Stevie Wonder

Songs In The Key Of Life, il caleidoscopio magico del genio di Saginaw

All’inizio degli anni 70 la carriera di Stevie Wonder fu caratterizzata da un imponente crescendo rossiniano. Nel breve volgere di quattro anni (dal 1972 al 1976) e di quattro album (“Music Of My Mind”, “Talking Book”, “Innervisions” e “Fulfillingness’ First Finale”), il genio di Saginaw svestì i panni di ragazzo prodigio della black music per trasformarsi in figura dominante e star assoluta del panorama musicale internazionale. Stanco del controllo eccessivo che la Motown esercitava sulla sua produzione, Wonder decise di dire basta. “Non credo che voi sappiate da dove vengo - dichiarò orgoglioso ai dirigenti della sua casa discografica nel 1971 - Non credo che possiate capire”.
Pretese e ottenne la totale autonomia creativa e una maggiore percentuale sulle royalties. Il risultato furono quattro album che dominarono le classifiche e indicarono una nuova via a una schiera infinita di musicisti. Niente più cover d’autore o canzonette di facile presa, ma una musica nuova, piena d’amore, misticismo, consapevolezza sociale e coscienza politica, unita a soluzioni ritmiche e melodiche totalmente inedite; una padronanza degli strumenti e dello studio di registrazione mai vista prima e una voce che suonava più cristallina e vigorosa che mai.

steviewondersongsinthekeyoflifeIl culmine di questo percorso artistico e personale è rappresentato dal maestoso doppio album (corredato di Ep in omaggio intitolato “A Something’s Extra”e di libretto di 24 pagine con testi e crediti) “Song In The Key Of Life”, pubblicato nel settembre del 1976. Costato un anno di lavoro in tre studi differenti, il Record Plant di Hollywood, il Music Factory di Sausalito e il The Hit Factory di New York, questo disco prosciugò quasi totalmente le energie fisiche e mentali di Wonder. Il cantante americano, stando a quanto riferiscono gli addetti ai lavori, rimaneva in sala d’incisione anche per 48 ore consecutive, senza mangiare e dormire, pur di dare sfogo al suo maniacale perfezionismo (“Se mi sento ispirato, continuo fino a ottenere il massimo”- ebbe a dire in merito alle massacranti session). Furono 130 le persone coinvolte nella lavorazione, tra cui spiccano guest star del calibro di Herbie Hancock, George Benson, “Sneaky  Pete” Kleinow. I musicisti lavoravano “a chiamata” venendo convocati alle ore più disparate del giorno e della notte per cercare di stare dietro alla trance creativa di Stevie.
Il gioco valse la candela. I risultati furono strabilianti. Ventuno brani di una bellezza trasversale e senza tempo in cui il demiurgo Wonder riuscì a mescolare abilmente sensazioni e suoni differenti per dar vita a un capolavoro che trascende generi e razza: dal pianto di un bambino che evocava le gioie della paternità ai gioiosi inni ai suoi idoli di gioventù, fino alla rabbia e allo sgomento per la situazione in cui versavano i neri d’America.
Qui dentro c’è tutto. Ascoltare questo disco è un po’ come scoperchiare il vaso di Pandora. Wonder è riuscito a riunire tutte le sue influenze musical-culturali (il gospel, il jazz, il doo-wop, il soul, il funk, il pop) e a trasformarle, modernizzarle, rendendole accessibili alle generazioni successive. Tutte le correnti musicali, i filoni e gli stili della black music degli ultimi trent’anni nascono da qui. Dal pop radiofonico e scala-classifiche di Michael Jackson al tormentato r‘n’b di Mary J. Blige, dall’hip-hop festaiolo di Will Smith al gangsta di Coolio, tutti hanno un debito d’onore nei confronti di questa opera straordinaria.

Il primo album si apre con un coro di chiara matrice gospel che introduce “Love’s In Need Of Love Today”, in cui Wonder canta con voce argentina l’immediato bisogno d’amore, accompagnandosi col fido clavinet mentre le soffici percussioni di Eddie “Bongo” Brown forniscono un delicato tappeto sonoro. Un riff singhiozzante di armonica a bocca apre “Have A Talk With God”, brano a tematica religiosa dominato dal suono gonfio del Fender Rhodes. Il genio dell’artista statunitense si manifesta pienamente nella terza traccia, il black-minuetto, di “Village Ghetto Land”. Dietro l’aristocratico accompagnamento di un quartetto d’archi (ricreato con l’uso delle tastiere), degno seguito della beatlesianaEleanor Rigby”, si nasconde una delle canzoni più socialmente impegnate del disco. La rabbia di Wonder è al culmine, pur senza darlo a vedere, quando dice: “Would you like to go with me, down my dead end street; Would you like to come with me, to Village Ghetto Land”, invitando l’ascoltatore a prendere coscienza della situazione intollerabile in cui vivono i suoi fratelli neri.
La strumentale “Contusion”, con il suo trascinante sound tipicamente fusion (qui i Weather Report ma anche il nostro Pino Daniele devono aver sicuramente drizzato le antenne), lavora l’ascoltatore ai fianchi prima dell’uno-due da kappaò! Due brani che fanno saltare sulla sedia e muovere freneticamente chiunque li ascolti, giustificando, quasi per intero, il prezzo del disco. Il charleston sincopato della batteria di Raymond Pounds apre la travolgente “Sir Duke”, gioiosa e accorata dedica del cantante al suo idolo di gioventù Duke Ellington, un gigante del jazz. La parte del leone questa volta la fanno i fiati. Compatti, grintosi, perfettamente amalgamati, danno vita a uno dei riff più famosi di sempre (secondo, forse, solamente a quello di “Superstition”), mentre la voce altissima e cristallina di Wonder canta la gioia provata nell’incontro con il grande jazz di Count Basie, Louis Armstrong, Ella Fitzgerald e, ovviamente, Duke Ellington. L’universalità del linguaggio musicale è il perno intorno al quale ruota tutto il pezzo (“Music is a world within itself/ With a language we all understand/ With an equal opportunità/ for all to sing, dance and clap their hands”) con le sue caratteristiche di democrazia e uguaglianza. Strepitoso il bridge centrale, eseguito all’unisono da fiati, basso e tastiera, che rafforza, anche se non ce n’è bisogno, la struttura del brano, rendendolo deleterio per le coronarie.
Il diabolico intreccio tra il basso di Nathan Watts e il Fender Rhodes di Stevie Wonder apre la travolgente “I Wish”. Il funk rovente del brano, ha fatto sì che, nel tempo, la canzone venisse “clonata” da numerosi altri artisti (Will Smith su tutti, il quale ne ha ripreso integralmente la musica per comporre la “sua” “Wild Wild West”), che sul giro di “I Wish” hanno costruito un’intera carriera. L’originale, nonostante la potenza del ritmo, è una nostalgica rievocazione della gioventù dell’artista, il quale si augura che “i bei tempi andati” possano di nuovo tornare (“I wish those days/ could come back once more/ Why did those days ever have to go/ I wish those days/ could come back once more/ Why did those days ever have to go, cause I loved 'em so”).

Dopo tanto dispendio di energie, arriva il momento di rilassarsi un po'. Ecco allora la lenta e suadente “Knocks Me Off My Feet”, tipica canzone d’amore wonderiana tutta tastiere e vocalizzi, in cui la voce sognante e melodiosa riesce a scandagliare i recessi più nascosti dell’animo degli innamorati. L’impegno sociale ritorna prepotentemente nell’ipnotica e ovattata “Pastime Paradise”. Il suono di una marimba apre questo capolavoro incentrato sulla vita del ghetto fatta di segregazione, isolamento, e disperazione. Una situazione spesso senza via d’uscita in cui si trovano confinati i ragazzi meno fortunati. La voce di Wonder si fa, in questo pezzo, triste e lamentosa, mentre il suo sintetizzatore ricrea un tappeto di archi che si snoda lungo tutta la canzone. Le congas di Raymond Maldonado e Bobby Hall sostituiscono efficacemente la batteria, conferendo al brano un sapore afroamericano. Il crescendo finale vede l’intervento del coro della Hare Chrisna West Angels Church Choir a sottolineare la drammaticità del brano. “Pastime Paradise” tornerà prepotentemente in voga circa vent’anni dopo la sua pubblicazione, quando il rapper Coolio ne campionerà la melodia e il ritornello (cambiandone il testo), per sovrainciderci il tipico cantato hip-hop facendone, così, un bestseller dal titolo “Gangsta’s Paradise”. Questo dimostra ancora una volta la longevità della musica contenuta in questo album, totalmente immune allo scorrere del tempo.
Un frinire di grilli apre “Summer Soft”, caratterizzata da continui cambi di tempo. L’eclettismo dell’artista qui trova piena realizzazione dal momento che si passa da una tenera e lenta strofa a un ritornello decisamente jazzato, il tutto attraverso tumultuosi stacchi di batteria. Stessa cosa nella successiva “Ordinary Pain”, vero e proprio mosaico musicale, che contiene al suo interno almeno due generi diversi. Dopo un inizio di tipo pop, il brano vira decisamente verso il funk. Protagonista è la voce di Shirley Brewer che canta per buona parte del brano lasciando a Wonder il compito di suonare quasi tutti gli strumenti.

Il secondo Lp si apre con il pianto della neonata Aisha Morris, figlia del cantante, al quale è dedicata l’arcinota “Isn’t She Lovely”. Capolavoro pop, caratterizzato da una vocalità gioiosa e squillante, ottenne un numero spropositato di passaggi in radio, pur non riuscendo a entrare nella classifica di Billboard dal momento che Wonder si rifiutò di pubblicala come singolo. Impreziosita dalle tastiere di Greg Phillinganes, la canzone rappresenta una perfetta fusione di elementi pop e jazz, con l’aggiunta di un fantastico assolo centrale di armonica a bocca. Le tastiere tornano a spadroneggiare in “Joy Inside My Tears”, toccante ballad incentrata sulle gioie dell’amore ritrovato. Incisa in formazione ridotta con il solo aiuto del solito Greg Philliganes e di Susaye Green ai cori, è senza dubbio una magistrale prova d’autore e d’interprete, in quanto Wonder mette qui in mostra tutto lo spettro delle sue capacità vocali. Il funk torna a ribollire nell’epica “Black Man”. Sostenuta da un tambureggiante riff di bass-synthesizer e da una sezione fiati precisa e potente, la canzone torna a trattare il tema razziale. Dopo aver elencato i meriti di ogni razza nella costruzione di un grande paese come l’America, si auspica un futuro di fratellanza dal momento che il mondo è stato fatto per tutti gli uomini.
Una curiosa mescolanza di ispirazione africana, ritmi latini e black music dà vita al brano “Ngiculela- Es Una Historia- I Am Singin”. Strutturato liricamente in tre parti ben distinte: una zulu (“Ngiculela”), una ispanica (“Es Una Historia”) e una americana (“I Am Singing”), il brano conferma ancora una volta la duttilità di Wonder, il suo imprescindibile legame con l’Africa e la natura multietnica della sua musica. La base strumentale fornisce la giusta cornice a questo incredibile meltin’ pot. Il sintetizzatore suona come la chitarra di Paco De Lucia, mentre le percussioni sembrano provenire direttamente da un disco di Santana. Se la commistione e la complessità musicale caratterizzano “Ngiculela”, la semplicità e l’essenzialità sono il marchio di fabbrica del brano immediatamente successivo. L’arpa di Dorothy Ashby è l’unico strumento ad accompagnare la voce nella struggente “It’s Magic”, vera gemma nascosta tra i solchi del disco, impreziosita dalle note fugaci di un’armonica a bocca. Il piano di Herbie Hanckock e la chitarra di Dean Parks vanno a nobilitare il brano “As”, uno dei cavalli di battaglia dell’artista. Il meraviglioso ritornello gospel e l’assolo jazzato di Hanckock rappresentano la particolarità di un brano incentrato su temi naturalistico/sociali. Mentre la prima parte, infatti, si focalizza sullo splendore di Madre Natura e sui vari habitat che esistono nel mondo, la parte centrale sottolinea come qualche volta ci sia povertà e disagio in quasi tutte le zone della Terra. Successo planetario, la canzone è stata rivisitata, negli anni a seguire, da molti artisti tra cui Jean-Luc Ponty, George Michael e Mary J. Blige. Le collaborazioni di lusso continuano in “Another Star”, in cui figura un musicista del calibro di George Benson. Il samba brasiliano incontra il soul in questo spettacolare affresco musicale. Il ritmo accelera, le percussioni scandiscono il tempo di un vero e proprio Carnevale mentre il flauto di Bobbi Humphrey dipinge coloratissimi acquerelli di note.

C’è spazio per ulteriori quattro pezzi che vanno a comporre l’Ep “A Something’s Extra” e che, vista la qualità, avrebbero potuto benissimo essere inclusi nei due Lp principali. Apre le danze l’utopica “Saturn”, in cui il pianeta con gli anelli assurge a simbolo di mondo perfetto, senza odio né violenza, senza morte né dolore (vedi “Imagine” di John Lennon o “L’isola che non c’è” di Edoardo Bennato). Il piano e i sintetizzatori si mescolano alla perfezione con le chitarre di Mike Sambello e Ben Bridges per tratteggiare una malinconica melodia su cui si inserisce una linea vocale estremamente limpida e lineare. Il vero gioiello è rappresentato, però, dalla sincopata “Ebony Eyes”, dove al piano honky-tonk di Wonder si uniscono la pedal-steel di “Sneaky Pete” Kleinow e il gracchiante sassofono di Jim Horn, nel descrivere l’innamoramento per una bellissima ragazza nata e cresciuta in un posto orribile come le strade del ghetto (“She’s a girl that can’t be beat/ Born and raised on ghetto street/ She’s a devastating beauty/ A pretty girl with ebony eyes”). Particolarità del brano, le note di colore date dall’uso del talkbox. Il funk torna prepotentemente in “All Day Sucker”, in cui compaiono, per la prima volta, alcuni suoni tipici dell’hip-hop. Con la tastiera viene creato, ad esempio, una sorta di scratch che accompagna il cantato per tutta la durata del brano. I bassi si gonfiano, il clavinet balbetta e la chitarra di W.G. “Snuffy” Walden disegna un epico assolo. L’album si chiude con la strumentale “Easy Goin’ Evening (My Mama’s Call)”, in cui assoluta protagonista è l’armonica a bocca suonata con la solita maestria dallo stesso Stevie Wonder.

Un caleidoscopio di suoni, emozioni, influenze, linguaggi: così può essere correttamente definito “Song In The Key Of Life”. Un’opera vibrante e immortale capace di avvolgere, sconvolgere ed esaltare qualsiasi tipo ascoltatore trascinandolo in quel mondo di pura magia creato dalle visioni intime e meravigliose di mr. Wonder.