Mike Ratledge è stato l’anima dei Soft Machine. Ma è difficile imbattersi in un'affermazione del genere in un testo di storia del rock: più facile trovarlo ritratto, fra le righe, come un gregario di lusso o un interprete talentuoso al servizio di visioni altrui. Eppure, se si vuole ricostruire in modo onesto l’identità di una delle band più sfuggenti e irregolari della musica britannica, il punto di partenza non può che essere questo. Mentre la formazione cambiava più volte pelle, Ratledge c’è sempre stato, dall’inizio fino alla seconda metà degli anni 70, e il suo suono è la costante che ha dato ai Soft Machine una voce riconoscibile, un’identità sonora, una visione distintiva nonostante il continuo mutamento.
Per molti, i Soft Machine sono sinonimo di Robert Wyatt: la fase con lui alla batteria e alla voce, chiusa nel 1971 con “Fourth”, viene considerata l’unica davvero rilevante. Il resto? Una deriva jazz-rock trascurabile, destinata ai fanatici del genere. Ma chi ha decretato che debba essere così? Perché la storia dei Soft Machine viene ridotta a una parabola che culmina nella pietra miliare “Third” e si spegne subito dopo?
Se si vuole analizzare l'eredità musicale e la guida artistica della band, la questione è un’altra: i Soft Machine sono stati plasmati in gran parte dalle mani di Mike Ratledge, il loro tastierista per quasi un decennio e fin dai primi anni uno dei principali compositori (su "Third", per esempio, hanno la sua firma due brani su quattro). Se l’immaginario legato alla band non si concentra su di lui è in buona parte perché il racconto dominante sul rock preferisce le figure carismatiche, i personaggi iconici, gli outsider dalla vita tormentata. Robert Wyatt è un personaggio perfetto per questa narrazione, come in parte lo è l'imprendibile Kevin Ayers, che lascia la band già dopo il primo album. Ratledge no. Non incarna nessuno dei cliché romantici che alimentano la mitologia pop. Ma quando si ascoltano i dischi, quando si mettono a confronto le esibizioni dal vivo, diventa chiaro che senza il suo apporto i Soft Machine non sarebbero esistiti nella forma che conosciamo.
Scultore di suono
L’organo Lowrey filtrato attraverso il fuzz. Una voce strumentale che non si limita a riempire lo spazio, ma lo sconquassa, lo ridefinisce. Qualcosa che, letteralmente, si sente nel corpo: vibrazioni che partono dal basso e rimbombano dentro. Bastano pochi secondi di “Facelift”, su “Third”, per rendersene conto: un’invasione sonica, uno dei momenti più alieni mai registrati su disco.
Eppure, la voce di Ratledge non si esaurisce qui. Il suo stile si riconosce ovunque, sia nelle tessiture minimaliste del piano elettrico Rhodes – quelle reiterazioni ipnotiche che da “Out-Bloody-Rageous” in poi sono il liquido fondamento di sempre più brani, sia nelle improvvisazioni taglienti che danno alla musica un’energia nervosa e imprevedibile.
Chi ha potuto assistere dal vivo, al tempo, a una o più delle molte trasformazioni dei Soft Machine potrà testimoniare la centralità del musicista e il dinamismo del suono della band, capace di passare - sempre guidata dal tastierista - dalla sospensione estatica a frenetici zigzag su tempi dispari. Tutti gli altri hanno invece oggi a disposizione qualcosa che all'epoca mancava: un'enorme quantità di materiale inciso dal vivo, che sta venendo alla luce in tempi recenti, soprattutto grazie all'astuta ma preziosissima campagna di pubblicazioni di Cuneiform Records.
Un esempio perfetto è la performance al “Ndr Jazz Workshop” del 17 maggio 1973, documentata sia in audio che in video e pubblicata da Cuneiform nel 2010. Qui il tastierista non si limita a dar corpo al suono della band attraverso il suo organo distorto: lo si sente esplorare ogni sfumatura del suono elettrico, alternandosi tra Rhodes, Clavinet e l’immancabile Lowrey. È una delle testimonianze più potenti della sua direzione musicale nella band. E nella seconda parte del concerto, gli scambi con la chitarra di Gary Boyle – uno dei più brillanti chitarristi fusion britannici, noto per il lavoro con gli Isotope e Brian Auger – rende l'interplay ancora più infuocato.
Oltre il mito
Nei primi anni dei Soft Machine, la scrittura è condivisa tra più membri, e ridurre l’identità musicale della band a un’unica figura sarebbe fuorviante. Con il passare del tempo, però, emerge una direzione sempre più definita. Se nel debutto omonimo del 1968 Kevin Ayers ha ancora un ruolo predominante, già in "Volume Two" la visione di Mike Ratledge e Hugh Hopper prende il sopravvento. Su "Third", a rappresentare la dimensione più cantautorale della band rimane "Moon In June", brano scritto e interpretato da Robert Wyatt, che però è più un episodio isolato che il fulcro del disco. Su "Fourth", l’orientamento è ormai completamente strumentale.
Da quel momento, il suono dei Soft Machine si consolida senza perdere mordente. L’ingresso di tre ex-membri dei Nucleus di Ian Carr - John Marshall alla batteria, Roy Babbington al basso e Karl Jenkins ai fiati - porta la band verso una dimensione più strutturata e marcatamente jazz-rock. Ma è Ratledge, unico membro rimasto della formazione originale, a imprimere una direzione peculiare a questa trasformazione, con il suo suono e le sue idee compositive. Il jazz-rock progressivo britannico di quegli anni è un territorio affollato, dai Nucleus agli Isotope, dai Brand X agli If, dai Colosseum II ai Paraphernalia di Barbara Thompson, fino agli Azimuth di Kenny Wheeler e Norma Winstone e ai progetti orchestrali di Neil Ardley, oppure alle declinazioni canterburiane dei National Health e dei Gong di "Gazeuse!". Eppure, i Soft Machine di Ratledge non si confondono in questo scenario: il loro percorso rimane autonomo, segnato da una ricerca sonora unica, che trova il suo fulcro proprio nel contributo inconfondibile del tastierista.
Il live diventa il terreno d’elezione per la loro musica, e non è un caso che "Six" (1973) dedichi un intero disco a registrazioni dal vivo, attraversate da una ricerca elettronica che porta con sé l’impronta distintiva di Ratledge. Lo stesso vale per documenti successivi come "Switzerland 1974" (uscito nel 2015) e "The Dutch Lesson" (inciso nell'ottobre 1973, pubblicato nel 2023), che dimostrano come la band, lungi dal perdere slancio, continui a esplorare nuove possibilità espressive.
"Six" alterna lunghe improvvisazioni elettroniche e sezioni più strutturate. Il disco non è solo un’istantanea della band in uno dei suoi momenti di massimo equilibrio, ma anche la prova di come la sua musica si trasformi dal vivo in un organismo fluido, con transizioni quasi impercettibili tra composizione e improvvisazione. Se "Six" mostra le molteplici sfaccettature del suono della band in un contesto relativamente controllato, "Switzerland 1974" restituisce una versione dei Soft Machine più aggressiva e tesa, grazie anche alla presenza di Allan Holdsworth, la cui chitarra introduce un elemento solista più virtuosistico, creando un dialogo serrato con il suono psichedelico di Ratledge. Qui, il tastierista dimostra di non essere solo un pilastro sonoro, ma il vero architetto della dinamica della band, capace di adattarsi e rispondere agli impulsi degli altri musicisti rimanendo il punto di riferimento sonoro e artistico della formazione.
"The Dutch Lesson", infine, è un documento essenziale per comprendere l’evoluzione del suono dei Soft Machine durante la leadership di Ratledge: il set è caratterizzato da una sintesi mirabile tra controllo e libertà, con momenti in cui il suono sembra sciogliersi in esplorazioni elettroniche e altri in cui il groove si fa serrato, ipnotico, pulsante. In "Stanley Stamps Gibbon Album", ad esempio, Ratledge guida la band attraverso un intricato schema ritmico in 7/8, mentre in "The Soft Weed Factor" il suo Rhodes crea un tappeto sonoro denso e avvolgente. È una testimonianza preziosa di un periodo ricco di sperimentazione e crescita musicale, in cui Ratledge, pur rimanendo fedele alla sua visione sonora, continua a sorprendere e innovare.
Nuovi orizzonti
Con "Bundles" (1975) i Soft Machine cambiano ancora pelle: l’ingresso di Allan Holdsworth porta la chitarra in primo piano, ma anche in quel disco l'apporto del tastierista continua a essere determinante. Brani come “Hazard Profile” mostrano un perfetto equilibrio tra le incursioni elettriche di Holdsworth e le trame ipnotiche di organo e synth di Ratledge. Tuttavia, è l’ultimo disco in cui il musicista ha un ruolo pienamente attivo. Su "Softs" (1976), il suo contributo si riduce drasticamente: Carl Jenkins prende il controllo della direzione musicale, e Ratledge si limita a poche apparizioni, segnando di fatto la sua uscita dai Soft Machine.
Come emerge dalle sue stesse parole, la decisione di Ratledge di farsi da parte era maturata da tempo:
Ho smesso di comporre musica per cinque elementi per concentrarmi su qualcosa di più personale. Dopo "Six" sentivo che avrei dovuto sviluppare qualcosa che fosse veramente mio. Dopo quel disco, sono stato sempre più coinvolto in cose che non avevano niente a che fare con il gruppo e sono diventato sempre meno interessato a comporre. Penso che, rispetto al periodo precedente in cui dovevo per forza comporre io perché nessun altro lo faceva, ora Karl sia in grado di farlo, e io ovviamente ho potuto smettere.Il desiderio di esplorare nuove direzioni artistiche, accompagnato dalla ricerca di una dimensione più personale, lo aveva portato a ridurre progressivamente il suo coinvolgimento nella band. D'altra parte, l'aumento del peso compositivo di Jenkins aveva per la prima volta reso possibile immaginare una prosecuzione anche senza l'ultimo membro fondatore rimasto. Nonostante l'addio di Ratledge, i Soft Machine continuarono, senza arrestare la propria evoluzione. Il primo album dal vivo rilasciato dalla band inglese, "Alive And Well", è registrato nel 1977 e pubblicato l'anno successivo, e testimonia un temperamento ancora decisamente focoso, con il nuovo chitarrista John Etheridge in ottima forma e i contrappunti di Ric Sanders al violino. Nel tempo, tuttavia, la formazione avrebbe abbracciato uno stile jazz-rock/fusion sempre più liscio e via via meno spigoloso, fino a dissolversi nel 1979 - lasciando però la porta aperta a eventuali ritorni, come quello che nel 1981 dà vita al gradevole "Land Of Cockayne".
(Mike Ratledge, intervista su "Gong", 1977 - ri-traduzione dall'inglese, non essendo stato possibile reperire l'originale in italiano).
08/02/2025