RADIO SONG
“Questo disco conferma i Rem come dei veri fossili. Se muoio domani, so che la mia voce sarà immortalata per sempre e nessuno può farci nulla”. Così parlò il sardonico Stipe travolto da un insolito destino di successo all’indomani dell’exploit mondiale di “Green”. Ma, in fondo, era stato solo un fortunato album di transizione. Perché – come ammetteva anche il produttore Scott Litt – “aveva alcune belle cose, ma non era sviluppato appieno”. Ora i Rem, forti di un seguito ormai planetario e di mezzi tecnici inimmaginabili al tempo dei gloriosi party di Oconee Street, erano chiamati alla prova più difficile della loro carriera: un triplo salto (mortale?) nel rock mainstream, senza disperdere il patrimonio della loro identità e dei loro fan storici. Serviva un miracolo. Bisognava entrare in una nuova dimensione. Fuori dal tempo. “Out Of Time”. Tre parole in cui – secondo Buck – si concentra la filosofia del gruppo: “Noi ci sentiamo del tutto fuori dal tempo e dalle mode. Siamo un caso a parte, volutamente ai margini delle tendenze del mercato discografico. È musica a sé stante, senza confini temporali, anche se indubbiamente contiene degli elementi che possono ricondurre agli anni Sessanta”.
“Out Of Time” è il disco del boom, quello che trasforma irreversibilmente i Rem in qualcos’altro. Certo, i segni dell’evoluzione apparivano già chiari tra i solchi di “Document” e “Green”. Ora, però, stava arrivando l’ondata che avrebbe travolto tutto, rimettendo straordinariamente in gioco la band in un altro campo, dove la gloria era assicurata, ma le insidie si nascondevano dietro ogni angolo. Quale luogo meglio di Woodstock – topos sacro del rock – per registrare il disco della svolta?
Musicalmente, la trasformazione si avverte in un suono che da scarno si fa quasi barocco, con l’ingresso in pista di tastiere, organo, fiati, clavicembalo e una corposa sezione d’archi, oltre al confermatissimo mandolino. Al fianco dei Rem accorrono poi amici di vecchia data, come Kate Pierson, cantante dei B-52’s, e Peter Holsapple, ex-leader dei Db’s, che si alterna tra basso e chitarra. “Era un lavoro molto più compiuto di Green”, sostiene Scott Litt. “Si vede che l’ago della bilancia si sposta da dischi pieni di chitarre ad album con più complessità, più produzione, più arrangiamento.
“Out Of Time”, infatti, aveva arrangiamenti con archi veri, con 12, 14 o 16 parti in molte delle canzoni, e violini, viole e violoncelli”. La produzione di Litt, seppur sempre più accurata, riesce comunque a non appesantire troppo la cornice delle canzoni, che ritrovano tutta la miglior verve melodica di marca remmiana.
Supportato da questo spiegamento di forze e incoraggiato dal suo crescente successo personale, Michael Stipe esce definitivamente allo scoperto. E irrompe negli anni Novanta mettendo a nudo tutte le sue ansie e incertezze. Personali, in gran parte, ma anche legate alle sorti del pianeta. In piena Guerra del Golfo, non resta che tornare ai toni apocalittici di “It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine...)” per sfogliare una nuova pagina oscura di storia americana.
The world is collapsing
Around our ears
I turned up the radio
But I can’t hear it
Il mondo sta collassando
Intorno alle mie orecchie
Ho acceso la radio
Ma non riesco a sentirlo
Un verso che suona come una condanna, quello che dà il La a “Radio Song” (terza “song” posta in apertura di disco, dopo “Finest Worksong” e “Pop Song ’89”). “Centinaia di migliaia di americani hanno protestato contro quella guerra, ma nessuno ne parlò”, ricorda Stipe. Dopo un’intro di chitarra molto sixties, la canzone prende corpo su robuste ritmiche funky, con un organo e una sezione d’archi dell’Orchestra sinfonica di Atlanta a costruire una possente impalcatura sonora e Stipe alle prese con un imprevedibile duetto con Kris Needs, alias KRS-One, stentoreo rapper dei Boogie Down Productions.
Check it out
What are you saying
What are you playing
Who are you obeying
Day out day in?
Baby baby baby
That stuff is driving me crazy
DJs communicate to the masses
Sex and violent classes
Now our children grow up prisoners
All their lives radio listeners
Senti qua
Cosa dici
Cosa suoni
A chi obbedisci
Giorno dopo giorno?
Baby, baby, baby
Quella roba mi sta facendo diventare pazzo
I dj comunicano alle masse
Sesso e classi violente
Adesso i nostri ragazzi crescono prigionieri
Ascoltando la radio tutto il tempo
Se Morrissey in “Panic” minacciava addirittura di impiccare i dj (“hang the blessed dj”) perché la loro musica non raccontava niente della sua vita (“The music that they constantly play/ It says nothing to me about my life”), Stipe non va molto lontano, inveendo contro la massificazione musicale operata dalle radio, che imprigiona i ragazzi in una logica di omologazione e obbedienza ai dettami di qualcun altro (l’industria musicale?). Una excusatio non petita, da parte di una band che spopolerà in tutte le radio Fm di lì a breve, o solo un’orgogliosa rivendicazione della propria, immutata diversità? In ogni caso, un incipit deciso, che però serve solo a preparare il terreno al brano successivo. Ovvero, proprio la “radio song” per antonomasia dei Rem e forse dell’intero decennio Novanta.
LOSING MY RELIGION
Come nasce una hit immortale?
Forse, basta davvero la melodia giusta, ben incorniciata dagli arrangiamenti. Poi, il resto aiuta. Incluso persino un testo universalmente equivocato. Perché “Losing My Religion” – come spiegherà lo stesso Stipe – non ha niente a che fare con l’ateismo o la perdita della fede.
È invece solo un’espressione idiomatica, in voga nel sud degli States, che sta all’incirca per “perdere la pazienza” o “non poterne più”. Nella circostanza, per colpa di una storia d’amore disperata e ossessiva. Anche se, naturalmente, il termine “love” non comparirà mai.
Life is bigger
It’s bigger than you
And you are not me
The lengths that I will go to
The distance in your eyes
Oh no I’ve said too much
I set it up
That’s me in the corner
That’s me in the spotlight
Losing my religion
Trying to keep up with you
And I don’t know if I can do it
Oh no I’ve said too much
I haven’t said enough
I thought that I heard you laughing
I thought that I heard you sing
I think I thought I saw you try
La vita è grande
Più grande di te
E tu non sei me
Farei di tutto per te
Uno sguardo indifferente nei tuoi occhi
Oh no, ho detto troppo
Io l’ho combinato
Eccomi nell’angolo
Eccomi sotto i riflettori
Mentre ho perso la pazienza
A cercare di starti dietro
E non so se posso farcela
Oh no, ho detto troppo
Anzi, non ho ancora detto tutto!
Credevo di averti sentito ridere
Credevo di averti sentito cantare
Credevo di averti visto provare
Il brano si apre insomma come la più classica delle dichiarazioni d’impotenza. Una storia di amore non ricambiato, nonostante ogni possibile tentativo. Stipe rielabora ancora una volta il filone della prediletta “Every Breath You Take” dei Police, per commentare una nuova patologia sentimentale, in cui si mescola anche la sua condizione di star “sotto i riflettori”. E non c’è dubbio che sia solo questo il senso del brano, anche se nel prosieguo l’autore non rinuncia a infilarvi nuove espressioni religiose, come a voler giocare sull’equivoco del titolo, alimentato del resto dalla “ieraticità” del relativo videoclip, diretto dal regista indiano Tarsem Dhandwar Singh, che sarà persino accusato di blasfemia e censurato in Irlanda.
Every whisper
Of every waking hour I’m
Choosing my confessions
Trying to keep an eye on you
Ogni sussurro
Di ogni ora che sto sveglio, io sto
Scegliendo le mie confessioni
Cercando di tenerti d’occhio
Ma se il termine “confessioni” appare volutamente ambiguo, il verso finale, ammettendo che l’illusione amorosa è stata solo un sogno (“just a dream”) ribadisce il cuore concettuale del brano: una canzone colma di disperazione per un amore non ricambiato.
La malinconia del testo si sposa a meraviglia con una musica tra le più struggenti mai composte dai Georgiani. Sospinta da un’ondata di archi (in questo caso sintetici) e da un ritmo incalzante, con il mandolino di Buck a intrecciarsi ai ricami dell’acustica di Holsapple, “Losing My Religion” si libra in una melodia avvolgente, che Stipe intona con piglio contrito e desolato. In attesa di un ritornello che non arriverà mai.
È “la canzone” per definizione dei Rem, il trait d’union tra le loro origini “alternative” e il loro destino di rockstar, l’inno che – piaccia o no – li rappresenterà per sempre, con quel verso iniziale “life is bigger” che suona quasi come una profezia: proprio a partire da “Losing My Religion”, la vita dei Georgiani è diventata più grande. Spiega Mike Mills: “Ci sono stati pochi eventi epocali nella nostra carriera, perché è avanzata molto gradualmente. Se proprio bisogna parlare di un cambiamento storico, credo che la cosa che ci si avvicina di più sia ‘Losing My Religion’”. Sarà anche il loro 45 giri di maggior successo (n. 4 nelle chart Usa) e si aggiudicherà due Mtv Music Awards. Paradossale, per una band che, solo pochi anni prima, aveva dichiarato guerra ai videoclip.
LOW
Un bordone d’organo funereo, un clarinetto basso, il ticchettio delle congas e una tetra sezione d’archi, ad assecondare il cantato mesto di Stipe. “Low” acuisce ancora il pathos, scivolando in una liturgia sepolcrale di marca velvettiana, che culmina in un bel crescendo. Ancora una canzone d’amore perduto, che si vergogna un po’ d’esserlo. Perché per Stipe resta sempre difficile pronunciare la parola “love”.
I skipped the part about love
It seems so silly and low
Low low low
Low low low
Ho saltato la parte sull’amore
Sembra così stupida e vuota
Giù giù giù
Giù giù giù
“È la canzone che rappresenta i miei sentimenti circa le love song, la musica pop”, spiegherà il cantante. “A parte ‘The One I Love’, che non è esattamente una canzone d’amore, ‘Low’ è stata la prima volta che ho usato la parola love in un una canzone”. Ma il brano non era una novità: da tempo presente nelle scalette dei live, non aveva ancora trovato l’arrangiamento giusto per essere inciso su disco. Un’attesa pienamente ripagata dal risultato finale. E non solo per l’efficacia degli arrangiamenti. Stipe, infatti, sfodera nuovi versi enigmatici e immaginifici, come in una carrellata di immagini senza posa. A cominciare dall’incipit, che sembra quasi un auto-documentario girato con telecamera a mano.
Dusk is dawn is day
Where did it go?
I’ve been laughing
Fast and slow
Moving in a still frame
Howling at the moon
Morning found me laughing
Up and down, down
Low low low
Night suits me fine
And morning suits me fine
I’ve been so happy
Way up high, high
In between
Down below
Low low low
Il crepuscolo è alba, è giorno
Dov’è andato?
Stavo ridendo
Velocemente e lentamente
Muovendomi in un fermo immagine
Ululando alla luna
Il mattino mi ha sorpreso mentre ridevo
Su e giù, giù
Giù, giù, giù
La notte fa proprio per me
Anche il mattino mi sta bene
Sono stato così felice
Così estatico
Tra un momento e l’altro
In cui ero giù
Giù, giù, giù
Una canzone esistenzialista e autobiografica, in fondo, celata dal solito lessico metanarrativo di Stipe.
NEAR WILD HEAVEN
Ma “Out Of Time” è un disco bifronte: per metà perso nelle foschie chiaroscurali della malinconia, per metà illuminato da sprazzi d’incontrollata euforia. Uno dei più celebri è la saltellante “Near Wild Heaven”, con i suoi cori a festa e un ritornello orecchiabile alla Beach Boys. Il contrasto con il brano che la precede (“Low”) è a dir poco spiazzante e quindi, con ogni probabilità, voluto. Anche perché, tanto per cambiare, il testo esprime tutt’altro. E la vicinanza al “paradiso quasi selvaggio” del titolo resta una chimera.
Whenever we hold each other
We hold each other
There’s a feeling that’s gone
Something has gone wrong
And I don’t know how much longer I can take it
House made of heart break it
Take my head in your hands and shake it
In this near wild heaven
Not near enough
Ogni volta che ci abbracciamo
Ci abbracciamo
C’e un sentimento che se ne va
Qualcosa è andato storto
E non so per quanto tempo ancora posso sopportarlo
La casa fatta con il cuore spezzato
Prendi la mia testa nelle tue mani e scuotila
In questo paradiso quasi selvaggio
Non abbastanza vicino
Ancora una canzone sui sentimenti traditi e sulla disillusione, quindi, affidata per la prima volta (se si eccettua la cover di “Superman” su “Lifes Rich Pageant”) alla voce di Mike Mills, con Stipe che gli lascia la scena e si limita al coro. “Sembra la canzone più gioiosa di questo mondo e invece è molto triste”, preciserà lo stesso Mills, quasi a volerla difendere. “È una canzone pop, ma non un testo pop. I brani del disco, più che sullo stato del mondo, vertono sullo stato delle nostre menti e dei nostri cuori”.
SHINY HAPPY PEOPLE
Stavolta, niente scuse. I Rem hanno voluto solo divertirsi. Proprio come le celebri ragazze di Cyndi Lauper. Al posto della più impertinente popstar degli anni Ottanta, c’è la più stagionata ma non meno stravagante Kate Pierson dei B-52’s, un’altra delle voci-simbolo del decennio appena trascorso. Ne nasce un duetto che ammalia e sconcerta al tempo stesso, con quella geniale intro d’archi a passo di valzer e quell’esplosione incontrollata che decolla su un giro di chitarra e sui cori da cartoon-party. Demenziale, come in fondo da miglior tradizione degli atheniesi B-52’s e come ribadisce a doppia sottolineatura il videoclip, in cui Stipe canta con un finto sorriso stampato sul viso, una scarlatta Pierson si dimena con fare caricaturale e gli altri membri della band appaiono quasi inebetiti dall’incredibile caciara di uomini, donne e bambini che saltano e ballano.
Una pietanza forse troppo carica da far digerire ai fan della prim’ora, ma sufficientemente saporita per chi, in quella sarabanda kitsch, riusciva a cogliere la vecchia ironia nonsense della band applicata al tempo dello stardom. Ma, certo, non c’è molto da aspettarsi da un testo che sembra semplicemente cucito su misura per quel coloratissimo patchwork sonoro, che irrompeva nel disco come un pugno in un occhio, dopo l’orchestrale compostezza del semistrumentale “Endgame”.
Shiny happy people laughing
Meet me in the crowd
People people
Throw your love around
Love me love me
Take it into town
Happy happy
Put it in the ground
Where the flowers grow
Gold and silver shine
Gente felice e raggiante che ride
Incontrami in mezzo alla folla
Gente, gente
Spandi attorno il tuo amore
Amami, amami
Portalo in città
Felice, felice
Mettilo in terra
Dove crescono i fiori
Che splendono d’oro e d’argento
Cos’era successo a quei rigidi custodi dell’intransigenza indie-rock a stelle e strisce? Avevano alfine sbracato davvero o si erano semplicemente rincoglioniti? La domanda li perseguiterà a lungo, con un’ondata di attacchi al vetriolo da ogni parte. Dai fan delusi ai colleghi invidiosi fino a quella Mtv che li aveva sempre coccolati e che ora, con i monologhi di Denis Leary, si divertiva a sbertucciare il brano. La stessa band tenderà progressivamente a “rimuoverlo” dal suo repertorio, finendo al massimo per scherzarci su, come quando la trasformerà in “Scary Furry Monsters” in una bizzarra performance assieme ai pupazzi dei Muppets.
Eppure, “Shiny Happy People” sarà il primo singolo dei Rem a varcare le soglie della Top 10 britannica, con buona pace dei suoi detrattori. Anche perché, forse, così stupido non era, almeno musicalmente: “È un bel pezzo, un lavoro di qualità”, lo difenderà Mills. “Il problema è che non è facile scrivere canzoni positive e, quando uno lo fa, tutti credono che li stai prendendo in giro, mentre non è così. È una specie di canzone allegra e in quanto tale appare leggermente fuori luogo nella nostra produzione. La gente ci si accanisce per vari motivi. Per me è una bellissima canzone che non voglio suonare mai più!”. E Stipe si spingerà persino più in là: “Talvolta ci si sente bene nel fare qualcosa di semplice, ed è la sensazione che noi abbiamo provato nel fare questa canzone. È il brano più felice che abbiamo mai composto. La linea di chitarra è la più grande melodia che abbia mai sentito. E il video... è la cosa più gioiosa che abbia mai visto”.
Un inno alla gioia, insomma, da prendere così, senza farsi troppe domande e lasciandosi cullare da quelle atmosfere gaiamente sixties.
TEXARKANA
Ritorno al bivio tra gioia e malinconia. Ma anche un bivio reale, quello che divide due stati americani, il Texas e l’Arkansas. “Texarkana” ne è l’ideale contrazione (ma anche una reale città texana, alla frontiera tra i due stati). Un nome che evoca suggestioni desertiche e polverose. Come quelle di un lungo viaggio alla ricerca di qualcosa, o forse semplicemente di se stessi. Un viaggio che, per definizione, non può mai finire e che può essere letto come la più limpida metafora della condizione umana.
Mills rielabora un canovaccio originario abbozzato e mai completato da Stipe, e lo trasforma in una delle prodezze del disco. Una ballata western sognante e struggente, interpretata dallo stesso bassista con vibrante pathos.
20,000 miles to an oasis
20,000 years will I burn
20,000 chances I wasted
Waiting for the moment to turn
I would give my life to find it
I would give it all
Catch me if I fall
20.000 miglia a un’oasi
20.000 anni brucerò
20.000 possibilità ho sprecato
Aspettando il momento giusto per una svolta
Darei la mia vita per trovarlo
La darei tutta
Afferrami se cado
Le ventimila miglia iniziali aumentano via via nel testo, fino a divenire trentamila e poi quarantamila, come “le stelle nella sera” (“40,000 stars in the evening”), le ragioni per vivere (“40,000 reasons for living”) o le lacrime negli occhi dell’amata (“40,000 tears in your eye”). Un viaggio esistenziale, dunque, che all’euforia del movimento unisce una riflessione tutt’altro che serena, con la consapevolezza di poter “cadere” da un momento all’altro.
“Texarkana” è uno di quei gioielli d’arte povera che solo i Rem sanno confezionare. Basta pochissimo: un bel giro di basso, gli archi che spingono, i cori nostalgici nel bridge. Semplice e bella. Da togliere il fiato.
COUNTRY FEEDBACK
L’altro affondo che non t’aspetti. Un abisso di lirismo, avvolto in scie granulose di feedback. La pedal steel guitar di Buck singhiozza attorno a un semplice giro country, creando il mood giusto – evocativo e struggente – per un’altra magnifica interpretazione di Stipe, che canta quasi in trance, facendo scorrere fiumi di parole in libertà. Non a caso, la definisce una delle sue “vomit song”, canzoni “vomitate” riversando in modo inconscio pensieri e immagini che fluttuano nella mente. “A volte apro la bocca e via, ecco la canzone sul foglio”, racconterà ad Adrian Devoy di «Q». Ma mai come in questo caso ne sarà così pienamente soddisfatto: “’Country Feedback’ è la mia canzone preferita dei Rem, tra quelle incise su disco”, rivelerà compiaciuto. Sono solo parole schizzate su un foglio, in ordine sparso. Eppure, sembrano particolarmente sentite, a giudicare da come Stipe interpreta il brano, con un’intensità che rasenta la commozione, e da come lo riproporrà dal vivo, di spalle al pubblico, per nascondere l’emozione, così come aveva fatto sei anni prima con “You Are The Everything”.
Di che cosa tratti il testo, l’ha raccontato chiaramente – per una volta – lo stesso autore: “È una canzone d’amore, ma l’amore visto nel suo lato peggiore. Praticamente parla di quando si è rinunciato a una relazione”.
This flower is scorched
This film is on
On a maddening loop
These clothes
These clothes don’t fit us right
I’m to blame
It’s all the same
It’s all the same
Questo fiore è bruciato
Questo film scorre
Ripetendosi in un ciclo esasperante
Questi vestiti
Questi vestiti non ci vanno bene
È colpa mia
È tutto uguale
È tutto uguale
Un’altra ossessione amorosa, dunque, che logora il corpo e la mente (“you wear me out”), spingendo all’autolesionismo e alla follia.
We’ve been through fake-a-breakdown
Self hurt
Plastics, collections
Self help, self pain
EST, psychics, fuck all
I was central
I had control
I lost my head
I need this
I need this
Siamo già passati attraverso un falso esaurimento
Autolesionismo
Plastica, collezioni
Auto-aiuto, auto-dolore
EST, medium, ’fanculo
Ero importante
Avevo il controllo
Ho perso la testa
Ho bisogno di questo
Ho bisogno di questo
Per lenire il dolore e per dimenticare la perdita si insegue ogni forma di aiuto, compresi una linea erotica (“a hotline, a wanted ad”) e l’elettroshock (ma la sigla EST potrebbe riferirsi anche alla terapia ideata negli anni Settanta da Werner H. Erhard per stimolare gli individui a migliorare il proprio approccio alla vita tramite seminari di gruppo).
Alla fine, però, resta solo il rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato: “It’s crazy what you could’ve had/ I need this” (“È incredibile ciò che avresti potuto avere/ Ho bisogno di questo”).
Stavolta il gioco di sdoppiamenti e ambiguità fa cilecca. È Stipe in persona, nudo davanti a tutti, mentre scava nei recessi più oscuri della sua mente. Da qui, probabilmente, l’emozione che traspare così vivida e palpitante.
Straordinaria anche in una sua celebre versione live, “Country Feedback” è, di fatto, l’antesignana di quella “E-Bow The Letter” che qualche anno dopo ricongiungerà davanti al microfono l’ormai maturo Michael alla sua musa adolescenziale, Patti Smith.
ME IN HONEY
Il più dolce dei commiati possibili, in un disco che affronta l’amore quasi come una patologia. L’amore per un bambino che sta per nascere. Stipe concepisce il brano come una risposta ironica e affettuosa all’amica Natalie Merchant dei 10,000 Maniacs che aveva appena raccontato la sua attesa della maternità in “Eat For Two”. Nei versi di “Me In Honey”, cambia la prospettiva: la gravidanza è vista dall’ottica paterna, con tutte le ansie e le incertezze che comporta.
Baby’s got some new rules
Baby says she’s had it with me
There’s a fly in the honey
And baby’s got a baby with me
That’s a part
That’s a part of me
Left me to love
What it’s doing to me
Left me to love
What it’s doing to me
What about me?
La mia piccola ha stabilito nuove regole
La mia piccola dice che ne ha abbastanza di me
C’è una mosca nel miele
E la bambina ha avuto un bambino con me
È una parte
È una parte di me
E mi ha lasciato ad amare
Che cosa mi sta facendo
Mi ha lasciato ad amare
Che cosa mi sta facendo
Che ne sarà di me?
Lo schema è ancora una volta essenziale: un riff che si ripete, finemente psichedelico, pochi accordi a girare attorno, un drumming secco a dettare il ritmo. Ma Stipe, ancora in duetto con Kate Pierson, riesce a costruirvi sopra un’altra interpretazione di razza, che si muove sinuosa disegnando nuove, delicatissime melodie.
“Out Of Time” è il disco che fa esplodere definitivamente il caso-Rem in tutto il pianeta. Si issa in vetta alle chart su entrambe le sponde dell’Atlantico e in diversi paesi europei, tra cui l’Italia. È il primo a varcare le soglie delle Top Ten con due 45 giri (“Losing My Religion” e “Shiny Happy People”). Conquista quattro dischi di platino, vendendo la bellezza di 18 milioni di copie in giro per il mondo (record assoluto per i Georgiani). E, dulcis in fundo, si aggiudica tre Grammy Awards nel 1992.
È uno dei rari casi in cui successo commerciale fa rima con qualità. Perché “Out Of Time” è indubbiamente un ottimo disco, tra i migliori dei Rem targati Warner. Ma un simile fenomeno di massa non può accontentare tutti. Ci sarà, tra i fan della prima ora, chi storcerà la bocca e persino chi volterà per sempre le spalle ai quattro ex studenti di Athens. “Con il grande successo di ‘Out Of Time’ abbiamo enormemente allargato la schiera dei nostri fan”, osserva Buck, “e se abbiamo perso qualcuno dei fan storici, poco male, è nella logica delle cose... È qualcosa che accade, dopo dieci anni di attività. Coloro che non ci amano più dopo il successo di ‘Losing My Religion’ possono andare a farsi fottere. Il tempo ha cambiato l’energia dei Rem. Ora ci diverte suonare canzoni più tranquille. Davvero, non ci interessa tornare a essere una rock’n’roll band di culto”. Sulla stessa linea Berry: “Non si può essere una cult band a vita. Io ormai ho 32 anni e non voglio essere un leggendario eroe. Abbiamo già vissuto quest’esperienza, grandiosa e devastante allo stesso tempo. I nostri fan della prima ora devono cercarsi un’altra band da scoprire e adorare... Adesso mi piace suonare canzoni lente, tranquille, e non era così quando avevo 21 anni. Adesso al suono della chitarra elettrica preferisco quello della chitarra acustica o del mandolino”.
Non sempre, in futuro, sarebbe stato così. Basti pensare al ritorno di fiamma rock’n’roll di “Monster”. Ma le coordinate della nuova stagione dei Rem erano state definitivamente tracciate. Un’evoluzione, senz’altro, ma nella continuità. Quella di una band che, da sempre, ha saputo soprattutto scrivere grandi canzoni, melodie, ritornelli. E che non aveva smarrito per strada la sua identità, cedendo alle lusinghe dello showbiz. Invece di trasferirsi a New York o a Los Angeles, come qualsiasi altra rockstar al posto loro avrebbe fatto, Stipe e compagni erano sempre rimasti fedeli alla loro Athens e alla provincia del Sud.
Il cantautore Billy Bragg, che in quel periodo si trovava in Georgia, ha raccontato di come la notizia del primo posto conquistato da “Out Of Time” nella classifica di Billboard non avesse sconvolto più di tanto l’esistenza dei quattro: “Per carità, erano felicissimi di questo fatto, ma erano più preoccupati di arrivare ad Athens in tempo per assistere a una seduta del consiglio comunale in cui si discuteva se demolire o meno la vecchia caserma dei pompieri. Andarono all’assemblea e invitarono tutte queste stupende donne del Sud, che erano venute in città per difendere quell’edificio storico, a tornare per una festa”. Forse è anche questo, il segreto dei Rem.