Popol Vuh

Hosianna Mantra, o della prontezza mistica per l'assoluto

Non era uno che amava parlare molto, Florian Fricke. Banalmente, si potrebbe dire fosse uno che preferiva far parlare la propria musica, e di certo non si direbbe qualcosa di lontano dal vero. Ma cosa “diceva” la sua musica? O meglio: cosa ci dice ancora? Ora, non so agli altri, ma a me ha sempre trasmesso un senso di profonda spiritualità. Voleva dare voce allo spirito, Florian, e la musica, l’arte per eccellenza dell’ineffabile, fu per lui una scelta quasi obbligatoria.
Cominciò a praticarla che aveva da poco compiuto gli undici anni, suonando il pianoforte classico ed entrando, qualche anno dopo, in una “scuola superiore speciale per la musica”, quando solitamente gli altri vi si iscrivevano dopo aver varcato la soglia della maggiore età, ma il padre, che da musicista navigato (era, infatti, un cantante lirico) evidentemente ne aveva intuito il talento, riuscì a convincere quelli che la gestivano che il suo ragazzo era già pronto per il grande salto, era pronto per studiare con Rudolf Hindemith, fratello del più celebre Paul, e con Edith Picht-Axenfeld, solo che poi Florian vi resistette fino ai diciannove anni, essendo quella scuola troppo dura, e lui “voleva vivere” e non ne poteva più di “correre attraverso i campi”, piangendo dalla disperazione…

florian_fricke_sixties_ondarock_nunziataFlorian era nato nel 1944 a Lindau, in Baviera, e aveva studiato sia a Friburgo che a Monaco, sentendosi parte di una tradizione che affondava le sue radici nella prima musica polifonica e nell’opera di Mozart. Poi, incappò nel free-jazz, ma ovviamente a colpirlo furono soprattutto i solchi più spirituali e fu così che John Coltrane e Pharoah Sanders divennero due dei suoi eroi. Non fu sordo nemmeno al richiamo del cinema, stuzzicato da quei giovani registi che negli anni Sessanta si erano messi in testa di dare uno scossone al mondo della celluloide tedesca, a cui peraltro anche lo stesso Florian provò ad assestare qualche colpo girando dei cortometraggi, ma in verità senza molta convinzione.
Però, la musica era sempre lì, a portata di mano, mentre nell’aria il profumo di rivoluzione andava sempre più diffondendosi. La Germania aveva alle spalle un passato recente di cui voleva sbarazzarsi al più presto e furono innanzitutto i giovani a cercare una via di fuga da un presente che puzzava di cadavere. Oltre oceano, la cultura hippie aveva affidato alle droghe lisergiche il compito di liberare la coscienza per metterla in contatto con l’essenza più profonda del mondo. L’acido lisergico, insomma l’Lsd, era uno strumento potente per comprendere che Io e Mondo sono, in fondo, la stessa cosa, ma a Florian le droghe interessarono soprattutto come un mezzo per rilassarsi e tenere desta l’ispirazione, perché era attraverso la musica che cercava la vera illuminazione.
Ciò che gli serviva, però, era uno strumento diverso dal solito pianoforte. All’inizio, provò a servirsi di un Elektronium, un sintetizzatore a valvole con un sistema di preset elettromeccanico per la regolazione dei filtri che aveva avuto modo di vedere all’opera, in qualità di critico musicale per la Süddeutsche Zeitung, durante un’esecuzione di “Kurzwellen” (1968) di Karlheinz Stockhausen. Alla fine, però, riuscì a portarsi a casa un sintetizzatore Moog III C modulare, uno strumento che, dato il costo esorbitante (lo pagò la considerevole cifra di 65mila marchi dell’epoca) e la difficoltà nel venirne a capo (praticamente, non esistevano istruzioni per l’uso!), in Germania aveva fino a quel momento avuto un solo acquirente, nella persona di Eberhard Schoener, assistendo il quale, durante l’Esposizione universale del 1970 a Osaka, Florian ebbe modo di intuire le potenzialità di quello strumento messo a punto da Robert Moog nel 1964.

La vastissima tavolozza sonora del Moog (“qui un corno di Ramses, là un'arpa etiope, là il giardino delle spezie di Salomone, il vento") consentì a Florian di innescare le sue prime esplorazioni sonore, andando alla ricerca del  “suono che manifesta il desiderio umano stesso" e muovendosi come uno speleologo tra le tenebre della propria interiorità. Ad accompagnarlo, in prima battuta, il percussionista Holger Trülzsch e l’altro musicista elettronico Frank Fielder. Florian aveva scelto per la sua creatura l’evocativo nome di Popol Vuh, ricavandolo dall’omonimo “Libro della comunità” dei Quiché (o "Libro del consiglio”), in cui si racconta della storia e della mitologia di questo popolo d’etnia Maya, e in cui si fa riferimento alla capacità di suoni particolarmente bassi e penetranti di agire sulla psiche umana con effetti benefici. Era quello che Florian stava insomma cercando e che lo colpì, disse, “come un temporale”, riportando la sua mente all’inizio della Creazione, verso cui lo avevano già spinto, o comunque lo spingeranno, altri testi sacri come la Bibbia o la Bhagavadgītā, e dal cui miraggio interiore i Popol Vuh cercavano di ricavare una connessione con i popoli più antichi, ma senza necessariamente appropriarsi della loro cultura. Come ebbe a dire Florian, infatti: "Attraverso la nostra musica, esprimiamo una forma di meditazione che deriva dalla nostra cultura, non da quella dell’India o di qualsiasi altra".
Da lì a mettere in suono ciò che avvertiva essere ormai il nucleo essenziale del suo rapporto col mondo il passo fu breve. Dopo aver lavorato alla colonna sonora di "Auch Zwerge haben klein angefangen" (1970) di Werner Herzog (cui seguiranno, un anno dopo, quella per "Wintermärchen" di Ulf von Mechow e di "Antarktis" di George Moorse), Florian fu contattato da Gerhard Augustin della Liberty Records, il quale, durante un viaggio negli Stati Uniti, aveva sentito parlare del Moog, se ne era innamorato ed era ora alla ricerca di un “Moog act” per produrre un album di musica elettronica.

moog_iii_c_ondarock_nunziata_600

Il risultato fu “Affenstunde” (letteralmente: “L’ora della scimmia”), per Florian un tentativo di “catturare il momento in cui la scimmia lascia spazio all’essere umano”, il che era come dire di voler cogliere, ovviamente attraverso il suono, quel momento, già affidato alle narrazioni mitiche dalle più svariate popolazioni dell’antichità, in cui l’Uomo viene a se stesso grazie all’emergere della coscienza. Da appassionato di cinema qual era, Florian aveva sicuramente tratto ispirazione anche dalla visione del capolavoro kubrickiano “2001: A Space Odyssey”, nelle cui primissime sequenze, all’interno della sezione emblematicamente intitolata “L’alba dell’uomo” - quella, per intenderci, accompagnata dalle maestose note di “Also sprach Zarathustra” (1896) di Richard Strauss - si vede una scimmia sollevare una tibia da un mucchio di ossa, prima di scagliarla nel cielo, dove, mediante uno straordinario jump cut, si “trasforma” in una navicella spaziale. L’antenato dell’uomo aveva, insomma, scoperto la tecnica, così diventando più che un semplice essere vivente tra gli altri esseri viventi, dato che, da quel preciso momento, smise di essere scimmia per diventare uomo. In “Affenstunde” (che vendette molto poco, ma piacque, tra gli altri, a John Lennon, a Bob Dylan, mentre Karlheinz Stockhausen ebbe molto da ridire…), Florian e il suo Moog si stanno ancora cercando, ma è proprio questa distanza a rendere le sue esplorazioni dello spazio cosmico e/o interiore al contempo fascinose ed enigmatiche.
Da questo punto di vista, il suo approccio era all’opposto di quello di un altro pioniere e grande specialista del Moog, Walter (Wendy) Carlos, che nel 1968 si era fatto un nome pubblicando “Switched On Bach”, un’interpretazione elettronica delle musiche del grande compositore tedesco. Rispetto a quello di Carlos, che aveva un non so che di matematico e di rigoroso, quello di Florian era un approccio completamente istintivo, in cui la tecnologia e l’essenza ancestrale della musica primitiva (verso cui rimanda l’uso delle percussioni) si fondevano.

popol_vuh_moog_ondarock_nunziata_600.

Lo dimostrò ancor di più nelle due composizioni di “In den Gärten Pharaos”, uscito nel 1971 su etichetta Pilz, fondata in quello stesso anno dal giornalista, scrittore e produttore Rolf-Ulrich Kaiser, uno dei personaggi cardine del kraut-rock, se non altro per aver coniato l’espressione “kosmische musik”, che rappresentava la visione, scrive Ulrich Adelt nel suo “Krautrock: German Music in the Seventies”, di “un'identità cosmologica deterritorializzata e postnazionale, che implicava il consumo di droghe psichedeliche e l'invenzione di nuovi suoni, in particolare attraverso l'uso del sintetizzatore”.
Nei “Giardini del faraone”, Florian si muove con straordinaria ispirazione, dimostrando di essere diventato più padrone del Moog. Così, nel brano eponimo ascoltiamo un vero e proprio rituale, in cui, stando agli insegnamenti dei Quiché, la partecipazione dell'ascoltatore deve essere altamente "attiva", pena la dispersione di gran parte delle capacità purificatrici della musica. L'importanza della purificazione è messa in evidenza dal rumoreggiare soffice dell'acqua. I vortici fumosi del synth si dilatano e si contraggono, in una rivisitazione pregna di misticismo della musica cosmica. Intanto, le percussioni di Trülzsch tirano su dal fondo della memoria echi di tradizioni africane e turche. Tra antico e futuro, la musica dei Popol Vuh invita l’ascoltare a scivolare tra le pieghe del presente, per coglierne l’intima natura ineffabile.
Sul lato B, “Vuh” vede Florian alle prese con l'organo a canne della cattedrale di Baumburg, suonata in un unico magniloquente e liturgico ciclo continuo, a testimoniare la profonda sinergia tra la musica cosmica e quella “prontezza mistica per l'assoluto” (“mystische Bereitschaft zum Absoluten”) che è uno degli elementi essenziali dello spirito tedesco.

Pur avendo fatto registrare un salto di qualità incredibile rispetto ad “Affenstunde”, “In den Gärten Pharaos” fu il disco che convinse Florian ad abbandonare il Moog. Lo aveva usato con passione, ma non aveva mai cercato di testarne i limiti e le possibilità. In quel modo, lo avvertì come una limitazione della sua più intima ispirazione e questo nonostante, in un primo momento, avesse detto che con il Moog un compositore aveva la possibilità di esprimere suoni che con un altro strumento non sarebbe mai riuscito a ottenere.
Così, dopo averlo suonato, in qualità di ospite, su “Birth Of Liquid Plejades”, traccia d’apertura del monumentale “Zeit” dei Tangerine Dream, Florian vendette il suo Moog all’amico Klaus Schulze, e da quel momento tornò a dedicarsi al suo amato pianoforte, da cui sapeva cosa aspettarsi, perché lo conosceva bene. “Il passaggio dalla musica improvvisata a quella scritta non ha rappresentato per me alcun problema, dato che suonavo il pianoforte classico dall'età di undici anni e avevo iniziato a comporre molto presto. Per me, non si è trattato né di un progresso né di un regresso, bensì di un altro modo di esprimermi. In quanto compositore, mi sentivo attratto dalla musica classica”.

popol_vuh_florian_fricke_ondarock_nunziata_01All’alba del 1972, il ritorno a una dimensione acustica apparve a Florian come una necessità per incanalare, nel solco di un sentiero di purezza, il suo desiderio di spiritualità e di autenticità, già latente nei primi due lavori dei Popol Vuh, soprattutto nei solchi di “In den Gärten Pharaos”, se quest’ultimo rappresentò simbolicamente, sono parole dello stesso Florian, “l'immagine di Mosè che ogni giorno veniva a chiedere al Faraone la libertà per il suo popolo”, una richiesta che era anche la sua: “Poter scegliere liberamente la mia strada”. Messo da parte il Moog, non gli restò che essere quello che avrebbe sempre voluto: “Sono un artista conservatore. Non mi interessa solo premere pulsanti. A volte, la potenza varia, quindi non si può sempre ottenere lo stesso suono sul sintetizzatore. La macchina ha troppa voce in capitolo. Non c’è niente di umano. Il pianoforte è più diretto. Mi sono dunque reso conto che sarei stato probabilmente più felice se avessi utilizzato strumenti acustici per la mia musica". E ancora: “Nel corso degli anni, la musica è diventata per me sempre più una forma di preghiera. Con l'elettronica, si può probabilmente raggiungere la profondità, l'inconscio, l'atemporalità dell'essere umano più che con altri suoni naturali: lo so e mi affascina da molto tempo. Tuttavia, un modo più bello e onesto mi sembra oggi essere quello di purificarsi e interiorizzarsi senza aiuti tecnici e poi toccare questi spazi di oscurità o di luce, l’uomo interiore, con una musica semplice e umana".

La conflittuale esperienza di Florian con il sintetizzatore Moog (strumento che, a suo dire, lo faceva sentire a disagio se suonato nell’ambito di una musica dalla forti connotazioni religiose) deve essere letta anche alla luce del complesso rapporto tra musica e tecnologia. A tal proposito, interessanti sono le riflessioni di Paul Théberge, che così si esprimeva in “Any Sound You Can Imagine: Making Music/Consuming Technology” (1997): "L'invenzione tecnologica è (…) non solo una risposta alle esigenze dei musicisti, ma anche una forza trainante con cui i musicisti devono confrontarsi". In tal senso, Ulrich Adelt rileva che “musicisti come Florian Fricke, Klaus Schulze ed Edgar Froese hanno sperimentato la tecnologia dei sintetizzatori nei primi anni 70 e hanno cercato di utilizzare lo strumento non semplicemente per riprodurre i suoni degli strumenti tradizionali, ma per creare suoni nuovi e inauditi. In una certa misura, nel fare ciò hanno dovuto lasciarsi gestire dalle macchine, poiché i primi sintetizzatori erano notoriamente complessi, inaffidabili e impossibili da controllare”.
Pur lasciandosi, “in una certa misura”, gestire dalle macchine, quei musicisti, tra cui lo stesso Florian, furono comunque in grado di scrivere alcune delle pagine più alte del panorama musicale di quegli anni. Non seguirono l’esempio emblematico dei Kraftwerk, la cui venerazione per l’“uomo-macchina” fu supportata dalla creazione di musica sempre più algida e tecnologica, nella convinzione che l’essere umano sia tanto più perfetto quanto più si avvicina alla perfezione della Macchina, perché così smette di essere, per dirla con le parole di Günther Anders, una “faulty construction”, una “costruzione difettosa” (“Die Mensch-Maschine/ Halb Wesen und über Ding”, canteranno nel 1978 i quattro di Düsseldorf nel brano eponimo di “Die Mensch-Maschine”).

Ora, per tornare a Florian, si può ipotizzare che, senza il suo rifiuto del Moog, difficilmente ci avrebbe regalato “Hosianna Mantra”, il disco che nel 1972 stabilì un nuovo standard nell’ambito del “rock religioso”, ovviamente se per “rock” intendiamo qualcosa di più vasto rispetto alla musica suonata con il classico trio di strumenti: chitarra-basso-batteria.
Prima di arrivare a incidere quei solchi, Florian si era convertito a un Cristianesimo “anticapitalista e anticonsumista” e aveva anche registrato parte della colonna sonora del film "Aguirre, der Zorn Gottes" di Werner Herzog, che Florian conosceva già da qualche anno (si trovava insieme a lui quando, nella grande biblioteca dell'Università di Monaco, s’imbatté per la prima volta in una copia del "Popol Vuh") e con il quale aveva già collaborato, in qualità di attore, ai tempi di “Lebenszeichen” (1968), primo lungometraggio del regista monacense.
Intanto, la prima formazione dei Popol Vuh non esisteva più. Attorno a Florian, adesso alle prese con pianoforte e clavicembalo, si erano infatti riuniti Conny Veit alla chitarra elettrica e a dodici corde, Robert Eliscu all'oboe, Fritz Sonnleitner al violino, Klaus Wiese alla tambura e la soprano coreana Djong Yun alla voce. Fu proprio l’incontro con quest’ultima a rafforzare la convinzione di Florian di andare nella nuova direzione.

djong_yun_ondarock_nunziata_popol_vuh_600La Yun era figlia del compositore d’avanguardia Isang Yun, interessato innanzitutto alla fusione della musica tradizionale coreana con le tecniche dell'avanguardia occidentale. Insieme alla famiglia, la Yun si era da tempo stabilita nell’allora Germania Ovest, vivendo un periodo di terrore quando, nel giugno del 1967, il padre, accusato di spionaggio, venne rapito e condotto in Corea del Sud, dove fu imprigionato e torturato. Dopo aver tentato il suicidio, Isang Yun fu costretto a confessare con la violenza e fu, infine, condannato a morte. Solo grazie a una vasta mobilitazione internazionale, e a una petizione firmata da diversi compositori e direttori d’orchestra, fu alla fine rilasciato, tornando a Berlino Ovest alla fine del marzo 1969 e ottenendo la cittadinanza tedesca due anni dopo, prima di ricevere l'incarico di scrivere un pezzo per l'apertura delle Olimpiadi di Monaco 1972.
Quello con l’esile e sfuggente Djong Yun fu l’incontro con quella voce che Florian stava cercando già da qualche anno, almeno dal 1969, se già allora era maturata in lui l’idea di comporre un oratorio: “Ho sempre avuto questo grande desiderio di trovare uno strumento che potesse esprimere, con mezzi elettronici, una voce umana, delle voci o, per esempio, il canto di una ragazza. Se si ascolta il lato A di ‘In den Gärten Pharaos’, c’è questa voce. Poi, all'improvviso, questa voce che avvertivo dentro di me è entrata davvero nella mia vita con l’apparizione di Djong Yun”.
A quei tempi, Florian viveva insieme alla moglie, la fotografa Bettina von Waldthausen, alla periferia di Monaco di Baviera, in una casa con ampie stanze in stile antico, arredate con eleganza e dai colori chiari, una casa già da qualche tempo diventata un luogo di incontro per musicisti tedeschi e stranieri, i quali, per un motivo o per un altro, si trovavano a passare o vivevano in quella grande città situata sulle rive del fiume Isar.

florian_fricke_house_ondarock_nunziata_600

“In quel periodo, stavo suonando con il chitarrista Andy Fix, che aveva preso a parlarmi di questa ragazza incredibile di Berlino, che faceva la cantante, dicendomi che dovevo assolutamente incontrarla. Con Esther Ofarim (cantante di origine israeliana, ndr) avevo fatto delle prove, ma non funzionò, perché lei si rifiutava di cantare testi cristiani, immagino perché fosse ebrea, e quindi non voleva interpretare quel tipo di canzone che stavo preparando. Era una scelta che capivo”. Fu così che la ventunenne Djong Yun varcò la porta della casa di Florian. Seguirono quattro intense settimane di prove, alla fine delle quali i Popol Vuh entrarono in studio per registrare i nuovi brani.

connyveit1Quanto a Conny Veit (nato Wolf Conrad Veit), all’epoca militava nelle fila dei Gila, la band che aveva fondato nel 1969 e che due anni dopo aveva esordito con l’Lp “Gila – Free Electric Sound". Nel 1972, fu invitato a Monaco da Florian per preparare il materiale destinato a “Hosianna Mantra”. Tutti i giorni, per sei mesi, i due si videro e suonarono insieme, spesso abbandonandosi all’estasi di un’improvvisa, fulminea ispirazione. Ricorda Florian: “Nella creatività non ci sono sempre ragioni. Alcune cose semplicemente accadono. Tuttavia, all’epoca ero particolarmente interessato a usare prima le parole e poi a creare musica per le parole: insomma, c'erano già dei testi a cui volevo aggiungere della musica. L’idea era quella di trasmettere la profondità del significato di una parola e poi trasformarla in una forma di espressione musicale. Questo è un mio modo di comporre musica. Non lo faccio sempre, ma ogni tanto ci ritorno”.

Per quanto riguarda, invece, Klaus Wiese, che nelle note di copertina fu accreditato come membro della band in qualità di suonatore di tambura, c’è bisogno di fare una precisazione, perché, a quanto sembra, Wiese non suonò nemmeno una nota su “Hosianna Mantra”, così come si legge sul sito popolvuh.nl, in cui si fa riferimento a quanto scritto sulla sua pagina Facebook, in data 29 gennaio 2015 (sesto anniversario della morte di Wiese), dal sitarista e compositore Al Gromer Khan: “Wiese non fu mai un membro effettivo dei Popol Vuh. Possedeva, però, un furgone Volkswagen, a differenza di Florian Fricke. Quest’ultimo aveva bisogno di un roadie, qualcuno insomma che (…) portasse l'attrezzatura della band da Peterskirchen allo studio Bavaria. In cambio, Klaus fu ammesso a un servizio fotografico, completo di un vecchio sitar che aveva riportato da un recente viaggio in India. E poiché Florian era un uomo generoso, e poiché ‘tanpoura’ suonava esotico, e poiché tutti possono suonare la tanpoura, Klaus fu menzionato sulla copertina di ‘Hosianna Mantra’”.

klaus_wiese_popol_vuh_ondarock_nunziataIn un intervista concessa nel 2007 allo stesso sito olandese dedicato alla band tedesca, Wiese così ricordò il suo primo incontro con Florian e il periodo alla corte dei Popol Vuh: “Ho incontrato Florian nei primi anni Settanta e mi chiese di procurarmi una tambura pieghevole dal negozio londinese di musica di Fazal Inayat-Khan, dove lavoravo temporaneamente in quei giorni. Più tardi, suonai questa tambura su alcune tracce (invisibili) nell’ambito di un’infinita sessione di  registrazione, tenutasi in una chiesa nella Baviera orientale, vicino a Peterskirchen, dove Florian aveva impiantato temporaneamente uno studio all’interno di un vecchio castello, di proprietà della Duchessa di Lehndorf. Da tipico 'pesci' (era nato, infatti, il 23 febbraio, ndr), Florian era molto dipendente da bottiglie da cinque litri di vino bianco, grandi canne di libanese per ispirazione pratica e un background cristiano medievale di tutti i tipi di esperienze e visioni interiori. Inoltre, aveva un certo interesse per l'Induismo, con tutti i suoi 'dei' e 'dee', come era abbastanza comune in quei giorni. Più tardi, fece anche un viaggio di un anno via terra in Nepal. Tutta la musica traboccava dalla sua 'visione' interiore e andava consolidandosi durante moltissime prove, a volte anche dieci session in un solo pomeriggio, finché non veniva raggiunta la 'forma’ finale”.
Robert Eliscu, di origine americana (era, infatti, nato nello stato della Georgia nel 1944) era all’epoca il primo oboista della Filarmonica di Monaco, aveva una grande conoscenza della musica medievale ed era in forza ai kraut-rocker Between, con i quali aveva inciso “Einstieg” (1971). Anche l’ospite Fritz Sonnleitner (violino) suonava nella Filarmonica di Monaco, ma rispetto a Eliscu era molto più vecchio, avendo all’epoca già cinquantadue anni.

popol_vuh_1972_ondarock_nunziata_600

Già dal titolo, “Hosianna Mantra” mostra la volontà di abbattere le barriere tra le diverse confessioni religiose, per svelarne l’essenza condivisa: il Sacro. Dimensione che può essere raggiunta solo se, innanzitutto, ci si ricongiunge con l’“uomo interiore”,  che è latente in ogni essere umano. In tal senso, la sua posizione è in linea con quanto scriveva il grande storico delle religioni e antropologo Mircea Eliade: “È difficile immaginare […] come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell’uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l’esperienza del sacro lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato […] In altre parole, essere – o piuttosto divenire – un uomo significa essere ‘religioso’”. Per quanto riguarda invece la scelta del titolo, così Florian: “‘Hosianna Mantra’ è in realtà una combinazione di due culture diverse, due lingue diverse, due vite diverse. Ha un doppio significato, ‘Hosianna’, che è una parola cristiana, e ‘Mantra’, dalla religione indiana dell'induismo. Al di là di tutto questo, ero convinto che fondamentalmente tutte le religioni sono uguali. Si tratta di una verità che puoi sentire nel tuo cuore. E la musica di ‘Hosianna Mantra’ è fatta per toccarti il cuore. Ecco perché puoi chiamarla una messa. Una messa per il tuo cuore”.
In realtà, anche l’espressione “Popol Vuh” sembrerebbe alludere, stando a quanto sostenuto dallo stesso Florian in un’intervista concessa nel 1992 alla rivista francese Crystal Infos, al senso di una profonda unità di tutte le cose:”‘Popol’ significa unificazione, popolo, ricettacolo. ‘Vuh’ è il nome di una divinità, una parola magica che esprime la fertilità proveniente dal cielo, dal sole, dal seme del fuoco. Attualmente, i ricercatori specializzati negli scritti Maya concordano su questa traduzione approssimativa: 'punto d'incontro'. Quando pronunciamo ‘Popol Vuh’, evochiamo, in una volta sola e in modo vago, Dio, il Tutto, Om, la Luce, l’Energia...”.

Abissalmente lontana dalle pose estetizzanti e dalla spiritualità a buon mercato delle cosiddette “messe beat” (fenomeno nato in Italia – la prima, stando alle cronache, fu la cosiddetta “Messa dei Giovani” di Marcello Giombini: era il 27 aprile 1966 – e poi sviluppatosi anche oltreoceano: si pensi, ad esempio, a "Mass In F Minor", composta da David Axelrod e incisa nel 1968 dagli Electric Prunes), quella di “Hosianna Mantra” è una messa scritta da un musicista di formazione classica, appassionato di cinema e prime mover della scena kosmische teutonica, che già da qualche anno si era imposto un profondo cammino spirituale, alla ricerca di quell’Oriente dell’anima che, parafrasando Herman Hesse, è “la patria e la giovinezza dell’anima”, ma anche “il Dappertutto”, “l’In-Nessun-Luogo” e “l’unificazione di tutti i tempi”. Da questo punto di vista, a Florian non interessava “apparire”, quanto piuttosto “essere”. La musica dei Popol Vuh, diceva, doveva portare l’ascoltatore dall’“esterno” all’“interno”, invitandolo, quindi, ad abbandonare l’idea che la manifestazione del mondo è manifestazione di un’alterità irriducibile alla coscienza. Evidentemente colpito dalle acrobazie virtuosistiche di alcuni tastieristi dell’allora nascente progressive-rock (Keith Emerson e Rick Wakeman potrebbero essere due ottimi candidati!), aggiunse che non si trattava "di affermarsi come solista, di spingersi in avanti e mostrare quanto sono veloci le proprie dita o cose del genere, ma piuttosto di mettersi al servizio del profondo, dell'ampio, del grande”. In Rete è possibile rintracciare qualche filmato proveniente dalla sua casa-studio in cui, durante le session di “Hosianna Mantra”, lo si vede, insieme agli altri musicisti, praticamente in preda all’estasi mentre la musica, la sua musica, quella che aveva scritto in poche settimane, travolto da un’ispirazione folgorante, va prendendo forma, chiarendo forse più di mille parole il senso degli aggettivi “meditativa” o “innica” che Florian spesso amava richiamare quando provava a dare conto di quelle sue composizioni.
L’aver scelto, da cristiano, di abbandonare il Moog, per tornare a una dimensione “organica”, significava essersi a suo dire anche consegnati a “un flusso, una resa”. Era quella la strada per trovare la vera pace interiore, come Florian aveva avuto modo di capire leggendo il libro biblico di Samuele, in cui re Saul, turbato da "un cattivo spirito", viene calmato dal suono della lira di Davide, oppure rifacendosi alla tradizione indiana, in cui le vibrazioni sonore, oltre a rappresentare l’origine del tutto, sono anche la manifestazione ancestrale dello spirito trasformatosi in materia.

martin_buber_ondarock_popol_vuh_nunziataPur essendo profondamente convinto che non esistano vere barriere tra le diverse religioni, il punto di partenza della “messa” dei Popol Vuh è, comunque, il Cristianesimo, come conferma il fatto che tutti i testi cantati dalla Yun sono tratti dalla Bibbia, libro che Florian amava sfogliare e leggere durante le prove. “Due anni fa un amico mi ha regalato la traduzione dell’Antico Testamento del filosofo ebreo Martin Buber”, dichiarò Florian nel 1973. “La lingua, se così posso dire, sensuale e mediterranea, il chiaro ordine scenico di questa traduzione mi hanno portato molto vicino all'essenza dei personaggi biblici: la Bibbia è diventata vita per me. Ho letto e riletto il libro di Samuele e, una volta terminato, ho cercato ulteriori informazioni su questo periodo nelle cronache e nei libri di storia. Non definirei religioso il mio approccio alla lettura in quel periodo. Ma col tempo, a quanto pare, è diventato più raffinato. Il confronto dei testi con la traduzione di Lutero mi ha poi fatto comprendere l'alto rango intellettuale del linguaggio di Lutero e della sua interpretazione”. Partire dalla cultura religiosa cui sentiva di appartenere era per lui una questione di purezza: "Ho capito che incontrare Dio all'interno della cultura in cui sei cresciuto è l'impegno più puro. Se incontro un Dio indiano, implica molto mistero mediato che non ho sperimentato dall'interno, dalle mie radici. Quindi non voglio fare musica orientale, ma musica cristiana".
Intimamente cristiana, la musica di "Hosianna Mantra" “non puoi chiamarla musica sacra se non consideri il tuo corpo come la chiesa e le tue orecchie come il suo portale”. Chiamato dal giornalista di Sounds a spiegare meglio il suo significato di “musica cristiana”, Florian sottolineò che essa è “dolorosa nel sentimento, sorridente nell'espressione: pensate alla nostra rosa come simbolo cristiano, in contrasto con il fiore di loto dell'Oriente. La rosa ha le spine sul gambo, e in cima c'è qualcosa di meraviglioso, il fiore: crocifissione e resurrezione, morire per nascere. Questa è la comprensione cristiana, che ritroviamo, ad esempio, nel suono dell'oboe, nella corona di spine del clavicembalo e anche nella chitarra elettrica suonata da Conny, giubilante e lamentosa allo stesso tempo”.
In quella stessa intervista, prese la parola anche Conny Veit, così spiegando cosa aveva in mente quando collaborò alla realizzazione di “Hosianna Mantra”: “Volevo utilizzare i mezzi a mia disposizione per comprendere l'essere e il sentire del Cristianesimo primitivo, per trasmettere la correttezza delle verità elementari contenute nella parola cristiana. Non come predicatore, ma come qualcuno che ritiene che gli stili di vita arcaici siano più preziosi e corretti della nostra cultura contemporanea”. La musica cristiana, aggiunse, “non è finalizzata all'autoaffermazione. È una musica che nasce dall'abbandono di sé. Non è un'affermazione di sentimento egoistico, ma è devozione come sentimento disinteressato, che per me è necessario per poter suonare questa musica - e questo è cristiano”.

popol_vuh_hosianna_mantra_inlay_600

'Hosianna Mantra' è la sua prima devozione alla voce femminile, assolutamente pura e magica
(Bettina von Waldthausen)

A rimarcare l’importanza dell’allontanamento dal Moog, le prime note di “Hosianna Mantra”, quelle di “Ah!”, sono del pianoforte, risuonano come un risveglio e sono immerse in uno spazio indefinito, simbolo di quell’ineffabile che la musica dei Popol Vuh prova a scandagliare sulle orme del Sacro. L’effetto è quello di essere sospesi a mezz’aria, in quell’incrocio di cielo e terra, divini e mortali che la cultura tedesca, via Martin Heidegger, conosce con il nome di “Geviert” e in cui, sostanzialmente, si giocano i destini dell’uomo. Se le note del pianoforte, prima di ascendere e discendere in una personale rilettura dell’“Etude Op. 25 No. 11” (1837) di Fryderyk Franciszek Chopin, sono al centro di questa meravigliosa prima traccia, miraggi di clavicembalo e sussurri di chitarra aprono varchi verso l’ignoto (“Conny suonava come se si fosse appena svegliato da un sonno profondo, si guardava intorno stupito e diceva: ‘È impossibile!'”, ricorderà Florian), invitando l’ascoltatore ad abbandonare ogni timore, per farsi carico di un viaggio spirituale. Un viaggio che prosegue con il “Kyrie”, che fa ovviamente riferimento al “Kyrie eleison” (che sono le due uniche parole del testo cantato dalla Yun), una delle più antiche preghiere della liturgia cristiana, apparsa in Oriente per la prima volta dopo la metà del IV secolo, e per la precisione nelle cerimonie delle Chiese di Antiochia e Gerusalemme, entrando poi a far parte della liturgia romana nel secolo successivo. Tradotta con “Signore, pietà”, tale espressione (che potrebbe essere resa anche come “Signore, abbi misericordia” o “abbi benevolenza”) fa parte del trittico “Kyrie eleison/ Christe eleison/ Kyrie eleison” ed esprime richiesta di perdono, cui risponde una formula di assoluzione sacerdotale che solitamente si risolve con gli atti penitenziali di rito romano.
“Kyrie” fu il brano che Florian citò in alcune delle sue interviste dell’epoca, chiamato a rispondere sull’essenza del nuovo album dei Popol Vuh. Ancor più di “Ah!”, questo brano è “una preparazione al grande ‘Hosanna Mantra’ centrale. Avevo in mente coloro che acclamavano Gesù mentre entrava a Gerusalemme su di un asino: ‘Osanna, figlio di Davide!’. Quando suono il pezzo, mi trovo in mezzo a questa folla di persone bisognose e dico a me stesso: ‘Adesso tocca a te, e poi suono e canto in quella che è, se così possiamo definirla, la più squallida incoronazione di tutti i tempi. La musica è un servizio alla bellezza”. In un’intervista concessa all’epoca della pubblicazione di “Hosianna Mantra” alla radio tedesca SWR, aggiunse poi che “i monaci del Monte Athos, che abbassavano la testa sul petto e si guardavano l'ombelico mentre pronunciavano ‘Kyrie, Kyrie Eleison’, ne trassero grandi benefici. Perché, come musicista, non dovrei partecipare anch'io? Faccio musica e mi dimentico di me stesso mentre la faccio e non mi rivolgo al numinoso, all'inconscio, in modo tale da non sapere come riempirlo di contenuto, ma cerco di riempirlo. E per me esiste, in qualche modo, il mito del divino. Lo stesso subconscio che altre persone riempiono di esperienze horror o fantascientifiche. Volevo inoltre fare musica che non avesse necessariamente bisogno di droghe o cose del genere, ma che trasmettesse un'emozione pura e bella”.
Musicalmente parlando, “Kyrie” si dipana eterea in un paesaggio irreale, fatto di delicate figure di pianoforte, note di chitarra che assomigliano a bisbigli notturni di uccelli ultraterreni, ronzi di tambura (suonata dallo stesso Florian) e la voce diafana della Yun, una goccia di luce che contribuisce a scolpire tracce umane dentro la tenebra divina.

martin_buber_ich_und_du_ondaroclLa definitiva convergenza di Oriente e Occidente si ha nella successiva title track, introdotta dal dialogo sommesso tra pianoforte e tambura e quindi consegnata a una sorta di jam liturgico-psichedelica, in cui a dominare è soprattutto la chitarra di Veit, con le sue calde spirali di suono svettanti verso le “stelle nere” di Jerry Garcia, iridescenze elettriche che attraversano spazi sconfinati come echi di un’anima in cammino verso l’assoluto. La solita, dolcissima voce della Yun e l’oboe, quest’ultimo intriso di nostalgia, concorrono alla creazione di un’atmosfera senza tempo, dove la totalità dell’esperienza religiosa umana è scandagliata a partire dall’essenza che rende ogni fede un sentiero verso la sorgente del sacro.
Il messaggio potente di “Hosianna Mantra” e, nello specifico della sua title track, trova un corrispettivo sonoro proprio nel dialogo tra gli strumenti acustici (voce, oboe, pianoforte, tambura) e la chitarra elettrica, tra l’orizzontalità intrinsecamente organica e terrena dei primi e la verticalità siderale della seconda. Sullo sfondo, la lezione di Martin Buber, soprattutto di una delle sue opere più importanti, quell’"Ich und Du" (1923) in cui emerge il senso della duplice propensione dell’uomo verso il mondo, conteso tra la relazione Io-Tu e la relazione Io-esso. Se, nel secondo caso, l’uomo sperimenta il mondo (le cose, innanzitutto, ma anche gli stessi suoi simili) attraverso rapporti impersonali, superficiali e strumentali, nel primo egli incontra invece profondamente l’altro, così riuscendo a essere davvero se stesso, insomma autentico. Per Buber, ogni essere umano è essenzialmente dialogo e per questo è anche homo religiosus, perché l’autenticità della relazione Io-Tu si fonda su ciò che trascende questa relazione.

popol_vuh_hosianna_mantra_inlay_ondarock_nunziata_600_04

bettina_fricke_ondarock_nunziataLa seconda parte dell’album, intitolata “Das V. Buch Mose” (“Il quinto libro di Mosè”, ovvero il “Deuteronomio”) si apre con “Abschied”, la cui tenera melodia di oboe evoca epoche lontanissime e figure di viandanti destinati all’oblio. Concepita da Florian come una “canzone d’amore” per sua moglie Bettina, “Segnung” affiora, invece, da orizzonti lontanissimi, con la voce della Yun cullata da una musica sempre più libera di espandersi tra gli spazi celesti ("Beati voi, nella città/ Beati voi, nel campo/ (…)/ Beati voi, al vostro arrivo/ Beati voi, nella vostra partenza", dal capitolo 28 del "Deuteronomio") e proprio per questo sempre più prossima all’essenza del poetico, se le immagini poetiche, sulle orme dell’Hölderlin riletto da Heidegger, sono incorporazioni visibili dell’invisibile, quell’invisibile che dal quarto minuto in poi, quando la musica s’innalza a vette sublimi (la chitarra di Veit un rimestare minimalista di note rutilanti…), sembra distendersi in mille petali, come un fiore di loto, per parafrasare Khalil Gibran.
Incastonata tra le due parti di “Andacht” (“Devozione”), il lied dolente e magnifico di "Nicht hoch im Himmel" (“Non in alto nel cielo”), con contrappunto austero di pianoforte, conclude idealmente questo capolavoro, invitando l’uomo a non guardare più verso l’alto, perché Dio è qui, tra noi: “Cominciai a comporre ‘Nicht hoch im Himmel’ già all’epoca di ‘In den Gärten Pharaos’”, ricorderà Florian, “ma pensai che metterlo in musica sarebbe stato troppo difficile per me. D'altro canto, mi colpì profondamente, perché [il titolo] è una definizione chiara e inequivocabile della religione. Composi questo brano poco prima della sessione in studio. Il testo mi è sembrato così importante perché sapevo che un documento religioso è certamente soggetto a molti fraintendimenti, soprattutto ai nostri giorni - e questo testo dice chiaramente che la religione non è qualcosa al di là della portata dell'uomo, ma che Dio è qui, quaggiù, nelle nostre azioni, parole e sentimenti. Sì, è importante dirlo”.
Ancora una volta, si avverte forte e chiara l’eco del pensiero di Martin Buber, che evidentemente ebbe un impatto profondo su Florian e la sua musica. Secondo il filosofo e teologo di origine austriaca, infatti, l’incontro con Dio è un evento che si dà nella presenza del “qui ed ora”. L’incontro con Dio – con quel Dio che è il fondo ultimo di ogni religione - è un evento esistenziale, che ha nella relazione dialogica tra l’Io e il Tu eterno il proprio fondamento. 

...Nicht entrückt ist Es Dir
Nicht hoch im Himmel
Hoch im Himmel
Daß Du sagst:
Wer steigt für uns hinauf
Und holt uns. Sieh, nicht überm Meer ist’s
Nicht fern
Daß du sagst:
Wer fährt uns übers Meer hinüber
Und holt uns. Nein,
Sehr nah ist Dir das Wort:
In deinem Mund und
In Deinem Herzen,
Es zu tun

Permeata di candore e trascendenza, sfiorata dalla grazia, la musica di “Hosianna Mantra” possiede la limpidezza di un cristallo di rocca. Abbandonata l’elettronica, Florian combinò in questi solchi contemplazione e volo lirico, al contempo trasformando l’introspezione dei primi album in vera e propria preghiera.

popol_vuh_hosianna_mantra_ondarock_nunziata_600

11/02/2025

Discografia

Pietra miliare
Consigliato da OR

Popol Vuh su OndaRock