Autore: Thurston Moore
Titolo: Sonic Life
Editore: Baldini+Castoldi
Pagine: 687
Prezzo: 25,00 euro
Per tanti di noi, i Sonic Youth sono stati una rivelazione, incarnando alla perfezione un modo di intendere e approcciare la musica che è tanto onesto quanto catartico. Per tanti di noi, i Sonic Youth sono stati e sono una band larger than life, come direbbero i più bravi, e forse anche una di quelle (poche) band che ci hanno “salvato la vita”, se solo questa affermazione non risultasse, in questi tempi così meschini e problematici, un tantino oltraggiosa. Per tanti di noi, la musica della band newyorkese, tra disumane esplosioni di rumore, sprazzi di trascendenza post-punk, sperimentalismo nudo e crudo e rapimenti “pop”, si è imposta, fin dal suo primo apparire in quel lontano 1981, come una delle più affascinanti, innovative ed influenti di tutta la storia del rock.
Detto questo, quando ho scoperto che il memoir di Thurston Moore, uscito negli States all’inizio del 2023, era stato tradotto in italiano grazie all’interessamento della Baldini+Castoldi, mi sono ricordato di una foto in cui il chitarrista, nonché fondatore della “Gioventù Sonica”, s’accanisce con una bacchetta da batterista sulla sua chitarra, cercando di estrarre dalle sue sei corde, accordate in modo inusuale, un rumore capace di generare una sensazione estatica, la stessa che Thurston aveva sperimentato per la prima volta ascoltando dal vivo “Dissonance” di Glenn Branca. In quell’occasione, il giovane chitarrista originario di Coral Gables, Florida, ma poi vissuto, fin dalla prima adolescenza, a Bethel, Connecticut, “vide” con le orecchie la materializzazione del suono che avrebbe voluto per la sua band e che scaturiva da una “musica primordiale”, fatta di “chitarre sperimentali, potenti, folli, distruttive e bellissime” e suonata “a un volume sufficientemente alto da creare armonici imprevedibili e colori tonali dissonanti che riuscivano a lanciare il proprio incantesimo fin dentro le mie ossa”.
Saranno i Sonic Youth a portare per la prima volta, e in modo ancora oggi ineguagliato, il rock verso quella “musica primordiale, insegnando a un numero incalcolabile di artisti e band, sparsi tra i generi più diversi, a piegare il rumore alle proprie esigenze creative, senza mai davvero perdere la propria identità/integrità.
In queste quasi settecento pagine, Thurston Moore rimette le lancette indietro, tornando alle sue origini, e concentrandosi innanzitutto sulla sua prima epifania sonora, che ebbe le fattezze di “Louie Louie” dei Kingsmen, capace di colpire la sua immaginazione di bambino di cinque anni e facendogli desiderare di imitare, appena gli fosse stato possibile, quel “seducente marchingegno noise piovuto dallo spazio” che il fratello maggiore Gene aveva portato a casa in forma di “vinile nero da 7 pollici” e con la faccia di uno che aveva trovato “un dono dorato piovuto da un ufo psichedelico”.
Da lì a desiderare una chitarra, ovviamente elettrica, il passo fu breve, così come lo fu quello che, più avanti negli anni, lo porterà verso la musica degli Stooges (“essere come Iggy Pop” sarà il suo desiderio più grande) e di grandi outsider quali, ad esempio, Can e Captain Beefheart, musica fatta con la stessa pasta della libertà e dell’immaginazione illimitata, la stessa che lo spingerà, insieme all’amico Harold e a bordo di un Maggiolino bianco Volkswagen del 1968, a fare le prime escursioni verso quella New York da cui, già da diverso tempo, giungevano notizie ed echi di musica clamorosamente “contro”, e dunque ecco l’ennesima rivelazione nelle vesti di Patti Smith, a incarnare “la trascendenza del rock’n’roll, un’esperienza di liberazione mistica”, qualcosa da cui non era possibile tornare indietro, perché quella visione lo indusse e condusse a esplorare tutto il punk, in parte già post-, legato ai leggendari Cbgb e Max's Kansas City, con i ragazzacci dai jeans strappati dei Ramones, gli intellettuali nevrotici dei Talking Heads, i “poeti” Tom Verlaine e Richard Hell dei Television, i Blondie della bionda e fascinosa Debbie Harry e, soprattutto, quanto a impatto devastante, quei Suicide che, quando vide all’opera per la prima volta, lo spaventarono così tanto da costringerlo a darsela a gambe, perché Alan Vega non era soltanto uno che urlava di reduci del Vietnam che alla fine impazziscono e ammazzano tutta la famiglia, no, Alan Vega sapeva anche provocare violentemente il pubblico, spingendosi fino all’attacco fisico, perché in fondo i Suicide erano stati punk prima di tutti e, proprio per quello, erano già oltre la linea.
Per quanto fosse affascinato dal punk, una musica la cui forza d’urto andò esaurendosi ancor prima che gli anni Settanta finissero in soffitta, fu nell’ambito della no wave che Thurston si ritrovò davvero a casa, respirando l’aria di una creatività anarchica, veicolata da non-musicisti dalle dichiarate aspirazioni letterarie e che sputavano sia nel piatto dell’ormai codificato punk (altro che anarchia! altro che “no future”!), che di quello, già comunque più disinibito in quanto a portata innovativa, della new wave, per concentrarsi, invece, sul rifiuto di riff, accordi e groove, così da dare spazio a un’iconoclastia senza limiti, all’ostentazione di un’estetica del “negativo” vista come unica soluzione contro il cancro della normalizzazione.
Thurston prese nota e si portò dentro quella lezione fino a iniettarla sotto la pelle dei Sonic Youth, non prima però di averla mediata con quella della “democrazia sonica” in lui evocata dalle Ut (formazione tutta al femminile che della no wave rappresentò un caso emblematico, avendo l’abitudine di scambiarsi gli strumenti a ogni brano), e rinforzata dalla passione sfrenata e dalla forza dirompente dell’hardcore californiano, musica potente, primordiale, velocissima che, dopo l’ascolto di “Group Sex” dei Circle Jerks e “Jealous Again” dei Black Flag, divenne una vera e propria ossessione, contribuendo a fargli compagnia durante i giorni di solitudine newyorkesi.
Perché a New York, Thurston aveva finito poi per trasferirsi, non essendo più disposto a stare lontano da quella città dove allora tutto sembrava accadere, e poco importa se, all’epoca (1978), la Grande Mela fosse nel pieno di una crisi senza precedenti, tra degrado, delinquenza, droga e incapacità della politica di metterci una pezza… poco importa se il Nostro non sempre riusciva a mangiare a dovere o non riusciva a mangiare per niente, era lì che bisognava stare, meglio ancora se nell'East Village, a Manhattan, dove la scena artistica e musicale era più viva che mai, e dove avrebbe avuto la possibilità – se il destino glielo avesse concesso - di realizzare il sogno di suonare in una band con persone sintonizzate sulla sua stessa lunghezza d’onda.
Destino volle che Thurston incontrasse, proprio da quelle parti, Kim Gordon, che dei Sonic Youth sarà bassista e che di Thurston sarà prima compagna e poi sposa fedele, nonché madre della sua unica figlia, Coco. Thurston e Kim divorzieranno nel 2013 e anche di questa dolorosa separazione vi è ovviamente traccia in queste pagine, anche se Thurston ha scelto di non rivelare le motivazioni personali che lo spinsero ad allontanarsi dalla donna con cui aveva, per oltre trent’anni, condiviso gioie e dolori, e con cui aveva cesellato, insieme al chitarrista Lee Ranaldo (altro grande cardine del suono Sonic Youth) e al batterista Steve Shelley (per tacere di altri musicisti che furono, per qualche periodo, più o meno breve, anch’essi “sonici”) una musica che diventerà, nel corso del tempo, un vero e proprio marchio di fabbrica e grazie alla quale ebbe l’opportunità di viaggiare in lungo e in largo, entrando in contatto con tantissimi degli esponenti più importanti dell’universo alternativo del rock, ma anche con vecchi santoni con le orecchie curiose, come quel Neil Young che nel 1991 diede ai Sonic Youth l’opportunità di aprire i concerti del “Weld Tour”, perché, disse, voleva mettere alla prova il suo pubblico, e poco importa se quest’ultimo si rivelerà poi molto poco interessato a quei quattro newyorkesi armati di rumore e poesia elettrica, a Cavallo Pazzo piacevano da matti, soprattutto quando c’andavano giù pesante con quelle deflagrazioni di rumore che facevano tremare la terra, come nella parte finale di “Expressway To Your Skull”, dove la terra sembra addirittura squarciarsi, prima che tutto, come in un piano sequenza in reverse, ridiscenda verso il centro dell'Universo, per immergersi in un drone imperituro, in un locked groove dell'angoscia, in cui i suoni sono pure immagini scolpite tra le maglie del silenzio.
“Sonic Life” è il libro di una vita, perché Thurston vi ha riversato, senza risparmiarsi, tutto se stesso, soprattutto nella prima parte, perché ciò che precede la realizzazione del primo, omonimo Ep dei Sonic Youth (era il 1982) è importante quanto o forse più di tutto il resto, perché è lì, in quella giovinezza vissuta nella febbre della musica e nel desiderio di bruciare, giorno dopo giorno, intorno al suo altare, che tutto venne seminato, salvo poi sbocciare, un giorno, in a sonic life…