Gianluca Gozzi - TOdays Festival

L'orizzonte visto dalla periferia

In occasione della quinta edizione dell'attesissimo festival torinese (di cui OndaRock è mediapartner, e il cui programma vede ospiti tra gli altri BeirutLowJohnny MarrJarvis CockerSpiritualizedDeerhunterBob Mould), abbiamo fatto una chiacchierata telefonica a tutto tondo con il suo ideatore e direttore artistico Gianluca Gozzi, spaziando dalla situazione dei festival in Italia all'importanza di vedere orizzonti dove gli altri vedono confini.

Partendo dall'inizio, il primo festival che ti ha visto nel ruolo di direttore artistico è Spaziale festival, organizzato esattamente nello stesso luogo dove oggi si svolge il TOdays, ovvero l'area adiacente Spazio211 e Parco Sempione, in Barriera di Milano, a Torino. Avevi sempre desiderato raggiungere quell'obiettivo professionale o è un ruolo che ti sei ritrovato addosso poco per volta durante l'esperienza a Spazio211?

Direi che è qualcosa che ho imparato strada facendo. La prima volta che sono entrato a Spazio, negli anni 90, era un centro incontri di periferia dove la gente giocava a carte. C'era però uno stanzino al piano inferiore dove si parlava di musica, con affisso un vecchio poster di un concerto dei Motorpsycho in Germania. Mi sono detto: "Chissà come sarebbe bello un giorno vedere questi artisti venire a suonare da queste parti", cosa che poi capitò qualche anno dopo. Abbiamo cercato di costruirci un'identità che ci piaceva, con la musica che ci piaceva, e ritrovarci tra persone che si identificavano in una modalità di vita diversa da quella che altri si immaginavano per noi. Quindi è così che io ho imparato questo mestiere. Non sapevo nemmeno cosa volesse dire organizzare un concerto. È un mestiere che ci siamo inventati, ovviamente cercando di vedere, al posto di limiti, delle opportunità, e sognare realizzando qualcosa. Mi viene in mente adesso mentre parlo con te che questo è anche un po' il mood di questa edizione del festival, cioè dove altri vedono confini geografici, o di genere musicale, noi proviamo a immaginare invece degli orizzonti, qualcosa che va oltre il quotidiano.

Forse l'avete anche postata sui vostri social questa frase, vero?
Può darsi, sì. Tra l'altro questa è una edizione dove il cartellone è fatto soprattutto da artisti internazionali, che arrivano da ogni parte del mondo, quindi veramente per noi senza confini (né geografici né musicali, come già detto). TOdays nasce con l'idea di portare in centro musiche di confine, musiche di periferie. Tra l'altro il tema della periferia è sempre stato centrale nella costruzione del festival, già fin dai tempi della rassegna Spaziale.

È quindi questo il claim corretto per descriverlo?
In realtà non ce n'è soltanto uno. Alla base c'è un ragionamento che dice: "Anziché perpetuare noi stessi, le cose riuscite, anche in positivo, proviamo nuove strade". Non vogliamo replicarci, quindi in un certo senso questo è il vero claim, e lo si legge nel nome, ovvero stare nel presente. Anziché inseguire qualcosa che è stato o, al contrario, anticipare troppo qualcosa che verrà, cerchiamo di fare una fotografia dinamica e sincera del momento, partendo dal fatto che per scegliere il nostro futuro dobbiamo incidere sul nostro presente; vedere orizzonti verso i quali tendere, ma rimanendo agganciati al presente.

A suo tempo, hai poi concluso l'esperienza di Spazio211 lasciando la presidenza, con una lettera di commiato nella quale denunciavi tra le altre cose il rapporto difficoltoso con le istituzioni, piuttosto restie a concedere fiducia a un festival di certo non principalmente mainstream ma comunque in grado di fare numeri. Oggi, grazie al TOdays, quel rapporto è cambiato. Credi di esserti guadagnato quella fiducia solo, appunto, grazie ai numeri (le famose ricadute economiche sul territorio) o pensi di essere riuscito a fare passare la tua visione del festival, il cui valore culturale è dato anche dalla distribuzione sul territorio del quartiere Barriera di Milano?
Questa parola che hai usato, cioè visione, è la parola chiave, fondamentale. Ancora prima di condividere una qualunque cosa, bisogna avere una visione. La lettera alla quale tu fai riferimento riguarda appunto il 2010, un momento particolare, in cui avevo preso coscienza di non poter fare la stessa per cosa tutta la vita e nella stessa maniera. Un po' come il figlio che diventa maggiorenne, diciamo, e che prosegue per la sua strada. Denunciai un rapporto difficile non solo con le istituzioni ma con il paese, l'Italia, in generale. Usai la parola che tuttora vale: l'incapacità dell'istituzione, che rappresenta in fondo noi stessi, di vedere le cose nel momento in cui sono. Ecco dove torna l'idea del festival.
Le istituzioni riescono a riconoscere le cose quando o è già troppo tardi e sono morte, abbandonate, o a volte invece troppo presto, quindi sopravvalutandole. TOdays nasce in condizioni completamente differenti rispetto al 2010. L'origine di TOdays arriva proprio come mandato da parte dell'istituzione, quindi in un momento storico in cui un'esperienza precedente si esaurì (il Traffic Festival, ndr), sia dal punto di vista interno che come modalità e schema di festival (gratuito). L'amministrazione nel rinnovarsi individuò la mia figura dandomi completa fiducia, anziché calare un progetto dall'alto, con l'intenzione di offrire a un territorio come hai detto te disagiato (dal quale molti vorrebbero scappare), l'opportunità di poter esprimere la sua creatività. Questo può avvenire solo in un territorio che è fertile, caotico sì, ma con del fermento. E quindi l'idea era di raccogliere il fermento artistico e creativo di quel territorio. In qualche maniera l'amministrazione nel 2015 ha avuto la capacità e la saggezza di fare emergere qualcosa, anche mettendo in conto di poter fare errori (che fanno parte del processo di crescita). In questo senso io intendo il TOdays un progetto illuminato, perché tra l'altro ha attraversato la prova di diverse amministrazioni con idee politiche differenti. Tu immagina cosa vuol dire andare da un assessore e dire: "Ok io voglio far suonare John Carpenter, o Mac DeMarco". Chiaramente, quello mi guarda e mi dice: "Ma chi sono? Stai parlando una lingua che non conosco".
Ha funzionato quindi l'idea di aver creato un'identità, nella quale il pubblico non è semplice spettatore ma si identifica in un'idea, che è quella appunto del festival, un evento che non è soltanto una sequenza di concerti che si susseguono, ma qualcosa che incide sulle coscienze, e dove uno torna magari a casa cambiato avendo scoperto artisti nuovi musiche diverse, non necessariamente rassicuranti. Cose che stimolano una tensione creativa, che si esprime attraverso le persone che abitano quel quartiere, attraverso quei luoghi fisici, che diventano casse di risonanza. Tutto ciò è l'identità che noi chiamiamo festival.

Leggendo i nomi del (come sempre) ottimo cartellone, quest'anno salta all'occhio per la prima volta l'assenza di artisti italiani. Quali sono i motivi che ti hanno portato a questa scelta? Non è un'idea in controtendenza per un festival pop (dal momento che il mercato oggi in Italia lo fanno l'it-pop e la trap)?
Questa è la quinta edizione, il numero cinque è un numero determinante, sono le dita di una mano e quindi è un po' una svolta, che chiude delle cose e, forse, ne apre delle altre. Nel momento in cui uno di solito tira le somme, noi abbiamo provato a fare la differenza, cioè fare un progetto diverso da altri, in nome dell'identità. Né migliore, né peggiore, semplicemente diverso da altre proposte. Come hai detto tu, siamo in un momento storico in cui un certo tipo di musica italiana è predominante, nei festival e nelle radio, tanto è vero che ci sono proposte per aumentare per legge la percentuale di musica italiana che deve passare. Noi abbiamo fatto, volenti o nolenti, quello che diciamo da sempre, ovvero abbattere i confini (in questo caso geografici) e non distinguere la musica per regione di provenienza o per genere musicale, ma semplicemente tra buona e cattiva musica. Per costruire un festival ci vuole un anno di lavoro intero e spesso l'idea dalla quale parti parti è diversa da quella alla quale arrivi alla fine, quindi un festival si auto-genera anche strada facendo, soprattutto se decidi di fare un festival che vuole stare in Europa (e quindi non avere solo artisti italiani). Quest'anno non c'è stata una scelta aprioristica, del tipo "non mettiamo italiani", ma in qualche maniera si è costruito un festival che rispecchia la nostra attenzione verso alcuni artisti di questo tipo. Nella nostra idea il festival non è qualcosa di ordinario, ma di stra-ordinario, cioè che offre l'opportunità di ascoltare musiche diverse dal quotidiano, e quindi piuttosto di costruire un evento dove c'erano i tour estivi delle band italiane sold-out invernali, abbiamo cercato di osare. Vedremo se i risultati ce ne renderanno merito o meno. Da questo punto di vista abbiamo avuto completa carta bianca da parte del committente (l'istituzione), non so se per fiducia o meno...

Beh, credo ci sia assolutamente fiducia in quello che fai.
Credo e spero, finora il riscontro è stato incoraggiante, chiaramente parlando di un cosiddetto boutique festival, non possiamo aspirare ai numeri e alla rilevanza dei grandi happening, e comunque non è nemmeno quella la volontà, mentre lo è quella di avere un pubblico che sceglie, a partire dal periodo, l'ultimo weekend di agosto, notoriamente di vacanza, per venire a vedere qualcosa che non conosce.

La vostra sfida è stata sempre molto chiara, per quanto mi riguarda. Mi domandavo soltanto se per le istituzioni non fosse importante l'identità del territorio, e quindi avere band locali.
Secondo me, identità del territorio non vuol dire soltanto l'artista emergente della zona. Questa cosa non serve a nulla, l'identità del territorio sta nel cogliere quell'energia creativa che caratterizza quel territorio non soltanto geograficamente (e quindi autoreferenziale), ma inserito in Europa, quindi la musica che diventa un messaggio umano (ancor prima che politico).

Parlando di organizzazione di eventi musicali, il fatto che l'Italia non abbia una lunga tradizione di festival dipende secondo te da difficoltà di tipo strutturale/istituzionale o culturale?
Questo è un tema complesso (ridiamo, ndr). Si tratta in verità di entrambe le cose. L'Italia non è un paese da festival, e qui chiamiamo festival cose che in realtà non lo sono. Per rendersene conto basta andare a pochi chilometri da qui, in paesi che hanno lunghe tradizioni di festival, come il Nord Europa, ma anche paesi a noi più vicini, tipo la Spagna. In Italia non c'è quel tipo di attenzione, innanzitutto perché il pubblico non è proprio abituato all'idea del festival, perché preferisce andare a vedere il singolo concerto dell'artista (italiano o meno). Spesso in tal senso l'offerta asseconda la richiesta stessa, quindi culturalmente non c'è quel tipo di attenzione, però ci sono anche circa 15.000 italiani che ogni anno prendono e vanno a vedere festival veri all'estero. Questo significa che è molto difficile realizzare un festival in Italia, perché gli artisti europei sono abituati a schemi che in tutto il resto d'Europa funzionano fuorché in Italia. Parlo in termini di approcci economici, di gestione logistica, precisione organizzativa... Ma non è soltanto questo il punto. Siamo il paese in cui la Siae si è coniata questo termine del "Concertino", che non vuol dire niente. Difficile in questo contesto riuscire a creare dei festival credibili e che riescano a equilibrare la proposta culturale con quella commerciale. Dall'altra parte c'è poi tutto il tema della burocrazia. Soprattutto negli ultimi anni, l'Italia è diventato il paese in cui è molto complesso organizzare cose che riescano ad aderire alla realtà burocratica attuale in termini di leggi di riferimento, che sono ancora quelle in cui i locali si chiamavano balere.

Doppia sfida: un festival che guarda al presente con la burocrazia del passato...
È esattamente così. Oltretutto ritorna quello che abbiamo detto prima, cioè le istituzioni incapaci di vedere le cose nel momento in cui sono, per come sono, e quindi tanti eventi, tanti locali, tanti club collassano e muoiono ancora prima di poter fare un risultato. Ci sono leggi che governano questo settore che diventano limiti, piuttosto che orizzonti.

Spesso qui da noi rassegne di concerti sparsi, spalmati su più mesi, vengono spacciate per festival. È un mezzo per strappare cachet più bassi agli artisti?
Credo che si tratti semplicemente del fatto di chiamare qualcosa con un nome sbagliato. Una rassegna non è un festival, si basa proprio su concetti diversi. Nella rassegna io scelgo, nell'ambito di un periodo più o meno lungo, di vedere i concerti di uno o l'altro artista. Il festival invece è un'esperienza immersiva, dove in più giornate consecutive io vivo quell'esperienza. E non si tratta solo di musica, la differenza è che, mentre a una rassegna io vado per vedere un concerto in quanto tale, al festival si dovrebbe andare per il festival in sé. L'artista non deve essere superiore al festival. Questo ti permette di poter scoprire artisti nuovi e sensazioni nuove. Organizzare una rassegna in Italia resta comunque complesso, ma dal punto di vista della costruzione logistica è meno difficile rispetto al dover incastrare in un solo weekend le disponibilità degli artisti. Si lavora un po' anche sui cosiddetti day-off di un'artista, che nel passare dalla Spagna all'Est ha magari quel giorno a disposizione e quindi è più facile per una rassegna spalmata su un intero mese poter dire "allora vi mettiamo quel giorno lì". Con questo non intendo dire che siano migliori o peggiori, sono semplicemente due cose molto diverse.

Il proliferare di festival, presenti ormai ovunque, aumenta i problemi agli organizzatori? L'offerta si fa sempre più ampia: esiste una domanda così grande da soddisfare? Pensiamo alla bella avventura del Siren, che quest'anno fra mille difficoltà ha deciso di fermarsi...
Se parliamo di festival, non sono moltissimi quelli che in italia io chiamerei tali, ma il Siren è sicuramente uno di quelli. L'estate notoriamente è il periodo in cui alcuni luoghi geografici molto belli si aprono a momenti aggregativi tipo fenomeno turistico e che, a volte, assomiglia più alla sagra paesana o all'animazione da villaggio turistico. Anche qui c'è confusione, vengono invitati artisti molto validi che vengono messi in contesti assurdi. L'investimento tipo richiamo turistico però non fa emergere la qualità primariamente. È legato più all'intrattenimento che all'evento culturale. In Italia poi si fatica molto a mettere insieme queste due parole (intrattenimento e cultura), perché si pensa che magari per cultura si intenda qualcosa di un po' palloso o pesante e l'intrattenimento sia invece qualcosa di fine a sé stesso, cosa che invece non accade in altri paesi, dove la qualità fa sempre rima con divertimento, cioè mi diverto ascoltando buona musica, potendo parlare di più cose e di più generi musicali. In questo modo faccio anche cultura. L'Italia adesso è un paese in cui mettere insieme intrattenimento e cultura, così come underground e mainstream, così come imprenditoria e cultura, è una cosa ancora un po' aliena e difficile da pensare.

Pensi che un giorno sarà possibile in Italia avere dei festival ai livelli di un Primavera Sound, un Glastonbury, uno Sziget, un Coachella? Quelli in grado di richiamare decine di migliaia di persone anche dall'estero?
(lungo respiro, ndr) No!

Lapidario (ridiamo, ndr)
Sono convinto che non ci sia nemmeno l'intenzione. In Italia ci sono altri esempi, mi viene in mente adesso l'Ypsigrock (nell'ambito del periodo estivo) che sono riconosciuti anche all'estero e hanno un format caratteristico, che funziona, per via di luoghi geograficamente molto accoglienti. Quell'idea, invece, tipo Primavera o Sziget, non può funzionare qui, soprattutto non fatta soltanto con artisti internazionali. Ci sono festival in Italia che hanno quella schema di grandi happening tipo lo Sziget, però per fare numeri hanno necessità spesso di avere il grande nome italiano che richiama tanta gente. Siamo in un periodo storico in cui il famoso hashtag "prima gli italiani" (in politica, nella cultura e nel sociale) imperversa.

Raccontaci come avviene la definizione della vostra line-up. Vi muovete sulla base del vostro gusto personale? Come vengono contattati gli artisti? Insomma, spiegaci a grandi linee la parte del festival che non possiamo vedere...
Ci sono due risposte che ti potrei dare. Una è quella romantica: si parte da una narrazione, una visione, cioè "che cosa voglio fare", non una semplice esibizione sul palco ma un'idea che sta dietro (si presuppone che uno segua la musica e abbia la capacità di tradurre in una narrazione quello che ascolta). Ovviamente, se dovessi fare nella mia vita concerti legati solo al mio gusto personale, probabilmente non sarei andato oltre qualche mese di lavoro... quindi devo cercare di intercettare gusti del pubblico, non seguendo una moda o un trend, ma anticipando in qualche modo il gusto. Penso a qualche artista delle passate edizioni, Perfume Genius, Timber Timbre, ma anche lo stesso Mac DeMarco, nomi sconosciuti ai più ma rimasti tra le cose più memorabili, dove molte persone che non li conoscevano se ne sono innamorate. Questa è la capacità, e anche un po' la magia, di riuscire a creare un trend, e anziché fare soltanto ciò che ci piace, fare qualcosa che crea una tensione creativa, dalla quale nasce poi il concept del festival. Questa è la risposta romantica, poi c'è quella reale, cioè che spesso, proprio per quello che ti dicevo prima (l'Italia non è un paese di tradizione così consolidata per i festival), spesso ti riduci a fare chi c'è in quel momento e chi ti puoi permettere di pagare. La verità sta a metà strada: capacità di fare un festival che sia una mediazione tra quello che si vorrebbe fare e quello che si riesce a fare, pur mantenendo la visione.

Mi immaginavo il tetris mentre spiegavi questa cosa...
Eh, guarda, non è molto diverso, con la differenza che qui è anche molto delicato; ogni pedina che stai andando a muovere ne muove tante altre, quindi è un equilibrio che si rinnova ogni momento. Alla fine, un po' per magia, il quadro si completa ed è lì la prova del nove, nel capire se la tua visione iniziale si è realizzata e viene correttamente narrata attraverso gli ospiti di quella edizione. Ti aggiungo che l'obiettivo non deve essere quello di fare qualcosa che piaccia necessariamente, che è un falso problema. A me piace sempre dire che riesco a vincere se uno torna a casa non dicendo "wow, è stato come me lo aspettavo", ma al contrario "wow, è stato come non me lo aspettavo". Non mi interessa che la gente sia adulatrice di un qualcosa che già conosce.
Se non fosse stato così, non avrei mai fatto un festival in un periferia disagiata. Uno dei palchi principali è in un parco dove l'attività quotidiana predominante è lo spaccio e il consumo di droga; e invece, per quei tre giorni, quel prato verde si illumina di altre cose. In quel caso il messaggio politico di un festival è quello di suggerire, all'amministrazione e a chi quei territori li vive, maniere diverse per poterli pensare, quei luoghi.

Fra TOdays e Club To Club possiamo affermare che oggi Torino è la capitale italiana dei festival musicali?
Questo non te lo so dire. Io credo che Torino sia da sempre una città con delle grandi potenzialità, e che spesso non è capace di tradurre queste potenzialità in realtà che possono andare oltre. È un po' come la boxe. Tu puoi diventare il migliore della categoria musicale in cui giochi, ma difficilmente riesci a fare il salto nella categoria successiva, dai pesi medi a quelli massimi, tanto per dire. Credo che Torino, così come l'Italia in generale, sia un po' troppo autoreferenziale nelle cose: esprime un fermento creativo con grandi potenzialità, che però rimangono inespresse, e spesso muoiono ancor prima di diventare reali.
Sicuramente TOdays e Club To Club, ma anche altri eventi più piccoli, rappresentano momenti importanti, patrimonio non soltanto dei torinesi (il 50% del pubblico del TOdays non è torinese, dai dati di vendita ticketone), ma come ti dicevo prima, siamo un po' troppo concentrati su noi stessi per riuscire davvero a vedere le cose per come sono e quindi farle crescere. Ripeto, è un problema generale italiano, ma a Torino lo colgo di più, sarà perché è la città in cui vivo e dove ho sempre lavorato.

(Domande preparate con il contributo di Claudio Lancia)