R.E.M. - Perfect Circle

Green

GREEN (1988)

POP SONG 89

Rem - Perfect Circle
La Irs aveva gettato i semi di quel successo, aspettandolo pazientemente, disco dopo disco. Ma, come da spietato copione della storia del rock, quando un fenomeno esplode, a beneficiarne non sono quasi mai i suoi artefici originali. Per i Rem lasciare la piccola etichetta che li aveva scoperti e lanciati, concedendo loro la massima autonomia, sarà “la decisione più difficile mai presa”. Ma ormai inevitabile. Alla Irs non resterà che consolarsi con due raccolte, “Dead Letter Office” (con B-side, rarità e cover) e la più sostanziosa “Eponymous”. Perché ormai i Georgiani sono la preda più ambita del rock business e le major fanno a gara per ingaggiarli. Alla fine la spunta la Warner Records, con un contratto da capogiro: dieci milioni di dollari.
I Rem, però, sono ancora fieri della loro diversità. Non vogliono calarsi le braghe e dettano precise condizioni: controllo sul prodotto, possibilità di rifiutare interviste, show televisivi, concerti ecc.. Insomma, vogliono restare fedeli alla massima coniata da quel megalomane di Buck in un momento d’euforia: “Saremo il miglior gruppo del mondo, ma a modo nostro”. Sono loro gli aspiranti leader mondiali (World Leader Pretend)? Buck, consapevole delle insidie del nuovo ruolo e delle inevitabili critiche per una decisione che rischia di scontentare i fan della prim’ora, innesta la retromarcia: “Non siamo la miglior band del mondo, nessuno lo è, perciò chi se ne frega? E di tutta la gente che pensa che abbiamo tradito, beh, non mi frega niente neanche di loro. C’è un sacco di gente alla quale piacciono le band quando non sono tanto importanti, e io sono uno di loro. Mi piacciono davvero i Replacements; li ho visti una cinquantina di volte suonare davanti a venti persone...”.
Più pragmatico Stipe: “La carta vincente furono le garanzie dateci dalla Warner circa il fatto che saremmo diventati la loro top priority band per quanto riguarda la promozione all’estero. E per estero si intende soprattutto l’Europa. E poi hanno avuto sotto contratto molti ottimi artisti, come Van Dyke Parks e altri, senza affliggerli con richieste di marketing, senza obbligarli a registrare album a raffica per motivi commerciali. Conoscevano perfettamente le nostre condizioni. E a noi serviva un nuovo punto di partenza. Avevamo bisogno di sentirci nuovamente dei debuttanti, dei green”.
Un titolo che è tutto un programma, quello del primo album dell’era-Warner. Perché “Green” non è solo la metafora per una nuova partenza. È il colore del movimento ecologista, cui i Rem aderiscono entusiasticamente, ma anche quello dei dollari. Un sardonico riferimento al mucchio di banconote appena piovuto su di loro? Forse, se ci si affida all’autoironia della band, ma per Stipe dev’essere soprattutto un messaggio di speranza e di riarmo morale di fronte al cinismo di quegli anni. Un verde-speranza, insomma, nonostante la sfortunata coincidenza cronologica: il disco viene pubblicato l’8 novembre 1988, giorno delle elezioni presidenziali che segnano la vittoria del repubblicano George Bush (senior) sul democratico Michael Dukakis, per il quale i Rem si erano spesi pubblicamente in campagna elettorale. Ma per Stipe, ora, è il momento di “darsi da fare”, di offrire “visioni positive”.
Nel nome di questa euforia, “Green” sposa briose e accattivanti sonorità pop-rock, smussando ulteriormente le (residue) asperità del passato. Epitome di questo nuovo corso è lo scanzonato incipit di “Pop Song 89”, tutto riff fiammeggianti e coretti a festa, con quell’hookcircolare che non lascia scampo. Il rompighiaccio perfetto per le chart.

Hello, I saw you, I know you, I knew you
I think I can remember your name... name
Hello I’m sorry, I lost myself
I think I thought you were someone else

Should we talk about the weather? (Hi... hi, hi)
Should we talk about the government?
(Hi... hi, hi, hi)

Ciao, ti ho visto, ti conosco, ti conoscevo
Penso di poter ricordare il tuo nome... nome
Ciao scusa, mi sono perso
Credo di aver pensato che tu fossi qualcun altro

Potremmo parlare del tempo? (Ciao... ciao, ciao)
Potremmo parlare del governo? (Ciao... ciao, ciao, ciao)

Un omaggio alla “Hello, I Love You” dei Doors? Musica e verso iniziale lo lascerebbero intendere, mentre il dilemma finale è sottilmente ironico: Stipe si chiede se una pop song possa occuparsi di argomenti politici o solo di facezie meteorologiche. E la risposta arriverà nei brani successivi...

YOU ARE THE EVERYTHING

I Rem, però, non si sono trasformati di colpo in shiny happy people. La malinconia alligna ancora tra le pieghe del songwriting di Stipe e si riversa tutta nell’elegia campagnola per banjo, fisarmonica e violoncello di “You Are The Everything”. Una ballata delicatissima, nello stile di “Wendell Gee”, condita da particolari scopertamente autobiografici e intimi. Come ricorda Gianni Sibilla, dal vivo Stipe la interpreterà di spalle, “quasi a volersi confondere con il pubblico stesso”, o forse con l’intento di nascondere l’emozione di quei versi così insolitamente romantici per le sue abitudini.

Sometimes I feel like I can’t even sing (say, say, the light)
I’m very scared for this world
I’m very scared for me


Certe volte mi sento come se non potessi neanche cantare (dillo, dillo, la luce)
Ho davvero paura per questo mondo
Ho paura per me stesso

Una confessione in piena regola, dunque, con l’insolito uso della prima persona a svelare dubbi e timori forse troppo grandi per entrare in una sola canzone. Così, il lato migliore del testo sta nell’incanto di quel cielo stellato, ammirato con ogni probabilità da Stipe durante il viaggio del 1986 da Seattle a Boulder, in compagnia di Georgina Falzarano.

Eviscerate your memory
Here’s a scene
You’re in the back seat laying down
The windows wrap around
To sound of the travel and the engine
All you hear is time stand still in travel
And feel such peace and absolute
The stillness still that doesn’t end
But slowly drifts into sleep
The stars are the greatest thing you’ve ever seen
And they’re there for you
For you alone you are the everything

Sviscera i tuoi ricordi
Ecco una scena
Tu sei distesa sul sedile posteriore
I finestrini ti circondano
Al suono del viaggio e del motore
Tutto ciò che senti è il tempo che si ferma nel viaggio
E provi un senso di pace assoluta
La quiete ancora non finisce
Ma lentamente scivola nel sonno
Le stelle sono la cosa più favolosa che tu abbia mai visto
E sono lassù per te
Soltanto per te, e tu sei tutto

La musica asseconda appieno il senso di quiete pastorale che traspare dal testo e per esprimere al meglio questo incanto bucolico venne aggiunto persino il suono dei grilli di Memphis.

STAND

Una scarica di adrenalina, ma anche – diciamolo – uno dei ritornelli più banali della premiata ditta di Athens. A un passo dal kitsch, con quel sound tronfio e quell’assolo di chitarra con wah wah incorporato, il brano si regge in equilibrio sull’ironia del testo, in cui Stipe abbozza un beffardo dialogo diretto con il suo interlocutore, giocando a dirigerlo e spiazzarlo costantemente.

Stand in the place where you live
Now face North
Think about direction
Wonder why you haven’t
Now stand in the place where you work
Now face West
Think about the place where you live
Wonder why you haven’t before

If you are confused check with the sun
Carry a compass to help you along
Your feet are going to be on the ground
Your head is there to move you around

Alzati in piedi nel posto dove vivi
Ora rivolgiti a Nord
Pensa alla direzione da prendere
Chiediti perché non l’hai fatto prima
Ora alzati in piedi nel posto dove lavori
Ora rivolgiti a Ovest
Pensa al posto dove vivi
Chiediti perché non l’hai fatto prima

Se sei confuso, regolati col sole
Porta una bussola per orientarti lungo la via
Tieni i piedi per terra
Usa la testa per muoverti

Una metafora dell’impossibilità di rappresentare una guida per i propri fan? Oppure una sorta di inno alla ragione, come lascia pensare uno dei versi successivi? (“If wishes were trees/ The trees would be falling/ Listen to reason”, “Se i desideri fossero alberi/ Gli alberi cadrebbero/ Ascolta la ragione”). L’interrogativo resta aperto, malgrado un testo tra i più lineari e semplici dell’intero repertorio remmiano. Fatto sta che quella che la stessa band definisce “la canzone più stupida che abbiamo mai composto” diventa un singolo di successo negli Stati Uniti e, ancor più inopinatamente, un commosso inno alla rinascita per la città di San Francisco, ferita dal terremoto dell’ottobre 1989. L’episodio – raccontato da Milena Ferrante su R.E.M. 1978-2009 – accade durante una serata al Pavilion di Concord (California). Michael Stipe e compagni dedicano il pezzo alla popolazione della Bay Area, appena colpita da quella catastrofe. E “Stand” cambia pelle, emoziona e strappa più di una lacrima. Miracoli della musica.

WORLD LEADER PRETEND

Rem - GreenMa se “Stand” nasceva come momento di pura evasione pop, la successiva “World Leader Pretend” riporta i Rem alla loro dimensione più lirica e profonda. Una ballata struggente che decolla sul fatato riff di tastiera di Mills, per aprirsi in un refrain tra i più potenti e toccanti del loro repertorio. Stipe aggiunge la ciliegina sulla torta, con una delle sue migliori interpretazioni: un cantato all’apparenza dimesso, colmo però di pathos e mestizia.
Chi è l’aspirante padrone del mondo del titolo? Forse il leader di una delle superpotenze globali, abile mistificatore al tempo di una Guerra Fredda che sta per sfaldarsi insieme al Muro di Berlino. Ma è difficile non scorgere nel testo di Stipe – il primo a essere stampato ufficialmente su un disco dei Rem – la metafora autobiografica e autoironica del suo nuovo status di divo mondiale, conquistato anche a costo di qualche infingimento e artificiosità.

I sit at my table and wage war on myself
It seems like it’s all... it’s all for nothing
I know the barricades, and
I know the mortar in the wall breaks
I recognize the weapons, I used them well

This is my mistake. Let me make it good
I raised the wall, and I will be the one to knock it down

Siedo al mio tavolo e dichiaro guerra a me stesso
Mi sembra che non serva a niente
Conosco le barricate e
I colpi di mortaio nelle fessure del muro
Riconosco le armi, le ho usate bene

Questo è il mio errore. Permettetemi di correggerlo
Ho alzato io il muro e sarò io a farlo cadere

È Stipe, dunque, ad aver eretto un muro tra sé e il suo pubblico, costruendo un personaggio che forse non esiste. Un’interpretazione rafforzata da un’intervista di qualche mese prima a Nme in cui il cantante riconosceva la propria immagine come “una rappresentazione accurata di ciò che io ho messo in mostra, il che ovviamente non è una rappresentazione accurata di me, sono due cose differenti. Sono conscio del potere di questa immagine e conosco i modi per manipolarla... Credo di essere consapevole del modo in cui la gente mi percepisce”. Sono queste, allora, le “armi”, ma anche le “difese più sofisticate” (“my finest defenses”) e gli “artifici” (“devices”) menzionati nel testo. Stipe vive un conflitto permanente tra autoesaltazione e timore del suo pubblico, tra la (legittima) aspirazione a diventare una star e la paura di smarrire la propria identità e sincerità. Ma questo percorso di autocoscienza si allarga fino ad abbracciare una visuale più ampia, con la consapevolezza della necessità per ognuno di abbattere il muro di cinismo che ostacola le relazioni umane. Racconta ancora Stipe: “Per me World Leader Pretend rappresenta la voce dell’uomo comune, il cui nemico da affrontare e sconfiggere è all’interno di se stesso. Una voce che dà corpo alla confusione e all’incertezza caratteristiche del nostro tempo, un tempo nel quale tutti domandano ma nessuno risponde. Penso che World Leader Pretend raccolga in sé tutte le cose di cui parla Green. È una canzone su una battaglia interiore... Non personale di Michael Stipe, ma personale di tutti... Parla di tutti i muri che una persona deve superare”.
Una specie di catarsi e liberazione personale, insomma, che si sublima in una delle canzoni-capolavoro dei Rem, straordinariamente sentita e suggestiva. Per Stipe è al tempo stesso “la canzone più politica e più personale” che abbia mai scritto. Dal vivo, nel tour di “Green”, la canterà rigido sull’attenti, introducendola con una versione a cappella di “We Live As We Dream, Alone” dei Gang Of Four e finendo ogni volta per spaccare un bastone su una sedia.

THE WRONG CHILD

Torna l’infanzia nell’immaginario di Stipe. Un’infanzia “sbagliata”, perché viziata da quei limiti fisici e psichici che la società ripudia, per via del suo cinismo e della sua paura della diversità. Il protagonista di “The Wrong Child” è un bambino disabile che tenta disperatamente di convivere con la propria condizione. E la fonte d’ispirazione per Stipe è il libro “Eye Of The Clock” dell’irlandese Christopher Nolan, un ragazzo disabile, nato con una paralisi cerebrale, ma che sconfisse il suo handicap contro tutte le leggi della natura. A Nolan, che morì a soli 43 anni, dedicarono un brano (“Miracle Drug”) anche gli U2, suoi ex compagni alla Mount Temple School di Dublino.
L’escamotage delle due voci asincrone serve ora ai rem per esprimere tutto il conflitto interiore del bambino, che è costretto a osservare i suoi coetanei correre e giocare, e che tenta invano di consolarsi cantando “una canzone allegra”.

I’ve watched the children come and go
A late long march into spring
I sit and watch those children
Jump in the tall grass
Leap the sprinkler
Walk in the ground
Bicycle clothespin spokes
The sound the smell of swingset hands

I will try to sing a happy song
I’ll try and make a happy game to play

Ho guardato i bambini andare e venire
Alla fine di una lunga marcia verso la primavera
Sono seduto e guardo quei bambini
Saltare nell’erba alta
Schivare il getto dell’acqua
Camminare nel prato
Biciclette, mollette, raggi
Il suono, l’odore delle mani sull’altalena

Proverò a cantare una canzone allegra
Proverò a inventare un gioco divertente da fare

Poi, la feroce consapevolezza della propria condizione prende il sopravvento, in versi di commossa malinconia, rivolti all’amico appena conosciuto.

'Come play with me' I whispered to my new found friend
Tell me what it’s like to go outside
I’ve never been
Tell me what it’s like to just go outside
I’ve never been
And I never will

I’m not supposed to be like this
I’m not supposed to be like this
But it’s okay

'Vieni a giocare con me' ho sussurrato al mio nuovo amico
Dimmi com’è andare fuori
Non ci sono mai stato
Dimmi com’è anche solo andare fuori
Non l’ho mai fatto
E mai lo farò

Non dovrei essere così
Non dovrei essere così
Ma va bene lo stesso

Un episodio molto dimesso e minimale, nel contesto di un album che trasuda fragore ed esuberanza. Ma, forse proprio per questo, suona molto più autentico e vero.

ORANGE CRUSH

Rem - Green eraLa batteria di Berry è una raffica di mitra, che scaraventa dritti nell’inferno del Vietnam. Il buco nero della coscienza civile americana si tinge d’arancione, il colore dell’Agent Orange, il terribile composto chimico che disintegrava la vegetazione in modo da stanare i Vietcong. Un diserbante ancor più devastante del napalm, che lasciò danni irreparabili sulla natura di quei luoghi, finendo col contaminare gravemente anche le persone, sia tra i vietnamiti, sia tra i veterani di guerra statunitensi.

Follow me, don’t follow me
I’ve got my spine, I’ve got my orange crush
Collar me, don’t collar me
I’ve got my spine, I’ve got my orange crush
We are agents of the free
I’ve had my fun and now it’s time to
Serve your conscience overseas
(Over me, not over me)
Coming in fast, over me

[...]

And I was remembering
And I was just in a different country
And all then this whirlybird
That I headed for I had my goggles
Pulled off I knew it all
I knew every back road and every truck stop


Seguimi, non mi seguire
Ho la mia spina dorsale, ho la mia aranciata
Acchiappami, non mi acchiappare
Ho la mia spina dorsale, ho la mia aranciata
Siamo agenti della libertà
Mi sono divertito e ora è tempo
Di servire oltremare la tua coscienza
(Oltre me, non oltre me)
Sta arrivando presto, sopra di me

[...]

E io stavo ricordando
Ed ero in un paese diverso
E tutto quanto allora quell’elicottero
Verso cui mi dirigevo, mi ero tolto gli occhiali protettivi
Sapevo tutto
Conoscevo ogni strada secondaria e ogni fermata di camion

“Orange Crush” è una fiera invettiva antimilitarista ed ecologista, che nasconde dettagli autobiografici: il padre di Michael, infatti, pilota di elicotteri, aveva forse partecipato a quelle incursioni, nel corso della famigerata operazione Ranch Hand. “Mio padre era già stato in Vietnam e in Corea quando ero piccolo”, racconterà a Johnny Black. “Questo non ha cambiato i nostri rapporti, ma ovviamente era difficile per lui e lo era per noi il fatto che fosse via per così tanto tempo. Credo che Orange Crush parli anche di questo. Di come ci si possa abituare a sopportare la guerra e la vita militare e poi arriva il momento di tornare a casa e devi ricominciare da capo”. In un’altra intervista, invece, Stipe preferirà sottolineare come il brano non derivasse tanto da una sua esperienza personale, quanto dal fatto che tutti e quattro i membri della band fossero cresciuti al tempo della tragedia del Vietnam: “È una canzone sulla guerra in generale, la sola rabbiosa e triste dell’album. Un brano forte, ed è quello che volevamo... Io detesto la violenza. E questa canzone suonava mortifera come i rumori di un mitra o di un elicottero che sorvola una zona da colpire”.
Rabbiosa e mortifera, dunque, con un sound veemente, scolpito dal drumming marziale e da un chitarrismo epico, mai così prossimo alla frontiera degli U2. Dal vivo, Stipe la introdurrà canticchiando il ritornello-jingle dell’esercito americano (“Be all that you can be, in the Army”) e ne intonerà il ritornello con un megafono, come a voler accentuare ulteriormente la drammaticità del testo.

I REMEMBER CALIFORNIA

Un tuffo nella nostalgia, tra una melodica linea di basso, un imprevedibile mellotron (suonato sempre da Mills) e gli arpeggi finemente psichedelici e stranianti delle chitarre. Parente stretta di “You Are The Everything”, cullata su atmosfere non meno tenere e sognanti, “I Remember California” è, secondo Buck, “una canzone d’amore, non per lo Stato, ma per una persona che vive lì”. Il testo passa disordinatamente in rassegna ricordi e immagini, come in una carrellata cinematografica dal sapore dolceamaro. Come quello che resta dopo una bella storia finita male (“History is made to seem unfair”).

I remember redwood trees, bumper cars and wolverines
The ocean’s Trident submarines
Lemons, limes and tangerines

[...]

I remember traffic jams
Motor boys and girls with tans

[...]

History is made
History is made to seem unfair

I recall that you were there

Golden smile and shining hair
I recall it wasn’t fair
Recollect it wasn’t fair
Remembering it wasn’t fair outside

Ricordo le sequoie, l’autoscontro e i Wolverine
I sottomarini Trident dell’oceano
I limoni, i lime e i mandarini

[...]

Ricordo gli ingorghi stradali
I ragazzi in auto e le ragazze abbronzate

La storia è fatta
La storia è fatta per sembrare ingiusta

Mi ricordo che eri là
Sorriso d’oro e capelli splendenti
Mi ricordo che non era giusto
Mi torna in mente che non era giusto
Mi ricordo che non era bel tempo fuori

La California dorata, terra di ragazze abbronzate e trafficate motorway, si stempera dunque in una cartolina ingiallita e malinconica, tramutandosi nell’ennesimo “luogo dell’anima”.
È innegabile, comunque, che i testi di Stipe abbiano complessivamente dissolto buona parte della loro cripticità, trovando un nuovo baricentro in un versificare più diretto e narrativo, sospeso tra la vena intimista e l’afflato politico/sociale. Quest’ultimo, in particolare, troverà nuovo slancio nel corso della loro prima (e fortunatissima) tournée mondiale, il Green World Tour, in cui saranno ospitati stand di Greenpeace e Amnesty International. Ma il crinale tra l’artista e l’attivista è insidioso, e Stipe ne è perfettamente consapevole: “Non mi sfugge il contrasto tra l’idea di essere una pop band, ovvero essenzialmente cultura-spazzatura, e il desiderio di diffondere messaggi positivi, di far riflettere. So che musica e politica non possono essere mischiate, sono come acqua e olio, ma, dannazione, cerco di provarci, anche se cammino su un filo sottile”.
L’introverso Michael, ormai, ha preso coraggio, e alla maggior chiarezza dei suoi testi abbina anche un uso più deciso e consapevole della voce. Come se fosse uscito dal guscio. “Oggi ho maggiore dimestichezza con la scrittura e con il canto”, rivelerà. “All’epoca di Murmur e Reckoning ero timido, nascondevo le parole dietro la musica. Adesso che conosco la tecnica non voglio più essere vittima della mia voce e della tecnologia”. Per Stipe, insomma, non ha più senso continuare a nascondersi. Neanche per quanto concerne le sue inclinazioni sessuali, da tempo oggetto di pettegolezzi. “Da quando sono sessualmente attivo, sono attratto sia da uomini che da donne, per cui ho rapporti sessuali con entrambi”, si sbottonerà in un’intervista.

Musicalmente, invece, “Green” segna – com’era logico che fosse – l’avvicinamento a un pop-rock più lineare e accessibile, rivolto anche al pubblico mainstream. L’exploit nelle vendite – quattro milioni di copie, più del doppio di “Document” – sta a testimoniarlo. Il jangle byrdsiano e le gracili inflessioni folk degli esordi continuano a cedere terreno a un sound chitarristico sempre più pieno e vigoroso. Le produzioni si fanno via via più ricche e levigate. Ma non è un tradimento. Perché il cuore dell’arte dei Georgiani è ancora vivo. E basta anche solo un brano come “World Leader Pretend” per farlo tornare a battere al massimo delle pulsazioni.