trame articolate e inusuali: il suono cristallino di una chitarra acustica, il nitore trasognato del fingerpicking, il tono sommesso del cantato, una melodia che s’insinua tra gli arpeggi, tenera e saltellante.
Le storie di ieri
Altro brano terribilmente profetico. Inserito all’inizio nel disco della Pecora, fu bloccato dalla Rca e riproposto solo un anno dopo su “Rimmel”, quando evidentemente – come ironizzerà De Gregori – “l’antifascismo era diventato più accettabile anche per i mass media”. Finirà nello stesso anno anche su “Volume VIII” di Fabrizio De André, il disco nato proprio dalla collaborazione tra i due cantautori. Il testo smaschera i fascismi di ieri, ma soprattutto quelli di oggi, in doppiopetto: “I nuovi capi hanno facce serene/ e cravatte intonate alla camicia”. Nella versione originaria, al posto di “nuovi capi”, si faceva nome e cognome: Giorgio Almirante, segretario del Movimento sociale. De André sceglierà una via di mezzo: “Il gran capo”. De Gregori invece gioca sull’uso della sineddoche: non è Mussolini a parlare al cortile, bensì “la mascella” e le folle oceaniche che riempivano le piazze vengono ridotto a un “cortile”. Un contrappunto che si tinge di sarcasmo, ricordando il tributo di sangue pagato a quella allucinazione collettiva (“troppi morti lo hanno smentito, tutte gente che aveva capito”) e chiosando con illuminante metafora scacchistica: “A giocare col nero perdi sempre”. E se è vero che “Mussolini ha scritto anche poesie”, allora i poeti devono essere proprio delle “brutte creature”, al punto che “ogni volta che parlano è una truffa”. “Storie di ieri”, ma tremendamente attuali.
Giovane esploratore Tobia
Ripescato dopo un lungo oblio proprio nei suoi recenti concerti “alternativi”, questo bizzarro brano di “Bufalo Bill”, scritto in collaborazione con Lucio Dalla, è l’apologo del bravo ragazzo americano, il boy scout senza macchia, in cerca di facili emozioni con le sue esplorazioni quotidiane. Un personaggio pulito, ma prigioniero delle convenzioni. Con “alle spalle un’infanzia igienicamente perfetta: morbillo, tristezza e nessun’altra malattia”. De Gregori ne traccia un ritratto sardonico e beffardo. “Quello che fa paura dei giovani esploratori è l’inconcludenza; loro imparano ad accendere i fuochi... – racconterà in un’intervista - È un personaggio sano, americano, però tutto sommato sogna. Ha grossi problemi alle spalle di infanzia pulita, precisa, sola, probabilmente nevrotica. Ma in realtà volevo riferirmi a tutte quelle persone che vivono il marxismo in maniera cattolica, in maniera evangelica addirittura. È una canzone che ho scritto dopo aver fatto dei discorsi con dei ragazzi che mi hanno sconvolto per la loro impreparazione e per la loro faciloneria nel definirsi di sinistra”.
Disastro aereo sul canale di Sicilia
A proposito di storia, passata e futura. Quattro anni prima della strage di Ustica, con “Disastro aereo sul Canale di Sicilia” (1976) De Gregori scrive la più sconvolgente delle sue profezie. Il 27 giugno del 1980, quando il Dc-9 dell’Itavia si squarcerà in volo e scomparirà in mare, in molti ripenseranno a quei versi. E forse anche per questo Marco Risi chiamerà De Gregori a scrivere la colonna sonora del suo “Muro di gomma”, il film del 1991 che racconta misteri e depistaggi di una delle pagine più oscure della storia repubblicana. Il pilota americano di un caccia Nato F-104 agisce inconsapevolmente, eseguendo ordini e portando a termine le sue missioni di morte. Con la complicità di un alleato italiano eternamente succube, cui viene riservato uno sferzante prologo: “Risulta peraltro evidente anche nel clima della distensione/ che un eventuale attacco ai paesi arabi vede l’Italia/ in prima posizione”. La grandezza del brano sta anche nel contrasto tra la cupezza del testo e la solarità mediterranea delle melodie, irrobustite anche dagli archi e da un coro decisamente seventies.
Ninetto e la colonia
Sempre dai solchi fatati di “Bufalo Bill”, un'altra storia americana preveggente, che preconizza stavolta il dramma della depredazione e dello sfruttamento da parte delle multinazionali nei paesi del Terzo mondo, con cospicuo anticipo sull'era della globalizzazione. L’atto d’accusa contiene in realtà nomi e cognomi: la United Fruits Company di Boston, che esporta anche il marchio Chiquita e che ha fagocitato la maggior parte delle terre coltivabili nei paesi latinoamericani. In un’ambientazione da realismo magico à-la Garcia Marquez, si compie la triste fine di Ninetto: ignaro del destino che lo attende, “con una mano nei pantaloni”, continua a giocare nel cinema, prima che i marines (“tre angeli nella notte, con le catene sotto il giaccone”) facciano irruzione, fucilando tutti. Facendosi largo tra i corpi stesi sul terreno, gli incravattati signori della compagnia raccoglieranno le loro banane e se le andranno a vendere: “E dietro un fondale di stelle/ gli impiegati della compagnia/ rubarono tutta la frutta dagli alberi/ e la portarono via”. Reso incisivo da un basso pulsante, che imprime una cadenza serrata alla narrazione, il brano mostra anche un De Gregori insolitamente spavaldo al canto, anche quando è chiamato a una recitazione quasi teatrale.
Atlantide
Anche questa non è una vera “nevergreen”. È stata più volte eseguita dal vivo ed era anche la sigla dell'omonimo (splendido) programma del compianto Andrea Purgatori su La7. Però una prodezza del genere dovrebbe essere la hit per antonomasia di De Gregori, e così, inspiegabilmente, non è mai stato. Per molti anni, “Atlantide” (da “Bufalo Bill”) è rimasta sommersa proprio come il mitico continente. Forse per via del suo testo amaro, difficile da decifrare: l’ammissione di una sconfitta, di una (ir)responsabilità: “Io la conobbi un giorno ed imparai il suo nome/ ma mi portò lontano il vizio dell’amore... Ditele che l’ho perduta quando l’ho capita/ ditele che la perdono per averla tradita”. Ma se in “Bene” la confessione era in prima persona, qui De Gregori esce dalla scena e si mette dietro la macchina da presa. “Lui” ha cercato rifugio nel mondo sommerso, un altro luogo dell’anima. È scappato in California, ha cercato di rifarsi una vita, ma è rimasto incatenato a un ricordo che continua a far male. Così ora vive “nel terzo raggio”, come in carcere, “dove ha imparato a non fare più domande del tipo: 'Conoscete per caso una ragazza di Roma la cui faccia ricorda il crollo di una diga?'”. In questa sequenza onirica di immagini, svetta quella del “barattolo di birra disperata” nascosto sotto il letto, la geniale personificazione che, nel più assurdo dei transfert emozionali, riesce a spiegare tutto. All’originalità del testo si sposa una musica tra le più belle e articolate mai composte da De Gregori: un flusso sonoro lento e trasognato, tra i rintocchi celestiali del piano, il manto cupo dell’Eminent, i sottili arpeggi di chitarra e una melodia avvolgente, tristissima, di quelle che sciolgono il cuore. Se è indubbio il debito nei confronti della “Three Angels” del suo maestro Dylan, non si può non riconoscere ad “Atlantide” una potenza suggestiva unica e impareggiabile.
Santa Lucia
È stato soprattutto Lucio Dalla a far riscoprire questa perla, posta in chiusura di “Bufalo Bill”, definendola la sua canzone preferita di De Gregori e portandola insieme a lui nel tour della “reunion” dei due dopo l’esperienza storica di “Banana Republic” (“Work in progress”, 2010). “Santa Lucia” è una preghiera laica di toccante compassione, un’intercessione non solo per i diseredati della terra, ma per tutti “gli uomini che non vedono”. Perché a volte “hanno gli occhi e un cuore che non basta agli occhi”, oppure sono “persone facili che non hanno dubbi mai”. È l’invocazione di chi teme di restare solo, “all’incrocio dei venti”, finendo “bruciato vivo”, oppure soltanto consumato, giorno dopo giorno, dalla “nostra corona di stelle e di spine”, dalla “nostra paura del buio e della fantasia”. Solo la santa che protegge la vista potrà portare in porto la “barca sfondata” di un’umanità cieca, lasciata in balia dell’ingiustizia sociale, del dolore e della solitudine. A suo modo, un inno sociale, di fratellanza, dunque, dove l’invocazione alla santa rimanda al linguaggio umile della canzone popolare. Con una cornice sonora solenne e struggente: il piano di Toto Torquati ad assecondare il canto sommesso, con basso e batteria che entrano in punta di piedi nell’ultima strofa, poi il crescendo e una coda blues di chitarra elettrica che ripete la melodia su base di organo. Commuove senza cercare la lacrima.
L’impiccato
A incombere sullo splendido album omonimo del 1978 trascinato al successo da “Generale”, è la storia. Quella contemporanea, degli anni di piombo, del terrorismo e delle leggi speciali, che assume toni grotteschi, nel reportage di questa scarna ed emozionante ballata piano-voce dalla sinuosa andatura blues, costruita attorno a un’incalzante sequenza di eventi in presa diretta. Come in un calvario neorealista, si avvicendano nello stanzino della questura cinque personaggi: il giovane “figlio di buona donna e pure ladro”, che si rifiuta di rispondere ostentando il suo “sorriso tutto denti di cane”, il padre di famiglia dallo “sguardo perduto”, il terzo uomo “accusato d’oltraggio” e costretto con la violenza a confessare, il quarto di nome Tommaso che “pregava e piangeva”, dopo essere stato abbandonato dal suo stesso avvocato, e infine il quinto, “assunto in galera per un indizio da poco” e “crocefisso col ferro e col fuoco” senza che si sapesse bene il perché, nell’indifferenza generale (l’unico dubbio è “di che segno era il morto”). Il sarcasmo è il registro scelto per denunciare il clima repressivo di quegli anni, in cui in galera si poteva essere “assunti” con una certa facilità e in cui la psicosi del terrore stava facendo saltare le garanzie democratiche dello stato di diritto. Insomma, un pamphlet garantista. Quando garantismo non era ancora diventato sinonimo di impunità per i potenti.
Renoir II° versione
Della canzone bifronte di “De Gregori” (1978), prima fragorosa e sgangherata (con lo stesso Francesco al controcanto), poi mesta e dolcissima, come se si trattasse di due letture dello stesso quadro, abbiamo scelto la seconda versione col suo arrangiamento minimale per chitarra acustica e sparute frasi di piano. Un’altra magnifica cartografia di sogni e fantasie, dove gli aerei stanno al cielo come le navi al mare. Ma la partenza non recide il filo della storia e il dolore dell’addio si stempera nel ricordo di quell’attimo, come se qualcosa, misteriosamente, fosse ancora rimasto. L’immagine del distacco conquista così il centro della scena: “Chi di voi l’ha vista partire/ dica pure che stracciona era/ quanto vento aveva nei capelli/ se rideva o se piangeva/ la mattina che prese il treno/ e seduta accanto al finestrino/ vide passare l’Italia ai suoi piedi/ giocando a carte col suo destino”. Torna la metafora della partita a carte di “Rimmel”, stavolta con un avversario imperscrutabile (il destino). E l’io narrante imbastisce una sorta di dialogo diretto con l’esterno, con una indistinta folla di ficcanaso che giudica e condanna. “Non è vero che io l’abbia perduta, dimenticata, come dice la gente”: il verso finale suona come un’insolita autodifesa, dopo tanti “miei alibi” e “tue ragioni”.
Il '56
In De Gregori l’infanzia è anche il luogo dei ricordi, della nostalgia per una felicità incosciente e irripetibile. Nel 1978, stemperata l’inquietudine della prima giovinezza - ormai ventisettenne, sposato e padre di due bambini - avvolge il nastro della memoria scattando la tenera polaroid di “Il '56”. Con un rock’n’roll tirato alla “Crocodile Rock” (Elton John) tra un trascinante riff di chitarra e un bel contrappunto di piano. Il contrasto suona stridente: il 1956 è infatti l’anno dell’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe del Patto di Varsavia, uno degli avvenimenti più tragici della guerra fredda, che dilanierà anche la stessa sinistra italiana. Ma Francesco non lo sa. Ha 5 anni e dalla sua casa di Pescara, dove si è trasferito con i genitori e il fratello “che studiava lingue misteriose”, vive l’evento con la spensieratezza di un bambino: ritagliando carri armati sovietici dalle riviste per allestire un personale esercito di cartone., in attesa del Natale: “...Era una festa vera/ cominciavo ad aspettarlo quattro mesi prima/ i regali mi duravano una settimana”. L’infanzia è l’incanto permanente che trasfigura la realtà e rende tutto possibile.
Raggio di sole
Infanzia rimpianta, luogo mitizzato, simbolo di una quotidianità familiare da riassaporare. E infanzia ritrovata, attraverso la paternità. La struggente “Raggio di sole”, dedicata ai gemelli Federico e Marco nati in quel periodo, svela tutta la dolcezza che De Gregori ha sempre fatto trapelare tra le pieghe imperscrutabili dei suoi versi. Ballata radiosa, malinconica, con i suoi filamenti di chitarra acustica adagiati su un soffice tessuto di tastiere e percussioni, non è però solo un’ode alla vita che nasce. È un piano di viaggio, che si allunga tra l’infanzia (“avrai matite per giocare”) e l’età adulta (“un passaporto per andare via lontano”). Un percorso disseminato di automobili (“i clacson della mattina”), di treni (“questa strana ferrovia, unica al mondo per dove può andare”) e di navi (“lontano passa una nave, tutte le luci accese”). Come in un disegno schizzato da un bambino su un foglio di carta.
Due zingari
È sempre stata la forza immaginifica, non il “messaggio”, a muovere le canzoni di De Gregori. Così anche quando inquadra nel suo obiettivo un microcosmo di degrado ed emarginazione come quello dei “Due zingari” (sempre su “De Gregori”, 1978), il cantautore romano lo filtra attraverso la lente deformante del sogno, della fantasia. Come in un film di Fellini, ecco allora affiorare dettagli illuminanti: “la lama del coltello nascosta nello stivale” e il sorriso della ragazza, “trentadue perle nella notte”. E come nella memorabile canzone di Claudio Lolli (“Ho visto anche degli zingari felici”) l’immaginario gitano è associato all’arte della sopravvivenza, alla voglia di vivere liberamente, fuori dalle leggi del branco. De Gregori avvicina la macchina da presa ai due personaggi catturando in presa diretta il loro dialogo d’amore. Un incanto soprannaturale, da realismo magico (“due zingari stavano appoggiati alla notte, forse mano nella mano e si tenevano negli occhi”) che si spezza nel brusco congedo della ragazza, con la prospettiva che si allarga all’improvviso sulla strada, dove “le macchine passano velocemente” e “gli autotreni mangiano chilometri”. È un vero e proprio stacco cinematografico, la cesura col “sogno metropolitano”, il ritorno a una realtà di desolazione periferica. Musicalmente la canzone è costruita in due fasi: una più eterea e sognante, con i soli riflessi rilucenti della chitarra ad accompagnare la voce, l’altra più orchestrale e robusta, suggellata dall’assolo struggente del sax di Mario Schiano. L’osmosi tra l’infinita dolcezza della melodia e gli arrangiamenti raffinati di Lilli Greco è un prodigio di grazia ed equilibrio.
Stella stellina
Viaggi di dolori e nostalgie, ma anche viaggi di illusioni e sradicamenti. Come quello della ragazza con “unghie laccate sopra mani da contadina” che parte dalla campagna del Sud (“l’Africa d’Italia”) per smarrirsi in un altro sogno metropolitano. In “Stella stellina” torna il linguaggio infantile, chiave dei sogni, di favole che però, spesso, restano inchiodate al suolo. Così il dorato mondo del cinema di Roma (la “città che morde, che protegge e che minaccia”) si rivelerà un eden ingannevole. La magia del brano si sorregge su un gioco di contrasti. Alla dolcezza quasi stucchevole della melodia, puntellata dai fiati, e al tenero fluire dei ricordi da “caro diario” fa da contraltare la durezza di un verso - “non t’impicciare più della tua vita che non sono affari tuoi” - che lascia amaramente intendere come quel sogno sia andato a finire.
Gesù bambino
Altra filastrocca, questa letterina di Natale ferocemente ingenua ricorre, ancora una volta, al linguaggio infantile come filtro illusorio che lenisce i dolori ed esorcizza le paure. Così anche la guerra diviene “pulita come una ferita piccina picciò” e “breve come un fiocco di neve”. Un evento atteso e persino purificatore (“fa’ che si porti via la mala morte e la malattia”), quasi fosse un’evasione ludica ed estemporanea dalla realtà (“fa’ che duri poco e che sia come un gioco”). È un’altra fiaba insanguinata, solo che la prospettiva al contrario rende l’orrore ancor più subdolo e terrificante. Con i versi successivi che ricostruiscono più nitidamente l’incubo, l’invocazione assume d’un tratto toni disincantati (“Gesù Bambino comprato a rate”) e l’auspicio diviene quello del ritorno alla realtà, della fine del terrore. Con quella strofa finale raggelante, in cui, preso atto dell’inevitabilità della guerra, il bambino rivolge a un Gesù bambino ormai “alla deriva” un’ultima, straziante preghiera: “Se questa guerra deve proprio farsi fa’ che non sia cattiva… e quando poi sarà finita fa’ che non la ricordi nessuno”. L’intensità fiabesca del testo è restituita anche dalla veste musicale: una melodia umile e preziosa, un ficcante inserto di mandolino e arrangiamenti suadenti di organo e tastiere. Pur ricordandola come la sua canzone preferita di “Viva l’Italia”, De Gregori la eseguirà raramente dal vivo, da qui la “scusa” per inserirla in questa selezione, malgrado si tratti di una canzone relativamente conosciuta.
Terra e acqua
Insieme a Ivano Fossati, De Gregori è forse il cantautore che ha delineato più nitidamente una “poetica del viaggio”. Un universo lirico declinato in tutte le sfumature: dalla dimensione corporea dell’attraversamento solitario fino all’affresco corale del Titanic, che alla metafora della fine della Belle Epoque unisce la tragica realtà dei migranti e del loro sogno di riscatto inabissatosi sul fondo dell’oceano. Il lungo cammino di “Viva l’Italia”, idealmente cominciato da “Capo d’Africa”, giunge all’approdo finale. “Terra!” L’invocazione agognata da chi viaggia per mare si trasforma in “Terra e acqua”, una preghiera laica, ispirata a un brano del Nuovo Canzoniere Italiano. “Tera e aqua (Polesine)” è una canzone popolare composta nel 1961 da Gigi Fossati e Sergio Liberovici. De Gregori, che conosce a fondo quella realtà musicale fin dai tempi del Folkstudio, ne ricava una litania accorata e dolente, dove l’invocazione al Signore non svela improvvise conversioni alla Dylan (che gli verranno sistematicamente appiccicate addosso per ogni brano a sfondo religioso, da “Santa Lucia” a “L’agnello di Dio”), ma cerca semmai di riportare a una dimensione primigenia, di semplicità popolare, quella di chi, trovandosi nei guai, non può far altro che rivolgersi a Dio, raccomandandogli la propria anima. Inno al viaggio come esercizio di solitudine (“terra e acqua e niente sole, terra e acqua e sputi in faccia, e nessuno che mi abbraccia”) e come eterno ciclo di vita (“torni sempre da dove vai, terra e acqua non cambia mai”), “Terra e acqua” è un altro gioiello di arte povera: la tradizione nobile del folk italiano ammantata da eleganti tastiere e aperture corali.
L'abbigliamento di un fuochista
A bordo del Titanic, De Gregori imbarca anche uno dei suoi numi storici fin dai tempi del Folkstudio: Giovanna Marini. Il miglior controcanto possibile per questa commovente storia di partenze e di addii. L’elegia di uno strazio materno che straripa dai solchi con palpitante intensità. Come in “America” di Kafka, il fuochista è il primo a entrare in scena. Nel confronto tra madre e figlio si consuma il dramma di chi quel prodigio futurista dovrà alimentare con caligine e sudore. Un espediente mutuato dall’iconografia classica delle storie d’emigrazione, quella di “Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar...”. Anche se il dialogo è immaginario: la nave è già salpata, mentre la madre, rimasta sola sulla banchina, si strugge in un lamento per il figlio che parte “senza domani”, destinato a sposarsi “probabilmente in un bordello americano” e ad avere “figli da una donna strana e che non parlano l’italiano”. Ma il proletario-marinaio è consapevole del suo destino di derelitto, di agnello sacrificale. E non avverte più neanche un vincolo d’identificazione con la sua terra, con la sua lingua, intrappolato nel ventre d’acciaio della “nera nera nave”: “Ma mamma io per dirti il vero, l’italiano non so cosa sia/ e pure se attraverso il mondo non conosco la geografia”. Arioso duetto vocale sorretto dalla fisarmonica, con quella sua melodia spoglia intessuta su tre-accordi-tre, “L’abbigliamento di un fuochista” è il capolavoro sottotraccia di “Titanic”. Un’istantanea virata seppia di una storia che si ripete all’infinito. Che siano migranti italiani in rotta per le Americhe o profughi africani stipati sulle carrette al largo di Lampedusa. Per loro, il viaggio è una necessità, ma spesso al contempo la certificazione di un fallimento.
San Lorenzo
Ancor meno conosciuta, “San Lorenzo” fa storia a sé all’interno di “Titanic”. Anche solo perché rappresenta la prima volta in cui De Gregori suona il piano in un suo album. La scrive di getto, suggestionato da una foto mostratagli da un amico: papa Pio XII che allarga le braccia tra le macerie. È un altro flashback storico, che rievoca uno dei bombardamenti più feroci subiti da Roma ad opera degli alleati, citando anche il celebre canto partigiano “Pietà l’è morta” del cuneese Nuto Revelli. La distruzione di San Lorenzo, piccolo quartiere popolare occupato dai nazisti, rivive in un’altra cronistoria asciutta, intonata nel solco della canzone popolare. Il lessico è infatti quello umile e ingenuo dell’uomo comune (le bombe che “cadono come neve”, il Papa angelicato), ma c’è sempre il tocco visionario ad accendere il racconto: lo stacco improvviso sui morti che “tornano a galla”, la macabra santabarbara dalle finestre di San Pietro e infine la speranza di una normalità da ritrovare, fatta di piccole cose familiari (“il burro abbonderà”, le gite “fuori porta a Cinecittà”, le nuove nozze da festeggiare). Un bozzetto solo apparentemente minimale, perché nel ritratto di una Roma città aperta e colpita al cuore si rispecchiano la memoria collettiva di un paese intero e una prospettiva storica ad ampio raggio. Un umanesimo universale che troverà più compiuta espressione tre anni dopo nella canzone “storica” per antonomasia di De Gregori (“La storia”).
A Pa’
Se c’è un indirizzo politico che si può ragionevolmente attribuire a De Gregori è “pasoliniano”. Nume cruciale del suo canzoniere, Pier Paolo Pasolini per lui non ha niente a che spartire con i “Poeti per l’estate”, cui riserva versi al fiele. Incarna la sincerità di uno sguardo sempre lucido e vitale. Così nel decennale della sua morte, gli dedica questo struggente brano ispirato al “Lamento per la morte di Pierpaolo Pasolini” di Giovanna Marini. Un omaggio con gli occhi asciutti, in cui c’è il Pasolini che in giacca e cravatta si lascia trascinare nelle partite a pallone nel cuore della borgata (“Fermete, a Pa’, dà du’ carci co’ nnoi!”). C’è l’ultima istantanea della sua vita: il mare di Ostia, dove trovò la morte nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, e un ricordo sfocato del “ragazzo di vita” Pino Pelosi, che sarà condannato per il suo omicidio. E c’è la poesia pasoliniana di “Preghiera su commissione” (“Caro Dio, facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi”), che riaffiora nella struggente invocazione finale. In “A Pa’” la commozione è trattenuta, serrata tra le pieghe di uno spartito ancora una volta scarno e minimale, con l’armonica che prende il sopravvento su chitarra, basso e organo, proseguendo la narrazione sul piano musicale. È insomma il più pasoliniano degli omaggi che Pasolini abbia mai ricevuto.
Capatàz
“Non siamo nati mica ieri/ non siamo mica prigionieri/ dentro la stella di questa bella modernità/ non siamo nati mica per morire qua”. Un canto degli sfruttati senza tempo, validissimo più che mai oggi, in tempi nuovi, inquietanti Capatàz. Il protagonista di questo brano dai placidi languori country-folk, nascosto tra i solchi di “Scacchi e tarocchi”, non è molto diverso dal “padrone” di “Pablo”. Ma stavolta la consapevolezza è maturata e lascia presagire un senso di riscatto imminente: “Quanto persone che non contano/ e invece contano e si stanno contando già/ stanno soltando aspettando un segno, Capatàz… Questo vecchio legno quando si alza il vento navigherà”. Un De Gregori quindi velatamente ottimista, quello di “Capatàz”. Ma il vento tarderà ad alzarsi e il disincanto, negli anni, si acuirà sempre più.
Stelutis alpinis
C’è anche un episodio storico ad accomunare Pasolini e De Gregori. È il 1945 e si combatte una guerra nella guerra, una guerra tra partigiani. Nelle malghe di Porzus, in Friuli, c’è il quartier generale della brigata Osoppo, i “partigiani bianchi” nati da Democrazia Cristiana e Partito d’Azione. Alla loro testa, il “comandante Bolla”, ovvero Francesco De Gregori, lo zio del cantautore romano. Il 7 febbraio un centinaio di comunisti filo-titini fa irruzione nel bunker degli osovani e uccide il comandante Bolla. Altri sedici osovani vengono fatti prigionieri, tra questi proprio Guido Pasolini (“Ermes”), il fratello dello scrittore, che sarà fucilato qualche giorno dopo. L’accusa per tutti era quella di osteggiare la politica di alleanza con la resistenza jugoslava di Tito e di trattare con i tedeschi e con i fascisti della X Mas di Borghese. La storia smentirà tutto e cercherà di riparare quel torto, condannando nel 1952 36 dei responsabili dell’eccidio e attribuendo al comandante Bolla la medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Alla vicenda sarà dedicato anche il film “Porzus” di Renzo Martinelli. È una ferita aperta in casa De Gregori che forse riaffiora in “Prendere e lasciare”, attraverso il recupero di “Stelutis alpinis”, il vecchio canto friulano del compositore Arturo Zardini (“Se un mattino tu verrai/ fino in cime alle montagne/ troverai una stella alpina/ che è fiorita sul mio sangue”). Dalla sua tomba, sepolta tra le rocce friulane, un giovane soldato morto in guerra si rivolge alla sua bella, con parole consolatorie. Ma non c’è alcun riferimento diretto all’episodio storico. De Gregori non si pronuncerà mai sulla vicenda, mostrandosi anzi molto infastidito da qualsiasi domanda che tentasse di cogliere una contraddizione tra le sue simpatie politiche e l’uccisione dello zio per mano dei partigiani filo-titini.
L’attentato a Togliatti
La storia, compagna fedele del canzoniere degregoriano, riletta attraverso la chiave della canzone popolare. In concerto De Gregori rispolvera quel devoto traditional e ci prende gusto. Si sta (ri)alzando la canzone popolare. E nessuna meglio di Giovanna Marini può contribuire all’impresa. Così il cantautore romano riabbraccia la sua storica ispiratrice del Folkstudio per “Il fischio del vapore”, 14 curve nella memoria del folk tricolore. A partire da questa cronistoria ingenua ad opera di Marino Piazza, che riemerge dagli archivi dopo tanti anni, ammantata di nuove suggestioni folk, con il magico intreccio a due voci del Principe e della sua musa: “Gli arrangiamenti sono assolutamente contemporanei – preciserà in un’intervista - Non abbiamo voluto fare un recupero accademico, né un’operazione d’archivio e polverosa. Ho semplicemente chiesto alla mia band di suonare quelle canzoni come se le avessi scritte io”. Anche se è proprio “lo ‘zum pa pa’ classico” a rendere questo brano irresistibile.
La testa nel secchio
Il De Gregori rock che non t’aspetti. In questa folgorante (e sottovalutata) traccia di “Pezzi” (2005), il cantautore romano si lascia sedurre dalle suggestioni del desert rock, per una strisciante cavalcata imbevuta di suggestioni à-la Cohen, fragranze blues alla J.J. Cale e suoni desertici degni dei Calexico, con la sua andatura caracollante e il suo epico chitarrismo western. E con un De Gregori più che mai malinconico, che scava dentro di sé per un altro struggente viaggio metaforico (“E chissà quanto ho viaggiato/ quante volte sono stato /quanti ponti ho attraversato/ quante scale che ho salito/ quando tu indicavi il cielo/ mentre io guardavo il dito”). Un volo radente di chitarre elettriche asseconda magicamente l’ennesima interpretazione di razza del cantautore romano, nell’apice di quello che resta probabilmente il suo ultimo grande album. Con la metafora definitiva di quel treno che sta partendo e non è ancora partito.
Il panorama di Betlemme
Altri riff infuocati – ed efficacissimi - dalla folgorazione rock di “Pezzi”. Questa sono volta sono dedicati a rischiarare “Il panorama di Betlemme”, luogo mistico e spirituale ma anche terra dilaniata da atroci conflitti. Il cantautore romano squarcia il “sipario di fiamme” del Medio Oriente, con i suoi martiri quotidiani, come il soldato (israeliano o palestinese, non conta) che invoca un ultimo respiro prima di morire: “E sente la terra che chiama/ sente la notte che sta per venire/ E dice Signore ti prego/ lasciami respirare/ lasciamo un po' riposare/ prima che devo morire”. Un’altra hit mancata che aveva tutto per esserlo: la confezione sonora (un fulminante classic rock) e il testo, un altro spicchio amaro di storia, sempre tragicamente attuale.
Per brevità chiamato artista
“Martire da palcoscenico e vittima d’aprile/ che macina i cuori, che calcola i cani/ e dà la buonanotte ai fiori”. Il De Gregori più disincantato e leggero del Duemila dà di sé la più beffarda delle definizioni, nell’autobiografica title track del suo album del 2008). Carezze acustiche e panneggi d’archi a incorniciare una ballata densa di ricordi e suggestioni oniriche, che gioca con il tema del doppio e degli opposti (“se fosse Abele sarebbe Caino”, “alibi senza assassino”, “perdonami se sto lontano e cercami vicino”). Una canzone che pare quasi chiudere idealmente un cerchio: “Francesco De Gregori, d’ora in avanti per brevità chiamato artista” recitava una nota legale sul suo primo contratto discografico. Ha voluto scherzarci su tanti anni dopo. Riprendendo proprio un verso della fatidica (e mai edita) De Gregori è morto: “Era un ragazzo gonfio, per brevità chiamato artista”. Corsi e ricorsi artistici...
Omero al Cantagiro
Anche un singolo può restare una “nevergreen” in tempi così balordi per la musica italiana. È capitato anche a questo brano, estratto dall’album “Sulla strada” (2012), l’ultimo album di inediti pubblicato ad oggi da De Gregori. Sotto una pioggia incessante, un Omero sale sul palco ed intona la guerra di Troia. Metafora, nemmeno troppo velata della crisi che sta attraversando la musica e graffiante istantanea della “divinizzazione” degli artisti da parte dei loro fan. Un divertito De Gregori duetta con Malika Ayane in un brano dal passo latino, tra un pianoforte anni 30, il mandolino mediterraneo e un ritornello che sa di voci al megafono d’antan. “Io sono affezionato al ricordo del Cantagiro, quando non facevo ancora questo mestiere mi affascinava quel mondo, i cantanti mi sembravano figure mitologiche, Caterina Caselli era una dea... – racconterà - E così mi sono immaginato un cantante chiamato Omero, o forse è Omero stesso, che compare nella domesticità di quel mondo per regalare qualcosa di poetico, per rivendicare a questo lavoro una dignità spesso negata”. Quella dignità che il Principe ha sempre rivendicato con aristocratico decoro, a dispetto delle “maledette malelingue” che l’hanno inseguito per tutta la carriera.
04/05/2025