RECKONING (1984)
HARBORCOAT
Charlotte, North Carolina. Un’altra cittadina appartata e sonnacchiosa del Sud. Mentre avanza l’inverno del 1983, ben pochi dei suoi abitanti, probabilmente, si rendono conto che qui, a pochi chilometri da Athens, ha messo le tende la band capofila di un risorgimento indie rock che sta sbocciando in tutti gli States. Perché mentre i Rem si accampano ai Reflection Sound Studios, gruppi come Sonic Youth, Hüsker Dü, Minutemen, Dream Syndicate, Replacements & C. stanno diffondendo per l’America un nuovo verbo musicale.
In totale dissonanza con le sonorità dominanti del decennio e in diretto collegamento con ciò che verrà in quello successivo. Stipe e soci sono consapevoli di far parte di questa nouvelle vague e sentono sulle loro spalle il peso di un successo che sta esplodendo tra le loro mani. È tempo di reckoning. Una “resa dei conti” in primis con se stessi. Per confermarsi. E per spiccare definitivamente il volo.
Anche per questo nel sottoscala dei Reflection si respira un clima di incontrollata euforia, descritto in un celebre articolo di Anthony De Curtis su Record, che cita “scene selvagge” e “atmosfera bohémienne”. I quattro si divertono a sperimentare gli effetti più stravaganti: il suono di una maglietta strappata, feedback coi bicchieri, vibrafoni, tubi di metallo e persino sedie usate come percussioni. Esperimenti al limite della goliardia, ai quali prendono parte gli stessi produttori (il confermatissimo duo Easter-Dixon).
Tanta esuberanza, però, produce, paradossalmente, un disco tra i più oscuri, scarni e introversi dell’intera storia della band. Con arrangiamenti molto più spogli, mitigati solo da una registrazione leggermente più limpida rispetto all’esordio. Buck spiega il perché: “Siamo entrati in sala con l’obiettivo di creare qualcosa di diverso da "Murmur", che aveva trame complesse e sonorità stratificate, policrome, attente al particolare. Gli arrangiamenti in questo disco sono molto più diretti e abbiamo usato meno strumenti. Perché? Siamo maturati. Non è che vogliamo diventare un gruppo della cui musica si percepisce tutto al primo ascolto, però non vogliamo neanche essere – come dire? – un club privato e quasi inaccessibile”.
All’immediatezza e all’urgenza dei suoni (anche letterale: il disco fu inciso in poco più di due settimane) si contrappone l’indecifrabilità dei testi, con un ricorso ancor più esasperato alla tecnica del cut-up e dei collage astratti. Perché – confessa Stipe a De Curtis – “concedere tutto non è mai una cosa buona, persino in un matrimonio o comunque in un rapporto sentimentale non riveli mai tutto di te stesso all’altro, e c’è sempre qualcosa che tieni per te”. Anche per questo continuerà a scoprire nuove sfumature nelle sue canzoni, a volte trasformandole dal vivo, lasciando agli ascoltatori il compito di completare il processo interpretativo. Ed è anche per questo che osteggerà a lungo i videoclip, rei di “darti la pappa pronta”, inducendo lo spettatore alla passività. Meglio che tutto passi e si trasformi costantemente. Come l’acqua che scorre. File under water, è scritto sul dorso del disco e per Stipe è questo il suo vero titolo. Così come è un serpente d’acqua, probabilmente, a campeggiare nell’inquietante copertina, disegnata dallo stesso Stipe e rifinita dal reverendo Howard Finster, visionario religioso e artista folk della Georgia. Sul dorso del serpente si snoda la tracklist, ma non si sciolgono i misteri. A cominciare da quello dell’iniziale "Harborcoat", una delle canzoni più impenetrabili dell’intera discografia dei Rem.
They crowded up to Lenin with their noses worn off
A handshake is worthy if it’s all that you’ve got
Metal shivs on wood push through our back
There’s a splinter in your eye and it reads “REACT”
Si affollarono attorno a Lenin con i nasi consumati
Una stretta di mano può andar bene, se è tutto quel che hai
Bastoni con la punta chiodata premono sulla nostra schiena
Hai una scheggia nell’occhio con su scritto “REAGISCI”
Il collage è sfrenato e sganciato da ogni vincolo logico e cronologico. La suggestione, però, funziona, così come quel senso di pericolo incombente, dietro la figura inquietante di Vladimir Ilic Lenin e di quella folla dai “nasi consumati”. E ancora una volta Stipe ricorre a un’esortazione, che, questa sì, non lascia dubbi: “Reagisci”. Come se il pericolo fosse davvero ravvicinato e ribellarsi fosse l’unica via di scampo. Il titolo del brano è invece un neologismo che fonde due parole, “harbor” (porto) e “coat” (cappotto). E l’insolito indumento si tramuta in una sorta di compagno prezioso e indispensabile.
Please find my harborcoat, can’t go outside without it
Find my harborcoat, can’t go outside without it
Per favore, trovate il mio cappotto, non posso uscire senza
Trovate il mio cappotto, non posso uscire senza
Un’altra richiesta, ribadita due volte. Che cos’è questo cappotto o giacca a vento così irrinunciabile? Un riferimento alle inondazioni in Georgia, cui sarà poi dedicata "So. Central Rain"? Più probabile che sia solo una suggestione personale, completamente slegata dal verso precedente, in una sorta di viaggio tra i flussi di pensiero e gli impulsi visivi di Stipe. Nonostante l’indecifrabilità dei versi, tuttavia, sono state formulate almeno tre possibili interpretazioni. La prima, direttamente per bocca di Stipe, che in un’intervista con Harold De Muir, ha spiegato che la canzone non era altro che “un rifacimento dei diari di Anna Frank”. La seconda, invece, sposa la presenza di Lenin con il riferimento al detto biblico della pagliuzza nell’occhio (“a splinter in your eye”) e con quel senso di rifugio evocato dal titolo, suggerendo quindi l’idea di un tradimento da parte di chi si era proclamato eroe del popolo. La terza, infine, citando ancora Lenin, le armi (i bastoni con la punta chiodata) e l’invito alla rivolta (“reagisci”), ipotizza una sorta di denuncia contro l’oppressione sovietica e le purghe del regime.
Sul piano musicale, il brano regala un altro accattivante riff di chitarra e segna un altro importante traguardo per i Georgiani, suggellando il primo dei dialoghi a due voci fra le armonie di Stipe e quelle del duo Mills-Berry. Un intreccio vocale che avrebbe marchiato a fuoco gran parte del repertorio dei primi Rem.
SEVEN CHINESE BROTHERS
Un basso martellante che sembra quasi una chitarra e un bel fraseggio di piano, prima dell’attacco della voce. "Seven Chinese Brothers" parte così, aprendosi in un’altra filastrocca ipnotica, dal ritmo serrato e dalle melodie radiose, effuse dalla dodici corde di Buck. Il testo attinge a un’antica fiaba per perdersi rapidamente in un altro ginepraio di immagini e associazioni in libertà.
This mellow, sweet, short-haired boy, woman offers pull up a seat
Take in one symphony now, we’ve just begun to battle
Wrap your heel in bones of steel, turn the leg, a twist of color
Autumn waited hold it to you in the colored come another
Seven Chinese brothers swallowing the ocean
Seven thousand years to sleep away the pain
She will return, she will return
Questo dolce, tranquillo ragazzo dai capelli corti, una donna propone di sedersi accanto a lei
Ora ascolta una sinfonia, per noi la battaglia è appena iniziata
Avvolgi il tuo tallone in tacche di metallo, gira la gamba, un cambiamento di colore
L’autunno attendeva, tienilo per te, nel colore ne arriva un altro
Sette fratelli cinesi che ingoiano l’oceano
Settemila anni per dormire fino a quando non scompare il dolore
Lei ritornerà, lei ritornerà
Il riferimento diretto è a "Cinque fratelli cinesi", la favola di Claire Huchet Bishop e Kurt Wiese, pubblicata nel 1938, in cui ognuno dei fratelli aveva un potere magico per combattere l’imperatore cinese e uno di loro lo faceva annegare inghiottendo l’intero oceano e sputandolo nel suo palazzo. Nella trasposizione libera dei Rem, i fratelli diventano sette e tutti possono bere il mare. Ma l’innocente gioco di parole infantile lascia improvvisamente spazio al dolore di un ricordo diretto, personale e lacerante. Quello per la scomparsa di Carol Levy, fotografa e amica della band, morta in un incidente automobilistico proprio quel fatidico 12 aprile 1983, data d’uscita di "Murmur": “Dormire settemila anni per scacciare il dolore. Lei ritornerà, lei ritornerà”. Un ricordo che riemergerà più nitido in altri due brani dell’album, "So. Central Rain" e (soprattutto) "Camera".
Per il resto, "Seven Chinese Brothers" si rifugia ancora una volta nel nonsense. E c’è persino chi ravvisa in alcuni passaggi (i piedi “in tacche di metallo”, le sinfonie da ascoltare) un’allusione alle prime lezioni di piano del musicista bambino. Non è un caso, allora, che del brano esista un’altra versione dal titolo "Voice Of Harold" (pubblicata poi nella raccolta "Dead Letter Office"), in cui Stipe si diletta addirittura a cantare le note di copertina di un disco gospel al posto del testo originale.
SO. CENTRAL RAIN (I’M SORRY)
Una devastante inondazione paralizza Athens, tagliando tutti i collegamenti. “Le previsioni dicevano: pioggia nel centro-sud, le linee telefoniche sono fuori uso”, ricorda Buck. Da Los Angeles, dove la band aveva in programma un concerto, il chitarrista tenta invano di contattare la famiglia in Georgia, dopo l’alluvione. Da questo spunto reale nasce "So. Central Rain", dove “So.” è la curiosa abbreviazione che sta per “Southern”.
Did you never call? I waited for your call
These rivers of suggestion are driving me away
The trees will bend, the cities wash away
The city on the river there is a girl without a dream
I’m sorry
Non hai più chiamato? Aspettavo la tua telefonata
Questi fiumi di suggestioni mi stanno trascinando via
Gli alberi si piegheranno, le città verranno spazzate via
La città sul fiume, c’è una ragazza senza più sogni
Mi dispiace
Un testo apparentemente tra i più piani e narrativi composti dai Rem in questo periodo, anche per ammissione dello stesso Stipe, che comunque non rinuncia a usare una delle sue tipiche figure retoriche (“fiumi di suggestioni”) quasi a voler tracciare un parallelo tra la furia della natura e il flusso di pensieri angosciosi che attanaglia la mente di chi ha perso i contatti con i suoi familiari.
Poi quel grido di dolore, messo tra parentesi nel titolo: “I’m sorry”. È un riferimento al disastro o alla tragedia personale vissuta dalla band? Difficile stabilirlo con certezza, anche se “la ragazza senza più sogni” potrebbe essere proprio l’amica Carol, la cui vita è stata spazzata via nel fiore degli anni.
Il resto del brano riprende il nucleo principale del testo, con piccole variazioni sul tema. Ecco allora ritornare le linee interrotte (“the lines are down”, “the conversation’s dimmed”), le case da ricostruire (“go build yourself another home”) e un Oceano personificato che canta (“The ocean sang”). Poi, una nuova esortazione, dal tono inopinatamente brusco:
Go build yourself another dream, this choice isn’t mine
Vai a costruirti un altro sogno, la scelta non è mia
Un cambio di registro improvviso, in stridente contrasto col mood delicato del brano. Perché "So. Central Rain" è la ballata per antonomasia di "Reckoning", un nuovo saggio della capacità della band di pennellare melodie trasognate e malinconiche col minimo degli orpelli: un arpeggio folk bonsai a introdurre il lamento di Stipe, cadenzato sulle corde della chitarra di Buck, riff secchi e taglienti, fino al crescendo spettrale del finale. Il ritornello è un grido bruciante: “I’m sorry”, in cui Stipe condensa tutto il suo dolore. Un dolore incontrollabile. “Una volta, emettendo un urlo cupo e allucinante verso la fine della canzone, Michael perse l’equilibrio e cadde dalla scalinata su cui si trovava, rompendo quindi il microfono; da ciò l’improvviso affievolirsi della sua voce prima della fine del pezzo” (Tony Fletcher, R.E.M. La storia).
"So. Central Rain" è il singolo e l’episodio più intenso di reckoning, la nuova prodezza di una band che affronta ormai con disinvoltura temi come il dolore, il passaggio, la redenzione, senza smarrire un grammo della sua vibrante urgenza espressiva.
PRETTY PERSUASION
Una sezione ritmica tirata a lucido. Potente ed energica come non mai. È una macchina implacabile, quella che scandisce "Pretty Persuasion". Una nuova ballata sì, ma carica d’adrenalina come una galoppata rock. Non a caso, era stata un cavallo di battaglia dei Rem nei primi concerti. Eppure, non volevano decidersi a registrarla. Spiega Mitch Easter: “Pretty Persuasion era una canzone vecchia e dovemmo faticare parecchio a convincerli a metterla su disco. Michael ormai la odiava. Secondo me, Michael all’epoca era molto scettico sulle canzoni che affrontavano temi di tutti i giorni. Credo che il fatto che avesse quel ritornello che dice ‘She’s got’ gli sembrasse stupido, invece è bellissimo. Non avevano mezzi termini per le loro canzoni: o erano ‘di merda’ o erano ‘stupende’, e quella rientrava tra le canzoni di merda. Ne avevamo fatto una versione live alla fine della registrazione di 'Murmur', e la versione di reckoning era quasi identica. Però è un po’ un plagio di 'Couldn’t I Just Tell You' di Todd Rundgren”.
In realtà, quei suggestivi intrecci di voci tra Stipe e Mills richiamano più che altro The Mamas & The Papas, come lo stesso cantante ammetterà candidamente, precisando che però “mancava il tamburello”. Fatto sta che il brano è uno degli altri gioielli del disco, con quelle chitarre squillanti e quel refrain conciso e irruento, a innervare liriche che tornano nel terreno dell’oscurità, puntando soprattutto su giochi di assonanza tra parole e musica.
It’s what I want, hurry and buy
All has been tried, follow reason and buy
Cannot shuffle in this heat, it’s all wrong
Try to put that on your sleeve it’s all wrong it’s all wrong
He’s got a pretty persuasion
She’s got pretty persuasion
God damn, pure confusion
She’s got pretty persuasion
È ciò che voglio, affrettati a comprare
Tutto è stato provato, segui la ragione e compra
Non riesco a muovermi in questa calura, è tutto sbagliato
Prova a metterlo sulla tua copertina, è tutto sbagliato, è tutto sbagliato
Lui è fermamente convinto
Lei è fermamente convinta
Dannazione, pura confusione
Lei è fermamente convinta
Un altro rebus, con un’unica traccia, fornita dallo stesso Stipe. Un sogno ricorrente in cui il cantante viene invitato a fotografare i Rolling Stones con i piedi a mollo in acqua per una copertina (che è poi quella abortita di "Aftermath"). Ma l’aggancio può bastare a chiarire, al massimo, soltanto l’accenno a qualcosa da mettere in copertina (“Try to put that on your sleeve”, che però è anche una frase idiomatica traducibile come “renderlo ovvio”), presto seguito dalla convinzione che però “è tutto sbagliato”. Niente di più.
TIME AFTER TIME (ANNELISE)
Tutto il debito dei Rem verso i Velvet Underground saldato in un brano solo. Un raga esotico e orientaleggiante, denso di afrori psichedelici e di stravaganze assortite, dal suono particolarissimo delle chitarre in crescendo all’inaudito tappeto di percussioni, ottenuto da Easter battendo la gamba d’acciaio di una sedia a colpi di tubi di metallo.
Tutta l’angoscia spiritata delle liturgie velvettiane è catturata nei tre minuti e mezzo di un pezzo tra i più eccentrici del repertorio remmiano, eppure così irrimediabilmente riconoscibile, con i vocalizzi e i grugniti inconfondibili di Stipe a dare forma a un’altra storia misteriosa.
Ask the girl of the hour by the water tower’s watch
If your friends took a fall, are you obligated to follow?
Time after time after time
Chiedi alla ragazza del momento, vicino all’orologio della torre idrica
Se i tuoi amici si buttano, sei obbligata a seguirli?
Di volta, di volta in volta
Non è dato sapere chi sia la Annelise del titolo, né quale sia il suo ruolo nel brano. Tutto quello che la band ha spiegato a proposito della storia è che prende spunto da una notte di bravate di Mike Mills a spasso per Athens in compagnia di due amiche, una delle quali sarebbe poi diventata la moglie di Buck. Ma non si tratta di Annelise...
"Time After Time (Annelise)" è uno di quei brani per i quali tanti fan rimpiangeranno a lungo i Rem dell’epopea indie. Geniale e lisergico, un puro esperimento di creatività, senza alcuna aspirazione commerciale. Per Easter, è la canzone più bella dell’album.
CAMERA
Un nuovo omaggio all’amica scomparsa, stavolta molto più diretto ed esplicito, fin dal titolo, che allude alla professione e passione di Carol Levy, la fotografia.
From the inside room when the front room greeting
Becomes your special book, it was simple then
When the party lulls, if we fall by the side
Will you be remembered? Will she be remembered?
Alone in a crowd, a bartered lantern borrowed
If I’m to be your camera, then who will be your face?
Dall’interno della stanza quando il saluto nel soggiorno
Diventa il tuo libro speciale, allora era facile
Quando la festa si acquieta, se noi passiamo in secondo piano
Sarai ricordata? Sarà ricordata?
Solo nella folla, una lanterna barattata presa in prestito
Se devo essere la tua macchina fotografica, chi sarà il tuo volto?
Un’elegia contrita, con tutta la mestizia di un dolore che non può esser mitigato da quell’ultimo lascito affettuoso, un “libro speciale”, presumibilmente con le ultime foto scattate. Carol Levy era una cara amica della band e di Stipe in particolare, collaborava spesso col gruppo e firmò anche l’immagine di retrocopertina di "Radio Free Europe". La sua scomparsa segna quasi uno spartiacque nella storia dei Rem: la fine dell’età dell’innocenza, quella dei bivacchi universitari e dei party selvaggi di Oconee Street, e l’approdo a una dimensione più matura e consapevole. Il ricordo di quella preziosa compagna di vita è affidato a una ballata dalle cadenze inquiete e dimesse: dapprima solo la voce e il ticchettare distante delle percussioni, poi l’ingresso degli altri strumenti, che non altera, però, lo spleen assorto e dolente del brano. Un’atmosfera “spettrale” costruita anche attraverso nuovi espedienti stravaganti in studio: Stipe strappa una maglietta prelevata dalla borsa del manager Jefferson Holt, poi suona un’armonica con la sordina, mentre Buck si diletta con i campanelli, Berry si produce in inediti feedback strisciando il dito sul bordo di un bicchiere e Mills maltratta un vibrafono.
I fell by your bed once, I didn’t want to tell you
I should keep myself in between the pages
Of the green light room if we fall by the side
Sono caduto accanto al tuo letto una volta, non volevo dirtelo
Forse mi dovrei nascondere tra le pagine
Della stanza dalla luce verde, se noi siamo passati in secondo piano
È un esperimento complicato, "Camera", perché mette a nudo tutte le difficoltà di Stipe nel coniugare il suo linguaggio astratto con le sue sensazioni più intime. Il riferimento autobiografico è palese, ma viene ancora una volta ammantato da metafore e simboli, come se Michael quasi si vergognasse di esporsi troppo di fronte al pubblico. Finché non prende coraggio è grida tutto il suo dolore: “I still like you, can you remember?” (“Mi piaci ancora, te ne ricorderai?”). Frase sulla quale scende il silenzio, interrotto da un improvviso (e assurdo) stacchetto funky che suggella la fine.
(DON’T GO BACK TO) ROCKVILLE
Forse, però, quell’assurdo stacchetto funky aveva un senso. Era un modo, per quanto surreale, di voltare pagina e aprire un nuovo capitolo del disco. Perché con "(Don’t Go Back To) Rockville" si cambia bruscamente registro. All’insegna di uno scanzonato country-rock d’antan, che galoppa sui rintocchi del piano honky-tonk di Mills e sui colpi secchi del drumming di Berry, con Stipe mai così nasale nel suo crooning.
Il brano, a metà tra un divertissement e un omaggio alla tradizione (Easter lo riteneva poco più che una cover), porta la firma di Mills ed è, inevitabilmente, il testo meno criptico del lotto. Ne è protagonista una celebre e corteggiatissima studentessa universitaria di Athens, Ingrid Schorr, che viene implorata di non abbandonare la città per trasferirsi nel Maryland d’estate. “Mentre la scrivevo mi sono immedesimato nel personaggio e ho immaginato di essere davvero innamorato di lei e che lei mi stesse lasciando per sempre”, ha spiegato lo stesso Mills, rivelando però di aver anche frequentato realmente l’ambita studentessa.
Looking at your watch a third time waiting in the station for a bus
Going to a place that’s far, so far away and if that’s not enough
Going where nobody says hello, they don’t talk to anybody they don’t know
You’ll wind up in some factory that’s full time filth and nowhere left to go
Walk home to an empty house, sit around all by yourself
I know it might sound strange, but I believe
You’ll be coming back before too long
Don’t go back to Rockville
And waste another year
Guardi il tuo orologio una terza volta, aspettando un autobus alla stazione
Per andare in un posto lontano, molto lontano e, come se non fosse abbastanza
Un posto dove nessuno ti saluta, dove nessuno parla a chi non conosce
Finirai in qualche fabbrica, uno schifo a tempo pieno, senza via di scampo
Tornerai in una casa vuota e te ne resterai tutta sola
So che può sembrare strano, ma credo
Che tornerai qui tra non molto tempo
Non tornare a Rockville
A sprecare un altro anno
Registrata dalla band con riluttanza, quasi solo per accontentare il manager Bertis Downs, grande appassionato di country, "(Don’t Go Back To) Rockville" è la traccia più immediata e orecchiabile di "Reckoning". Un album dal delicato equilibrio, a metà tra consolidamento e transizione. Non ha gli slanci e la continuità di "Murmur", ma rivela una band ancor più matura e versatile, decisa più che mai a mollare gli ormeggi e veleggiare con piglio sicuro tra le insidie del rock. Incluse quelle che ha in casa. Perché la stessa gestazione del disco era stata irta di ostacoli. Non erano solo quei 25 giorni posti come limite per completare le registrazioni. A Jay Boberg, boss della Irs, non bastavano quelle 200.000 copie vendute da "Murmur", che erano valse il numero 36 in classifica. Pregò così Don Dixon e Mitch Easter di inventarsi qualcosa per rendere il suono della band “più commerciale”. Questi, però, fecero orecchie da mercante. Dixon, in particolare, innamorato di quella tenue filigrana sonora, cercò di inseguire un effetto ancora più etereo e scintillante, per donare profondità agli strumenti e agli intrecci vocali di Stipe e Mills. Sperimentò quindi la “tecnica binaurale”, cercando in pratica di catturare i suoni con la naturalezza bifocale dei due padiglioni auricolari. Due microfoni infilati in una scatola di cartone potevano bastare allo scopo. Magari accompagnati da qualche delay e riverbero qua e là. Un suono più “aperto”, dunque, ma tutt’altro che compromissorio o ruffiano. Semmai, in rotta di (ri)avvicinamento alle radici della tradizione americana: il roots rock, il boogie sudista, il country.
L’identità dei Rem, insomma, non è in vendita, e pazienza se anche "Reckoning" non scodellerà hit da top ten. Diecimila copie vendute in più rispetto a "Murmur" (numero 27 in classifica) sono già un indizio di successo. Con la critica sempre al loro fianco. Le ex-matricole di Athens sono diventate adulte.