R.E.M. - Perfect Circle

Intro - Chronic Town - Murmur

Ho scritto Horses per ragazzi come Michael Stipe e Morrissey.
(Patti Smith)

Ci sono dei momenti in cui capisci di avercela fatta. A me è successo quando ho scoperto che Michael Stipe era il mio vicino di casa.
(Kirsten Dunst)

INTRO


rem_perfectcircle_pic_02Un comunicato di poche righe, sobrio ed essenziale. “Ai nostri fan e ai nostri amici: come Rem, come amici di una vita e co-cospiratori, abbiamo deciso di smettere di essere una band”. La notizia è questa e c’è poco altro da aggiungere, se non una manciata di ringraziamenti. Il 21 settembre 2011 l’annuncio sul sito ufficiale del gruppo chiude il “cerchio perfetto” di una storia lunga trentuno anni. Un’uscita di scena quasi in punta di piedi, per una delle band più importanti e amate del pianeta.
Del resto, sono stati anche questo, i Rem, un’eterna, affascinante contraddizione tra stardom e mistero privato. Poche band sono riuscite a identificarsi appieno con i loro fan come è accaduto a questi quattro ex-studenti di Athens, Georgia. Eppure, in fondo nessuno è riuscito mai a penetrare a fondo il segreto della loro magia. Forse perché hanno sempre saputo stendere un velo di riservatezza sulle maschere delle star, forse perché le loro canzoni, tanto immediate e coinvolgenti, sono in realtà, nella maggior parte dei casi, un indecifrabile enigma.
Non hanno mai avuto bisogno di effetti speciali per stupire, Michael Stipe e compagni. Neanche quando strimpellavano i loro jingle-jangle nella vecchia chiesa sconsacrata di Oconee Street, davanti a parenti e amici. Dalle scorribande a bordo di un furgoncino Dodge fino ai grandi tour nelle arene di mezzo mondo, si sono imposti solo con l'elegante semplicità delle loro canzoni. Arpeggi di Rickenbacker e cantilene fatate, linee di basso melodiche e un drumming incisivo ma mai invadente. In fondo, per molto tempo è bastata questa semplice alchimia a quel “gruppo di diciannovenni che voleva cambiare il mondo”, secondo la definizione romantica del chitarrista Peter Buck. Già, perché i sentimenti hanno un ruolo tutt’altro che secondario nella storia dei Rem, un formidabile circolo di affetti e di amicizie vere, ancor prima di un gruppo. Al di là delle tensioni e delle liti estemporanee, la loro forza è stata soprattutto nell’unità di intenti, nello spirito di squadra. Un patto di ferro, in grado di superare le differenze di carattere e le ambizioni individuali. Con alcune regole ferree: diritti d’autore divisi equamente tra band e manager, nessuna immagine del gruppo nelle copertine dei dischi o negli spot pubblicitari, e persino l’impegno a restare in salute, evitando alcol, droghe e altri eccessi da rockstar. Un team perfetto, insomma. Anche se qualche piccola “deroga”, negli anni, non è mancata.

Nella parabola dei Georgiani, tuttavia, si può leggere anche molto altro. A cominciare dal traghettamento dell’indie-rock sul grande palcoscenico del mainstream. Un’operazione ad alto rischio, che Stipe e compagni hanno portato a termine senza snaturarsi, riuscendo a coniugare i contratti milionari con il rispetto dei fan della prim’ora. Fin dagli esordi di "Murmur", i quattro hanno avuto la consapevolezza di essere i portabandiera della nuova nazione rock, di quella nouvelle vague che avrebbe rinnovato alle fondamenta la scena americana degli 80-90’s. Una pattuglia di band alternative e indipendenti, che agiva controcorrente rispetto alle mode patinate del periodo, a distanza di sicurezza dai riflettori del music business e dai teleschermi di Mtv. Ma, a differenza dei compagni di strada, i rem possedevano già tutte le armi per forzare gli angusti argini dell'underground e far breccia sul grande pubblico. Anche se per Peter Buck fu essenzialmente una questione di buona sorte.

Ci sentivamo parte di una sorta di comunità sotterranea di musicisti. Ci sentivamo vicini alle band di Athens di quel periodo, ma anche ai Dream Syndicate, ai Black Flag, agli Hüsker Dü: è vero che facevamo musica diversa rispetto a loro, ma frequentavamo gli stessi posti e avevamo molte cose in comune. Nessuno di loro ha avuto il successo che abbiamo avuto noi, ma credo sia una questione di fortuna.

Una progressione irrefrenabile. Proprio come quel Rapid Eye Movement foriero di sogni che ha regalato l’acronimo perfetto. Dall’era gloriosa delle college radio, che amplificarono il mito sotterraneo, al “diploma di laurea” di "Document", che li avrebbe traghettati nel porto multimilionario delle major già dal successivo "Green", fino all’epoca dei bestseller ("Out Of Time" e "Automatic For The People") e di una maturità sorprendentemente vitale, culminata nell’epico e coraggiosissimo "New Adventures In Hi-Fi". Una corsa che sembrava essere giunta al capolinea con l’addio del batterista Bill Berry e che invece è proseguita anche “a tre zampe”, tra alti e bassi, fino alla tappa conclusiva di "Collapse Into Now".
Ma attraverso il lungo viaggio di Stipe e compagni si possono ripercorrere anche tre cruciali decadi di storia americana. Nelle loro canzoni si è specchiata dapprima la gioventù inquieta del post-punk, alle prese con il rampantismo yuppie dell'epopea reaganiana e con gli ultimi spettri della Guerra Fredda, quindi la “generazione X” degli anni Novanta, sospesa tra il miraggio di benessere dell’era Clinton e la deriva militare-affaristica delle amministrazioni Bush, la comunità indignata dei “no global” e, infine, la nazione ferita e sgomenta del post-11 Settembre.
Culturalmente distanti tanto dallo spirito protestatario e ideologico dei 70’s, quanto dal nichilismo distruttivo del punk e dal furore iconoclasta riemerso poi nel grunge, i Rem hanno declinato l’impegno civile con uno spirito fortemente propositivo, alimentando la speranza di un’altra America. Le battaglie ecologiste, spesso al fianco di Greenpeace, le lotte per i diritti civili e per un’economia più trasparente, le invettive contro l’imperialismo, ma anche contro l’odio e l’ignoranza che troppo spesso hanno trasformato l’America in una Ignoreland, sono stati gli strumenti per “unirsi e costruire un nuovo paese”, come teorizzavano in "Cuyahoga" immergendosi nelle acque rosso sangue del fiume indiano. “We are young despite the years we are concern/ We are hope despite the times”: in fondo era stato già scritto tutto qui, in quei due versi di "These Days", in cui Stipe e compagni proclamavano la loro sfida al mondo. Una vocazione che ha trovato il suo sbocco naturale nell’evoluzione dei meccanismi della comunicazione e nell’avvento di internet, che i rem hanno saputo sfruttare con lungimiranza e lucidità.

La loro “nuova America”, però, non ha smarrito la memoria, il ricordo delle radici profonde e dei valori su cui è stata fondata. I Georgiani, infatti, si sono erti a fieri custodi della tradizione. Rispolverando quelle storie rurali di provincia, di frontiera e di ferrovia che hanno riempito le pagine della letteratura sudista. Mappe e leggende, fiabe e campfire tales, di quelle tramandate di generazione in generazione. Come a voler gelosamente preservare un patrimonio che rischia di finire smarrito, nella frenesia bulimica della cultura contemporanea.
Al di là dei risvolti sociali e politici, tuttavia, il loro canzoniere è soprattutto lo specchio della multiforme personalità di Michael Stipe. Un collage di libere associazioni, flash onirici, simbolismi religiosi, memorie autobiografiche e giochi di parole, costruito spesso in forma di cut-up, a volte persino sull’onda della sola suggestione linguistica.

Non è che nei testi che scrivo io voglia essere oscuro, ma credo che si debba superare l’idea che il linguaggio corrente rappresenti sempre e fedelmente la realtà: si tratta solo di un codice necessario per esprimere il reale.

Così il giovane Stipe degli esordi. Mentre quello della maturità sbotterà: “Sono stanco di essere questo solenne poeta delle masse, l’enigma avvolto nel mistero”.
Ma il linguaggio più piano e narrativo degli ultimi dischi non precluderà nuovi, indecifrabili rebus, sospesi tra inconscio e realtà.
Il lungo itinerario attraverso le loro canzoni (delle quali inevitabilmente, per motivi di spazio, abbiamo dovuto fare una piccola selezione) è dunque costellato di rebus, depistamenti e falsi indizi. Si è cercato in queste pagine di avvicinarsi il più possibile alla soluzione, grazie anche alle testimonianze degli stessi membri della band e al prezioso lavoro d'archivio ed esegesi svolto dalla community dei fan. Ma i testi di Michael Stipe non hanno bisogno di interpretazioni autentiche, semmai, attraverso di essi, si può ricomporre il mosaico di una personalità sfuggente e affascinante, lontana dai cliché tradizionali delle rockstar. Così come attraverso l’intero percorso artistico della band, se ne possono ricostruire ruoli e dinamiche interne. Scoprendo che ognuno dei quattro, alla fine, è stato indispensabile.

"Perfect Circle" è la ricostruzione della favola. Una cartografia immaginaria di suoni e parole che attraversa tre decenni di storia e ci conduce fatalmente a quel fatidico 21 settembre 2011. Con la speranza che la macchina sforna-ritornelli di Athens torni prima o poi a scaldare i motori. Anche solo per poter rivivere un giorno sul palco l’emozione di questo grande romanzo americano.

(Settembre 2012)


CHRONIC TOWN (Ep, 1982)


WOLVES, LOWER

Michael Stipe nel 1977Una ciotola di ciliegie e "Horses" di Patti Smith. L’alchimia che folgora l’imberbe John Michael Stipe sulla strada del rock prende forma in una notte insonne. A 15 anni, può bastare anche un paio di cuffiette gracchianti sottratte ai genitori per “il primo tuffo nell’Oceano”, come lo ribattezzerà. “Fu come essere travolto da un’onda. Mi fece a pezzi. Capii da allora che volevo diventare un cantante”. Come un’iniziazione mistica. Il fervore allucinato della sacerdotessa del cbgb’s scaraventa il quindicenne Michael in un’altra dimensione. Dove non vigono più le regole del bel canto, i cliché codificati del rocker squarcia-polmoni. Tutto è nel feeling, nel magnetismo di quel canto scorticato e inaudito, che non lascia scampo. “Pensai: se lei può cantare, posso farlo anch’io”.
Corre l’anno 1975. I primi vagiti del punk sono come un incendio che cova sottopelle. Divampa a New York, ma si propaga rapidamente lungo tutti gli States. Fino a lambire la remota Athens, Georgia. America profonda, terra di tradizioni e contraddizioni. Come quella di essere, al tempo stesso, un baluardo del Sud rurale e un ricettacolo dei fermenti giovanili di quegli anni. Non un caso, però, se si pensa che dei suoi sessantamila abitanti quasi un terzo sono studenti. Perché l’Università della Georgia è il cuore pulsante della “Classic City”, così ribattezzata per quelle sue costruzioni classicheggianti e ottocentesche, adagiate sul vecchio fiume Oconee. “La Georgia sembra un deserto culturale: la attraversi in auto e vedi solo una fila di McDonald’s e centri commerciali. Ma se guardi due isolati più indietro, troverai la vera natura delle cose”, profetizzerà Stipe.

Ma nessuno poteva prevedere che in queste lande umide e lussureggianti, tra aranceti e praterie, potessero germogliare i semi più fertili del rock. Eppure qui erano già sbocciati gli eccentrici B52’s, con i loro travolgenti party cartoon-trash. E ora, nonostante la timidezza e gli occhialoni da nerd, voleva provarci anche il giovane Michael insieme ai suoi tre compagni d’avventura. Vale a dire Peter Buck, chitarrista autodidatta, nonché studente a corrente alternata e negoziante-guru degli atheniesi in cerca di nuovi stimoli punk. Praticamente un almanacco umano di dischi e nozioni rock, con una collezione domestica da decine di migliaia di vinili. E poi altri due studenti universitari – Mike Mills (basso) e Bill Berry (batteria) – da anni consolidata sezione ritmica in varie college-band.
“Alla Georgia University, tutto quello che vuoi fare è evitare di dover lavorare per quattro anni, così ti sbronzi e fai un mucchio di casino. Io non studiavo, non andavo nemmeno alle lezioni. Ero pigro...”, racconta Buck. Ma è la musica a scuotere quella sonnacchiosa provincia del Sud. I quattro studenti non perdono tempo: in breve tempo divengono l’attrazione delle feste che riempiono fino al campanile la vecchia chiesa abbandonata di Oconee Street, nel cuore di Athens. Ma la gloria cittadina non può bastare. Così girano l’America a bordo di un camioncino verde “Dodge”, modello ’75, in cerca di fortuna. Si esibiscono nei club, suonando cover garage-rock e pezzi di propria composizione con foga degna dei primi Who e con quel caratteristico jingle-jangle che nella storia del rock fa sempre rima con Byrds.

Il campanile della chiesa di Athens dove i futuri Rem si esibirono insieme per la prima volta come Twisted KitesIl primo embrione del gruppo si forma nell’aprile del 1980, con il nome Twisted Kites, per una precisa occasione: la festa di compleanno dell’amica Kathleen O’Brien. Nell’estate successiva, il passaggio alla magica sigla di tre lettere che cambierà tutto: Rem, da “rapid eye movement”, il movimento rapido che l’occhio compie nella fase del sonno in cui si formano i sogni. Una sigla concisa e intrigante, come si confà a un acronimo rock.
Ma se i sogni corrono veloci, la gavetta esige tempo e sacrifici. Ad Albuquerque, Nuovo Messico, i nascenti rem suonano in un locale per single, gremito di bulli e prostitute, rimpiazzando uno show di spogliarelliste: scoppierà una rissa. Si esibiscono anche nella base aerea militare di Wichita Falls, Texas, ma l’accoglienza dei marines non è più tenera: “Volavano arance sul palco”, racconterà Buck, “e ti passavano bigliettini con messaggi come: ‘Se suonate ancora una canzone come questa, vi pestiamo, brutti froci!’”. Ma i rem non si fanno intimidire e infilano una sequela di esibizioni dal vivo tra North e South Carolina, Tennessee e Georgia, con un manager oculato come Jefferson Holt a seguirli passo dopo passo. Fino al boom nelle college radio del primo singolo, "Radio Free Europe", pubblicato dalla locale etichetta indipendente Hib-Tone. La grazia di quell’impasto country-folk, impreziosito dagli arpeggi esclusivi di Buck e dal canto magnetico di Stipe, forgia un suono unico nel periodo post-punk dei primi anni Ottanta. Se ne accorge per primo il settimanale di New York Village Voice, che issa "Radio Free Europe" al primo posto nella classifica di fine anno nella sezione Best Independent Singles.
È la scossa che serviva. A contendersi l’Ep con le prime canzoni della band sono la stessa Hib-Tone e la irs Records, ma in agguato c’è anche una major come la rca. Stipe e compagni però non rinunciano (per ora) alla loro matrice indie e firmano il contratto con la Irs nel maggio 1982. Ad agosto esce così "Chronic Town", promosso sulle colonne di Nme per la briosità dei suoni e per l’aura di mistero che circonda le canzoni.
E in effetti il brano di apertura, "Wolves, Lower", non è altro che uno dei tanti indecifrabili enigmi che costelleranno il cammino di Stipe. Fin da quella virgola posticcia infilata tra le due parole, che fa molto "Paint It, Black" (e c’è chi giura che l’unico vero motivo della sua presenza sia quell’illustre precedente).

Suspicion yourself, suspicion yourself, don’t get caught
Suspicion yourself, suspicion yourself, let us out
Wilder lower wolves. Here’s a house to put wolves out the door
In a corner garden, wilder lower wolves
House in order. House in order. House in order. House in order
Down there they’re rounding a posse to ride

Sospetta di te stesso, sospetta di te stesso, non farti intrappolare
Sospetta di te stesso, sospetta di te stesso, usciamo
Lupi selvaggi e abietti. Ecco una casa per metterli fuori dalla porta
In un giardinetto, lupi selvaggi e abietti
La casa è a posto. La casa è a posto. La casa è a posto. La casa è a posto
Si stanno radunando in squadre per la ronda

Un arpeggio insistito introduce una filastrocca sinistra, con quella spiazzante contro-melodia che ti si conficca nel cervello (“House in order ah ah ah ah!”). Una storia di trappole da schivare, di lupi alla porta. Come quello della celebre favola dei Tre Porcellini, cui Stipe attinge per elaborare una più complessa riflessione sulla diffidenza come unica risorsa per proteggere la propria psiche. Qualcuno – come il suo ex insegnante e sporadico videomaker James Herbert – ravviserà nel brano le tracce della passione di Stipe per la letteratura southern gothic, con tutto il suo corredo di oscuro primitivismo. Cantilenato su cadenze sconnesse e sbilenche, con quei tipici coretti a bocca chiusa che diverranno un marchio di fabbrica, "Wolves, Lower" è già un gioiello grezzo d’arte remmiana. Puro, un po’ ingenuo, decisamente trascinante.

GARDENING AT NIGHT

Rem - Chronic TownDopo il mistero, il nonsense. La seconda traccia di "Chronic Town" è già un manifesto del Rem-sound. Al punto che i quattro decideranno di intitolare proprio “Night Gardening” le loro edizioni musicali. Scritta da Stipe nel 1980, mentre era steso sopra un materasso davanti alla chiesa di Oconee Street, "Gardening At Night" è anche la canzone più accattivante dell’Ep, con quel piglio folk dettato dalla chitarra acustica in un corpo a corpo con la Rickenbacker elettrica, e con una di quelle melodie malinconiche che diverranno un tratto distintivo dei Georgiani. Un’altra storia buffa e stravagante, ispirata da una vicenda raccontata da Buck a Stipe: girovagando alle due di notte a caccia di una birra, il chitarrista si era imbattuto in un anziano signore che, in giacca e cravatta, stava tagliando il prato del suo giardino. Stipe ne ricava un nuovo bozzetto astratto, “una metafora sull’assurdità del vivere” – come la definisce Buck – che però deraglia subito da ogni logica, procedendo per libere associazioni e giochi di parole.

I see your money on the floor, I felt the pocket change
Though all the feelings that broke through that door
Just didn’t seem to be too real
The yard is nothing but a fence, the sun just hurts my eyes
Somewhere it must be time for penitence. Gardening at night is never where

Vedo il tuo denaro sul pavimento, ho sentito gli spiccioli in tasca
Nonostante tutti i sentimenti che sono entrati da quella porta
Non sembrassero veri
Il giardino non è altro che una staccionata, il sole mi fa male agli occhi
Da qualche parte deve essere tempo di penitenza. Il giardinaggio di notte non è mai dove

Dal giardino notturno l’obiettivo si sposta rapidamente altrove: c’è addirittura una linea telefonica per le preghiere (primo dei numerosi accenni alla religione che verranno). Fantomatici vicini di casa ne abusano ogni notte...

The neighbors go to bed at ten
Call the prayer line for a change
The charge is changing every month
They said it couldn’t be arranged

I vicini vanno a dormire alle 10
Tanto per cambiare chiamano il servizio preghiere
La tariffa cambia ogni mese
Hanno detto che non si poteva programmare

E da qui il brano assume una traiettoria ancor più incontrollabile. Una sorella, una nuova telefonata e la ripetizione dello stesso verso (“They said it couldn’t be arranged”), con ogni probabilità soltanto per motivi fonetici.

Your sister said that you’re too young
They should know they’ve been there twice
The call was 2 and 51
They said it couldn’t be arranged

Tua sorella dice che sei troppo giovane
Dovrebbero saperlo, ci sono passati già due volte
La telefonata costa 2 dollari e 51 centesimi
Dicevano che non si poteva programmare

 “It’s a kind of confused song”, commenterà Buck. Difficile dargli torto...

CARNIVAL OF SORTS (BOX CARS)

La vera prodezza dell’Ep è però una vibrante ninnananna, di quelle che lasciano stecchiti. Si intitola "Carnival Of Sorts" e mette già in luce quel magico connubio tra tradizione americana e new wave che contribuirà alla ricetta finale dei Georgiani. Perché se il fitto arpeggiare e quell’irresistibile progressione melodica cantilenata da Stipe affondano le radici nel folk-rock di casa Byrds, il nevrotico intrecciarsi dei riff non può non evocare maestri come Wire, Gang Of Four e Feelies, verso i quali i Rem dimostreranno più volte la loro devozione.
Introdotta da un organo tintinnante (riprodotto con una tastiera Casio Mt30), la storia procede ancora una volta per associazioni di parole in libertà, con la ripetizione ossessiva di alcuni termini e la citazione del titolo del disco (chronic town). La città cronica è forse quella alienante e claustrofobica che ci fagocita ogni giorno? Il dubbio sembra legittimo e aggiungerebbe un ulteriore legame a quell’immaginario new wave cui Stipe e compagni mostrano di voler strizzare l’occhio. Seppur sempre a modo loro...

There’s a secret stigma, reaping wheel
Diminish, a carnival of sorts
Chronic town, poster torn, reaping wheel
Stranger, stranger to these parts

Gentlemen don’t get caught, cages under cage
Gentlemen don’t get caught
Boxcars (are pulling) out of town. Boxcars (are pulling) out of town

C’è una stigmata segreta, la ruota di una mietitrice
Sminuire, una specie di carnevale
Città cronica, manifesto strappato, la ruota di una mietitrice
Straniero, estraneo a questi luoghi

I gentiluomini non si fanno intrappolare, gabbie sotto gabbia
I gentiluomini non si fanno intrappolare
I vagoni (stanno uscendo) dalla città. I vagoni (stanno uscendo) dalla città

Versi indecifrabili, che si susseguono con piccole variazioni sul tema. Così il verbo “diminish” (sminuire, restringere), accostato inizialmente a “questa specie di carnevale” ("Carnival Of Sorts") viene poi abbinato al già citato “straniero estraneo a questi luoghi”. Tutta la canzone è costruita con un montaggio a-logico e tipicamente cinematografico. Un collage di immagini astratte mandate in loop, a simboleggiare situazioni ed eventi estremi e surreali, non riproducibili in forme più convenzionali. Come nella celebre sequenza in bianco e nero del viaggio in Bolivia nel film "Butch Cassidy". La fonte principale, da cui Stipe attinge anche il titolo, è però un’altra pellicola in bianco e nero, il b-movie horror "Carnival Of Souls" (1962), con la sua lunga sequenza onirica ambientata in un grande padiglione abbandonato, adibito a parco di divertimenti. Da qui, probabilmente, i “poster strappati” e le “gabbie”, a suggerire una sorta di circo itinerante. Marcus Gray, autore di un bel saggio sui Rem ("It Crawled from the South") ipotizza anche che il sottotitolo tra parentesi, “Box Cars”, e il coro “pulling out of town” facciano riferimento a un treno e che il ritornello “Gentlemen don’t get caught” rimandi a "L’imperatore del Nord" con Lee Marvin. La ruota della mietitrice, infine, suona come un’allusione alla dimensione oppressiva della routine rurale. Cronica, anch’essa.

Le immagini si susseguono freneticamente, un frammento dopo l’altro, generando uno spaesamento che ben si combina con la suspense della musica.
"Carnival Of Sorts" sarà l’unico brano di chronic town a trovare posto nella raccolta del 1991 "The Best Of R.E.M.", mentre l’intero Ep sarà ri-pubblicato su cd nel 1987 nella raccolta di B-side "Dead Letter Office".
Considerate le condizioni in cui era stato partorito, "Chronic Town" andrà al di là di ogni aspettativa: tre mesi di presenza nella Top 5 delle stazioni radio universitarie e 20mila copie vendute entro la fine dell’anno.

MURMUR (1983)


RADIO FREE EUROPE

Rem - MurmurQuando uscì "Chronic Town", però, Stipe e compagni non erano più solo degli intraprendenti outsider della provincia americana. A dar loro l’abbrivio, infatti, aveva provveduto uno di quegli incredibili fenomeni per i quali l’America può considerarsi a pieno titolo la mecca del rock indipendente. Un singolo, registrato in un garage di sette metri quadrati (il “Drive in studio” di Mitch Easter) e stampato in mille copie da una minuscola indie label, la Hib-Tone, che era divenuto in breve tempo un culto sotterraneo attraverso il circuito delle college radio.
Ha un titolo che funziona, "Radio Free Europe", ed è la prima canzone pubblicata dai Rem. È da questo 45 giri-bomba che prende corpo il loro debutto sulla lunga distanza. Perché per Stipe e soci, i tempi sono maturi per il botto. E pazienza, allora, se il furgoncino Dodge li ha abbandonati sul più bello. Quell’amato catorcio, ormai, non serve più. Perché ben altri viaggi li attendono. Viaggi che condurranno dritti nell’olimpo del rock. O del pop? Perché è questo che si chiede la critica, disorientata da un momento storico in cui l’America subisce una nuova British Invasion tinta di fard e mascara: quella del synth-pop neoromantico, dei dandy elettronici figli del Duca Bowie e dei simbionti Kraftwerk. Una massa di debosciati che fa inorridire l’appassionato rocker medio americano da Fm, ma che reca pur sempre le stimmate avanguardiste del post-punk.

I Rem sono dei tradizionalisti. Ma – come gli Smiths sull’altra sponda dell’Oceano – si lasciano affascinare dalla lezione essenziale del punk, filtrandola con una sensibilità melodica tipicamente pop. Non è l’unica analogia: entrambi i gruppi, infatti, si assestano in un quartetto “classico”, prediligono un certo humour “nero” e prendono di mira il machismo bolso del rock “canotta e borchie”, rifugiandosi in quella dimensione appartata e individuale che farà la fortuna di tanto “indie rock da cameretta” a venire. E comuni sono, in fondo, molte delle sorgenti cui attingono: il guitar pop, l’era beat classica, quella di Beatles, Kinks, Who, ma soprattutto – nel caso dei Georgiani – Byrds.
Ecco allora "Murmur": un titolo evocativo, di ascendenza faulkneriana, un riferimento a una celebre poesia di Thomas S. Eliot, secondo il quale sarebbe stato proprio un mormorio ad accompagnare la fine del mondo, o – come più prosaicamente motiva Stipe – “una delle sei parole più facilmente pronunciabili in inglese”? Difficile dirlo, resta la certezza di una copertina inquietante, con la sua fitta boscaglia di kudzu (una pianta rampicante originaria del Giappone e onnipresente in Georgia) ritratta a tinte fosche e un trestle, il tradizionale ponte ferroviario in legno, sul retro. Un simbolo, quest’ultimo, che diverrà quasi un feticcio per i fan dei rem, contribuendo a consolidare la loro immagine di paladini del rock sudista.
Elegante e malinconico, pervaso di un fascino retrò ma con lo sguardo proiettato nel futuro, "Murmur" vive di rumori arcani e riff oscuri ma orecchiabili. “Volevamo realizzare un album spettrale, fluttuante, dall’ignota provenienza”, dice Buck. La voce nasale e baritonale di Stipe – cui spesso si unisce Mills al controcanto – e la sua poetica neo-beat, oscura e sardonica, alimentano l’idea di un mood trasognato e sfuggente. “Murmur”, scrive Steve Pond su Rolling Stone, “è un disco irrequieto, nervoso, pieno di false partenze e di immagini di movimento, di pellegrinaggio, di transito”.
La produzione congiunta di Easter e Don Dixon valorizza appieno questa sporca dozzina di ballate senza tempo, praticamente perfette nel dosaggio di ogni ingrediente. Le chitarre arpeggiate di Peter Buck, le linee di basso pulsanti e melodiche di Mike Mills, il forte contrappunto ritmico e la percussione country di Bill Berry, le cantilene stralunate di Stipe forgiano un impasto tra roots rock americano, psichedelia, power pop e (post)punk. La tradizione si rigenera in qualcosa di nuovo e inaudito, malinconia rurale e desolazione metropolitana si saldano in canzoni tanto semplici e dirette all’apparenza, quanto certosinamente rifinite. Le ambizioni, insomma, ci sono tutte: “Volevamo fare un disco potente, senza riempitivi. Come Aftermath degli Stones”, dirà Buck.
È proprio con questo Lp – oggi probabilmente assai più innocuo di quanto potesse apparire all’epoca – che il concetto di “musica alternativa” troverà negli Stati Uniti un formidabile veicolo di diffusione, cominciando a influenzare, di lì a poco, anche la produzione mainstream. Rolling Stone lo premierà come miglior album del 1983, consacrando al tempo stesso i rem come miglior band alternativa e terzo miglior gruppo in assoluto dopo U2 e Police. Non male, per un esordio.

Introdotta da un rombo futuristico, che altro non è che il ronzio di fondo dello studio, amplificato e armonizzato col basso di Mills, "Radio Free Europe" apre l’album e traccia subito le coordinate di un suono che resterà inconfondibile per tutto il decennio: chitarre armoniche, un basso d’ascendenza wave, aggraziate linee melodiche e la splendida voce di Stipe a tratteggiare una storia misteriosa, resa ancor più intrigante dall’eco spettrale del coro, che le conferisce uno spiccato piglio innodico.

Beside yourself if radio’s gonna stay
Reason: it could polish up the grey
Put that, put that, put that up your wall
That this isn’t country at all
Raving station, beside yourself

Accanto a sé se la radio rimane
Ragione: potrebbe ravvivare il grigiore
Mettilo, mettilo, mettilo sul tuo muro
Quella non è certo musica country
Stazione delirante, accanto a sé

La Radio Europa Libera è la stazione da cui gli americani diffondevano la loro propaganda nei paesi oltrecortina durante la Guerra Fredda. L’aggettivo “raving” (“delirante”) sembra quindi riferirsi al furore propagandistico di quelle trasmissioni, mentre il grigiore evoca un generico paese comunista e il muro potrebbe essere proprio quello di Berlino. A patto che le apparenze non ingannino. Perché lo stesso Stipe, presentando la canzone durante un tour del 1999, dirà: “Non posso credere che la gente su internet cerchi di interpretare le diverse parole e sillabe. Alcune cose hanno un senso, altre no. Questa non ce l’ha”. Un aiuto in più lo fornirà invece Peter Buck, nel 1984, spiegando che il testo “evoca l’immagine di gente che sta ascoltando del rock’n’roll e non ha la minima idea di cosa rappresenti”, facendo riferimento alla realtà di molte nazioni dell’Europa orientale.

Fatto sta che i versi, ancora una volta, vanno aggrovigliandosi in modo quasi inestricabile (anche letteralmente: la dizione poco nitida di Stipe ha alimentato persino diverse versioni del testo finale). Tornano le allusioni alla guerra mediatica, ma anche a “palazzi che crollano”, come in una rivoluzione.

Beside defying media too fast
Instead of pushing palaces to fall
Put that, put that, put that before all
That this isn’t fortunate at all

Oltre a sfidare i media troppo in fretta
Invece di far crollare i palazzi
Ricordatelo, ricordatelo, ricordatelo prima di tutto
Che questa non è di sicuro una fortuna

 Persino il retro copertina del 45 giri, dove nessuno della band guarda verso l’obiettivo, eserciterà un’enorme influenza sull’immaginario delle indie-band. Eppure, quel singolo-pepita d’oro aveva indispettito il perfezionista Buck: disgustato da quel mixaggio un po’ troppo “soffocato”, era arrivato addirittura a fracassarne una delle prime copie.

PILGRIMAGE

RemL’eco di una voce lontana, un basso minaccioso, l’ingresso prepotente della chitarra e una storia di pellegrinaggi, che si snoda malinconica tra i cori e i colpi secchi della batteria. Nel canzoniere dei Rem i riferimenti alla religione sono sempre stati frequenti, da ben prima della celeberrima "Losing My Religion" (che tra l’altro ha un significato differente da quello comunemente inteso). Così, dopo la linea telefonica per le preghiere di "Gardening At Night", ecco un nuovo intrigo a sfondo mistico, che evoca simboli misteriosi e immagini da Babele biblica (“Speakin’ in tongues”). Ma dietro questa maschera Pilgrimage cela un altro saggio di puro nonsense, al punto che lo stesso Stipe ha ammesso di non sapere bene quale sia il vero argomento della canzone. Di certo, l’attacco contiene ancora una volta un’esortazione diretta, un escamotage cui Stipe e compagni ricorreranno spesso per introdurre i loro free speech.

Take a turn, take a turn
Take our fortune, take our fortune

They called the clip a two-headed cow
Your hate clipped and distant, your luck, pilgrimage
Rest assured this will not last, take a turn for the worst
Your hate clipped and distant, your luck a two-headed cow
The pilgrimage has gained momentum


Compi una svolta, compi una svolta
Prendici la fortuna, prendici la fortuna

Hanno chiamato il fermaglio una mucca a due teste
Il tuo odio brusco e distante, la tua buona sorte, pellegrinaggio
Sappi che non durerà, preparati al peggio
Il tuo odio brusco e distante, la tua buona sorte una mucca a due teste
Il pellegrinaggio ha preso slancio

Le immagini si fanno sempre più criptiche e indecifrabili. Come quella della “mucca a due teste” che assurge a “portafortuna” (un simbolo della tradizione cinese?), benché non manchino presagi di cattiva sorte (“take a turn for the worst”). Il testo si ripete ossessivamente, con la sola aggiunta di un verso non meno indecifrabile: “Speakin’ in tongues, it’s worth a broken lip” (“La glossolalia vale un labbro spaccato”). Riguardo quest’ultimo, il Random House College Dictionary spiega che si tratterebbe di una preghiera caratterizzata da un linguaggio incomprensibile, originario del Primo Cristianesimo e ora usato dai Pentecostali in un’estatica forma di venerazione. Una formula che spesso si tramuta in “The gift of the tongues”. La religione, insomma, nel lessico del giovane Stipe si nutre di simbolismi arcani e superstiziosi, con ogni probabilità retaggio del fanatismo del Sud degli States e del simbolismo di cui è intrisa la letteratura gotica sudista di autori come Truman Capote,Tennessee Williams, Flannery O'Connor e William Faulkner. Un genere letterario che mutua dal gotico gli elementi tradizionali - racconti bizzarri,oscuri e/o occulti – analizzando anche a fondo il substrato socioculturale, il folklore e le atmosfere del meridione d’America.
Pilgrimage mi lascia tuttora sgomento”, ammetterà. “A un certo punto, subito dopo averla registrata, l’ho ascoltata e tutto mi sembrava avesse perfettamente senso. Ero così entusiasta... Pensavo di aver portato a termine quello che volevo. Poi l’ho dimenticato”. Ma la forza della canzone, più che nelle liriche surreali, sta in un sound avvolgente, tutto giocato sugli echi vocali in contrappunto, con migliaia di voci registrate e sovrapposte dalla band affinché il brano assomigliasse a una specie di canto gregoriano, e sulle cadenze dinamiche del basso, che detta continui cambi di tempo, fino a sfociare in una sorta di bizzarra marcetta.

LAUGHING

Ancora un simbolo arcano e antico. Dopo le immagini bibliche di "Pilgrimage", ecco la mitologia classica di "Laughing", incarnata dalla figura di Laocoonte, sacerdote di Troia, atrocemente punito dagli Dei greci con due mostruosi serpenti marini che lo avvolgeranno, assieme ai figlioletti, nelle loro spire mortali. Stipe, però, gli cambia sesso, trasformandolo in donna e assumendolo come spunto iniziale per un’altra delle sue farneticanti vignette.

Laocoon and her two sons
Pressured storm, tried to move
No other more, emotion bound
Martyred, misconstrued

Lighted in a room, lanky room
Lighted, lighted, laughing in tune
Lighted, lighted, laughing

Laocoonte e i suoi due figli
Intrappolati durante una tempesta, provarono a muoversi
Nessun altro, immobilizzati dall’emozione
Martirizzati, incompresi

Illuminati in una stanza, una stanza stretta
Illuminati, illuminati, ridendo all’unisono
Illuminati, illuminati, ridendo

La prima strofa appare insolitamente chiara: Laocoonte e i suoi due figli sono stati catturati dai serpenti marini inviati dagli Dei, che vogliono punirlo per aver messo in guardia i troiani, suggerendo loro di non accettare regali (incluso il celebre cavallo) dai greci. Il suo martirio è anche estrema conseguenza di un rifiuto pregiudiziale e in questo c’è chi ha visto una possibile spiegazione del cambio di sesso operato da Stipe: Laocoonte viene femminilizzato per sottolineare come la parola delle donne sia rimasta inascoltata per secoli. Ma è solo un’ipotesi, per quanto suggestiva. Trova conferma nelle parole di Stipe, invece, un riferimento all’Olocausto: “L’immagine di Lacoonte con i suoi due figli”, ha raccontato, “mi ricorda le foto di donne ebree nella Germania nazista. Mi riferisco all’istantanea di quella donna con la testa rasata che stringendo il suo bambino scappa dalla gente che la sta deridendo”. Resta invece del tutto inspiegabile la strofa successiva, in cui i protagonisti vengono ritratti in una stanza stretta e illuminata a giorno, mentre “ridono all’unisono”. La luce è forse quella dei lampi di una tempesta, evocata in precedenza? Anche in questo caso, però, resterebbe difficile capire il motivo di tanta ilarità.

Laocoon and her two sons
Ran the gamut, settled new
Find a place fit to laugh
Lock the doors, latch the room
Lighted in a room, lanky room
Lighted, lighted, laughing in tune

Laocoonte e i suoi due figli
Hanno sperimentato l’intera gamma, hanno provato le novità
Trovano un posto adatto per ridere
Chiudono a chiave le porte, chiudono la stanza con il chiavistello
Illuminati in una stanza, una stanza stretta
Illuminati, illuminati, ridendo all’unisono

 Stipe ha ulteriormente complicato le cose, definendo il brano “una rilettura de La lettera scarlatta”. Ma l’impressione è che ancora una volta non abbia costruito una storia, limitandosi semplicemente a gettare l’amo dei suoi riferimenti culturali per attirare gli ascoltatori in una rete di associazioni e immagini sganciate da ogni vincolo con la realtà. Un nuovo sogno, insomma, vagamente inquietante, cadenzato dai rimbombi cupi del basso e dai colpi secchi della batteria. Un muro su cui si infrangono i fitti fraseggi di chitarra acustica (“alla My Sweet Lord”, secondo la definizione di Easter) e i vocalizzi biascicati di Stipe, la cui dizione ancora una volta farebbe inorridire i suoi ex-professori (ascoltare per credere anche solo la pronuncia di “laughing”).

TALK ABOUT THE PASSION

Rem - Michael StipeUna canzone d’amore? Non proprio. La passione del titolo, infatti, è intesa nella sua accezione cristiana. Sofferenza ed estremo sacrificio, dunque. Come quello di Gesù, morto per la salvezza dell’umanità, ma anche come quello quotidianamente vissuto dai derelitti e dagli homeless ai bordi delle strade: saranno loro, infatti, i protagonisti dell’omonimo videoclip, girato da Jem Cohen in un bianco e nero di austera poeticità. Non c’è commiserazione, però, nelle parole di Stipe, bensì un atto d’accusa nei confronti di quelle “preghiere vuote” che riempiono le “bocche vuote” degli uomini. Vaniloqui sterili, che non aiutano a migliorare la condizione di chi non può più reggere sulle sue spalle il peso del mondo.

Empty prayer, empty mouths, combien reaction
Empty prayer, empty mouths, talk about the passion
Not everyone can carry the weight of the world
Not everyone can carry the weight of the world

Talk about the passion
Talk about the passion

Preghiera vuota, bocche vuote, quanta reazione
Preghiera vuota, bocche vuote, parla della passione
Non tutti possono reggere il peso del mondo
Non tutti possono reggere il peso del mondo

Parla della passione
Parla della passione

“Non tutti possono reggere il peso del mondo”, però, sembra anche una sorta di auto-giustificazione: i quattro Georgiani non vogliono essere degli attivisti politici (sebbene molti li identificheranno in futuro come tali), vogliono cambiare il mondo, ma non attraverso le canzoni: “Mi basta che la gente sappia che i rem sono persone che riflettono e che hanno compassione del prossimo, esseri umani che sostengono molteplici cause, sia in pubblico che in privato. Non ho bisogno di salire in cima a un edificio e mettermi a urlare. Non sono un grande oratore, ecco; non sono un Billy Bragg o un Peter Garrett”, spiegherà Stipe.
L’interpretazione accalorata del cantante contribuisce in modo determinante alla magia del brano, in cui spicca anche una parte di violoncello affidata a “una signora che suona in un’orchestra sinfonica e che pagammo 25 dollari”, secondo il racconto di Buck.
"Talk About The Passion" è praticamente un archetipo della “Rem-ballad” da qui all’eternità: le chitarre struggenti, il fascino immortale del jingle-jangle, le tessiture ritmico-melodiche velvettiane, il canto strascicato ma incredibilmente “musicale” di Stipe, gli stacchi di batteria, il battito in levare. Semplice e perfetta, nella sua elegante essenzialità.

PERFECT CIRCLE

Rem - Perfect CircleUn’altra ballata, intensa e malinconica. Armonie dimesse e minimali, cullate dai rintocchi della tastiera. E un’esile filigrana di chitarra, suonata quasi come un mandolino, in mezzo ai colpi sconnessi delle percussioni. Una storia di amicizia, con ogni probabilità, dove il “cerchio perfetto” è proprio quello di ragazzi stretti da un forte vincolo di appartenenza. E questa sembrerebbe anche l’interpretazione di Buck: “Eravamo al City Garden, un locale del New Jersey, e c’erano dei ragazzi che giocavano a football fuori dalla sala. Non erano molto più piccoli di noi e si divertivano, mentre noi ci preparavamo per suonare tre set. Quell’immagine, con il sole che tramontava su quei ragazzi e le loro figure che correvano nel crepuscolo, mi fece commuovere a lungo”. Peccato, però, che il significato attribuito al brano da Stipe non abbia nulla a che vedere con quegli struggenti ricordi: “Peter racconta sempre che "Perfect Circle" fu ispirata da alcuni ragazzini che giocavano. Invece parla di una mia ex ragazza. Molte volte Peter, Mike e Bill non leggono le parole fin quando non registriamo il pezzo; e non di rado non vogliono leggerle”.
Il tono, anche stavolta, è quello dell’evocazione. Quasi un film, in cui scorrono veloci le immagini sgranate di ricordi, flashback di memorie appese al filo della nostalgia. A reggere il brano, dunque, è ancora una volta il pathos, il feeling, sublimato dai vocalizzi morbidi di Stipe e da quel fraseggio circolare di tastiera che richiama in musica il titolo, a mimare una sorta di trance ipnotica.

Put your hair back, we get to leave
Eleven gallows on your sleeve
Shallow figure, winner’s paid
Eleven shadows way out of place
Standing too soon, shoulders high in the room

Pull your dress on and stay real close
Who might leave you where I left off?
A perfect circle of acquaintances and friends
Drink another, coin a phrase
Heaven assumed, shoulders high in the room


Tirati indietro i capelli, dobbiamo partire
Undici forche sulla tua manica
Figura vuota, il vincitore è pagato
Undici ombre fuori posto
In piedi troppo presto, spalle alte nella stanza

Mettiti il vestito e stammi davvero vicino
Chi potrebbe lasciarti dove io ti ho lasciata?
Un cerchio perfetto di conoscenti e amici
Bevine un altro, conia una frase
Paradiso presunto, spalle alte nella stanza

Personaggi che si muovono sospesi nel tempo, esattamente come in un sogno, dove i ricordi veri si confondono con l’immaginazione. Se il testo reca le stimmate dello stile-Stipe, la musica, composta alla tastiera, è in buona parte opera di Berry, elemento prezioso e troppo spesso sottovalutato della band. Un impasto perfetto che prende forma anche grazie a una stravagante trovata: una pista di chitarra alla rovescia e due pianoforti, uno dei quali scordato, che suonano la stessa parte.

CATAPULT

Quel senso di nostalgia lasciato dal “cerchio perfetto” riaffiora ora più dirompente in "Catapult". E a farlo deflagrare non può non essere la rievocazione dell’infanzia, con i suoi simboli e il suo linguaggio libero, innocente, slegato da ogni vincolo razionale. Proprio come quello di Michael Stipe.

Ooooo, we were little boys
Ooooo, we were little girls
It’s nine o’clock, don’t try to turn it off
Cowered in a hole, Opie mouth. Question:
Did we miss anything? Did we miss anything?
Did we miss anything? Did we miss anything?
Catapult. Catapult. Catapult. Catapult

Ooooo, eravamo bambini
Ooooo, eravamo bambine
Sono le nove, non provare a spegnerla
Nascosti in una buca, la bocca di Opie. Domanda:
Ci siamo persi qualcosa? Ci siamo persi qualcosa?
Ci siamo persi qualcosa? Ci siamo persi qualcosa?
Catapulta. Catapulta. Catapulta. Catapulta

Ron Howard nei panni di Opie - Andy Griffith ShowQuasi una filastrocca, dunque. Un’ode alla libertà dell’infanzia, ormai smarrita per sempre (“did we miss anything?”), infarcita di nuovi giochi di parole come “cowered”, a metà tra “covered” (“nascosto”) e “coward” (“vigliacco”), nonché di personaggi misteriosi come Opie, che però, con ogni probabilità, è uno dei protagonisti della serie tv degli anni Sessanta "Andy Griffith Show", interpretato da Ron Howard, futuro Richie Cunningham di "Happy Days" e regista di successo. “Sono le nove, non provare a spegnerla” (la tv) suona come la versione aggressiva della tipica recriminazione dei bambini quando non vogliono andare a dormire. E la catapulta del titolo potrebbe essere tranquillamente un’arma giocattolo di ludici pomeriggi infantili.
A cullare i ricordi in libertà, un insistito arpeggio country-rock, che fa da leitmotiv dell’intero brano, dopo il prologo scandito da un poderoso drumming. Non un capolavoro, ma un pezzo di sicuro impatto, già temprato con successo sul fronte del palco prima dell’incisione in studio.

SITTING STILL

Di fronte a un testo che lo stesso autore ha definito “un’accozzaglia imbarazzante di vocali messe insieme 400 anni fa, per lo più senza senso”, non resta che alzare bandiera bianca. Tanto più perché la stessa versione finale di "Sitting Still" presente negli archivi di Kipp Teague non collima con quella “autenticata” dallo stesso Stipe durante una conversazione in chat. Del resto, non è la prima volta che una canzone dei Rem abbia più trascrizioni, per via della dizione sporca del cantante, che spesso lascia impronunciata la fine dei versi, impedendo, di fatto, una soluzione univoca ai rebus.

I’m the sign and you can read
I’m the sign and you’re not deaf
We could bind it in the scythe
We could gather, throw a fit

Up to par, Katie bar the kitchen door but not me in
Setting trap for the love making a waste of time, sitting still
I-I-I can hear. I-I-I can hear. I-I-I can hear

Sono il segno e tu lo sai leggere
Sono il segno e non sei sordo
Potremmo legarla nella falce
Potremmo riunirci, uscire dai gangheri

Abbastanza buona, Katie sta attenta alla cucina, ma non a me
Mettiamo le trappole dell’amore, sprechiamo tempo, seduti immobili
Vi sento. Vi sento. Vi sento

L’unica traccia – suggerita anche nelle fatidiche Faq dei fan – è quella di un possibile riferimento al lavoro della sorella di Stipe, Cyndy, insegnante per bambini sordi (“I’m the sign and you’re not deaf” può appunto alludere al linguaggio dei segni, che vince la sordità), mentre la frase “bar the door” è un’espressione idiomatica del Sud che segnala un pericolo incombente, traducibile in “fai attenzione”. Ma le varie interpretazioni, questa inclusa, sono da prendere con beneficio d’inventario. Tutte le altre strofe sono avvolte nella nebulosa del nonsense. Resta, in ogni caso, un’altra pop song purosangue, con chitarre tintinnanti, cori festosi e un ritornello orecchiabile alla Beach Boys. Non un inedito, però, visto che già compariva sul lato B del 45 giri di "Radio Free Europe".

SHAKING THROUGH

Ancora l’infanzia, pietra angolare dell’universo onirico di Michael Stipe. Un nuovo tuffo nei ricordi, unito alla consapevolezza del tempo passato e perduto per sempre. Il solito filo di nostalgia a imperlare un’altra melodia cristallina, bisbigliata con tono fatalista su un delicato intarsio di chitarre e piano.

Are we gone way too far?
Taking after rain
Yellow like a geisha gown, denial all the way
Shaking through, opportune. Shaking through, opportune
In my life

Siamo davvero andati oltre?
Inseguendo la pioggia
Gialli come la lunga veste di una geisha, rifiuto senza riserve
Tremando tutto, opportuno. Tremando tutto, opportuno
Nella mia vita

Rendersi conto di essere cresciuti troppo (“gone way too far”): è questa la paura che scuote dentro, che fa tremare? È un’interpretazione sensata, ma è probabile che la minaccia venga in particolare da una prematura esperienza sessuale, forse un abuso. Ipotesi che sembra avvalorata dal verso iniziale, dove si racconta di una “piccola voce” inascoltata, ma soprattutto dalla più esplicita frase “incest on parade”, presente nel demo originario e successivamente sostituita con “children of today on parade”. Sfugge, invece, a ogni risposta la misteriosa presenza di una geisha orientale, con tanto di lunga veste gialla.

WE WALK

Una deliziosa filastrocca da canterellare con la testa tra le nuvole. Giunge come un fulmine a ciel sereno, eccentrica e spiazzante. Grazie anche a uno dei suoni più bizzarri dell’intero album: quello di palle di biliardo che si scontrano, elettronicamente alterato e rallentato fino alla metà della velocità effettiva. Una specie di found sound ottenuto registrando le partite di Berry in una sala biliardo situata sotto la cabina di registrazione delle voci. L’effetto-carillon è amplificato dal tono cantilenante di Stipe e da un giro di chitarra reiterato e orecchiabile. Ma il tono trasognato e bambinesco della musica cela un testo denso di misteri, che insinua nuove inquietanti immagini.

Up the stairs to the landing, up the stairs into the hall
Oh, oh, oh
Take oasis, Marat’s bathing
We walk through the wood, we walk

Su per le scale fino al pianerottolo, su per le scale dentro la sala
Oh, oh, oh
Prenditi una vacanza, Marat sta facendo il bagno
Camminiamo tra gli alberi, camminiamo

Il bagno di Jean-Paul Marat è passato alla storia della rivoluzione francese: nella sua vasca, infatti, il capo dei giacobini venne pugnalato a morte dalla girondina Charlotte Corday. Un’immagine consegnata ai posteri dal celebre dipinto di Jacques-Louis David. È un flash, inserito all’interno di versi che indicano tutt’altro, come spesso accade ai riferimenti culturali di Stipe, gettati lì all’improvviso, come esche per attrarre l’ascoltare verso il suo misterioso universo.
Il verso iniziale (“Up the stairs to the landing, up the stairs into the hall”) è invece, secondo il suo autore, la trascrizione di un motivetto canticchiato abitualmente dalla sua vicina di casa mentre saliva le scale.
Non v’è ancora traccia, in "Murmur", di quel fervore attivista che connoterà molti lavori successivi. Eppure, questo microcosmo misterioso, celato idealmente dalla boscaglia di kudzu della copertina, sembra già un forte contrappunto all’America luccicante dell’evo reaganiano. È un’America che vive nell’ombra, quella dei Rem, o forse sulla Luna. “Volevamo che la gente ascoltandoci pensasse: ‘Gesù, ma questi da quale pianeta sono scesi?’”, racconterà Buck. È questo il primo modo per marcare la diversità. Senza bisogno di indici puntati o slogan politici da gridare.
Musicalmente, invece, con la sua miscela di limpido impressionismo lirico e di esuberante passione folk-rock, "Murmur" fissa un nuovo standard di rock chitarristico americano. Se le parole delle sue 12 tracce sono sempre criptiche e indecifrabili, e fungono più da “suoni” che da filo conduttore di possibili storie, il mood complessivo non è distante da quell’umore irrequieto e dimesso che pervaderà il repertorio di tante indie band a venire. Uno di quei dischi, insomma, con cui, volenti o nolenti, tutti dovranno fare i conti.

(to be continued...)