Se qui scoppiasse una bomba, John Denver tornerebbe al n.1 in classifica
(Paul Simon)
Amata, abusata, strumentalizzata e alla fine – da qualcuno - perfino detestata. “We Are The World” è una sorta di crocevia obbligato degli anni 80 (e non solo). Tutti, in qualche modo, sono stati costretti a sbatterci il muso. Gli ingenui sognatori che pensavano davvero di star costruendo “a brighter day, just you and me”, gli appassionati di musica, ipnotizzati da quella inimmaginabile parata di 46 star mondiali, gli immancabili cinici e complottisti, pronti a puntare il dito contro l’ennesima truffa del rock’n’roll - o del pop, nella fattispecie. Nessuno o quasi, però, conosceva davvero il “dietro le quinte” del più grande singolo di beneficenza di tutti i tempi. A ricostruirlo, provvede ora “We Are The World: la notte che ha cambiato il pop”, il documentario Netflix diretto da Bao Nguyen, regista vietnamita-americano, già autore di pellicole quali “Julian”, “Live from New York!” e “Be Water”. Ed è una rivelazione, da tutti i punti di vista.
Chain reaction
Prodotto da Lionel Richie, che svolge anche il ruolo di narratore principale facendosi riprendere nello studio originale in cui venne inciso il brano, il documentario prende l’abbrivio dall’incredibile effetto domino (o “Chain Reaction”, per dirla con una celebre hit di una delle protagoniste) che portò all’impresa di radunare in una stanza 46 stelle della musica mondiale per incidere in poche ore la “risposta americana” a “Do They Know It’s Christmas?”. Tutto nacque, infatti, da quella canzone dei Band Aid, il supergruppo all star britannico assemblato da Bob Geldof per dar vita a quel singolo benefico per l’Etiopia vessata dalla carestia. Il 23 dicembre 1984 un contrariato Harry Belafonte – attivista politico oltre che leggenda musicale, scomparso il 25 aprile 2023 - osserva: “Ci sono i bianchi che salvano i neri, ma non i neri che salvano la loro gente dalla fame”. Così decide di alzare il telefono e contattare Ken Kragen, un produttore che ha nella sua agenda i numeri dell’intero showbiz. Il primo nome che estrae dal cilindro è proprio quello di Lionel Richie, che si rivelerà il motore portante dell’operazione, assieme all’amico Michael Jackson, conosciuto fin da bambino ai tempi della Motown. Tra i momenti comici del documentario, c’è proprio il racconto di Richie dell’incontro a casa di Jacko tra un serpente che si aggira indisturbato, lo scimpanzé Bubbles da accudire e il litigio al piano di sotto tra il cane e il merlo indiano (!). L’altro pilastro dell’operazione è naturalmente il produttore (e direttore d’orchestra) che non può non essere Quincy Jones, l’uomo con cui il Re del pop aveva condiviso il trionfo di “Thriller”. A ruota, Stevie Wonder, che accetta subito con entusiasmo, salvo poi dimenticarsi di rispondere al telefono, costringendo così i due compari a buttar giù da soli la canzone in un frenetico brainstorming nella villa di Jackson (ma il buon Stevie – come vedremo – avrà modo di riscattarsi).
Il meccanismo di costruzione dell’impensabile supergruppo Usa For Africa tradisce anche tutte le connessioni e faide dell’epoca. Se c’è Bruce Springsteen, fresco reduce dalla tournée dei record di “Born In The Usa”, non potrà non esserci anche Bob Dylan, idem per Ray Charles, Paul Simon, Tina Turner, Diana Ross, Willie Nelson e Dan Aykroyd, tra i primi ad aderire. Ma se c’è Cyndi Lauper meglio lasciar fuori Madonna (troppe due popstar nello stesso pollaio), mentre il più doloroso dei “no”, quello di Prince, verrà da molti attribuito anche alla presunta rivalità con Jackson.
Il motto dell’operazione è però presto chiarito in un biglietto che Jones fa affiggere all’entrata dello studio: “Check your ego at the door”. Lasciate il vostro ego fuori dalla porta. Solo così si potrà portare a casa il risultato. Ma, oltre alle buone intenzioni, serviranno anche escamotage pratici. A cominciare da quello decisivo: sfruttare l’evento di Los Angeles degli American Music Awards per trascinare in studio quella nutrita e variegata comitiva di star. Tutto in una notte. E chi meglio di uno che aveva scritto “All Night Long” - e che per di più di quegli Awards era anche il conduttore - poteva riuscire nell’impresa? “Era l’unico modo per riuscire a metterli tutti insieme”, confida un nostalgico Richie, introducendo le immagini della parata di limousine verso gli studi A&M, nella notte tra il 28 e il 29 gennaio 1985, dalla quale si stacca una vecchia Pontiac su cui viaggia il Boss. A riportare tutti sulla terra provvederà proprio Bob Geldof, chiamato a introdurre le session raccontando la sua terribile esperienza in Etiopia. L’intero studio ammutolisce: stavolta è proprio il caso di lasciare l’ego fuori dalla porta.
Ansia da prestazione
Avvalendosi di straordinarie immagini inedite catturate in quegli studi, con gli audio registrati dal giornalista di Life David Breslin, Nguyen riesce a sottolineare bene il clima di stress che incombeva sui protagonisti delle session. A cominciare da Michael Jackson che decise addirittura di disertare la serata degli Awards per provare il brano da solo, cantandolo a cappella. Ma l’istantanea definitiva dell’ansia da prestazione che attanagliava i partecipanti resterà lo sguardo da sfinge di un Bob Dylan ammutolito durante il coro e balbettante anche al momento della parte solista. Quando infatti, dopo aver registrato il ritornello corale, Quincy Jones passa alle esecuzioni singole, c’è chi se le mangia a colazione – vocalist neri in primis, da Stevie Wonder a Diana Ross, da Michael Jackson a Ray Charles e Dionne Warwick, ma anche alcuni bianchi, come un brillante Steve Perry (Journey), un inappuntabile Daryl Hall, una straripante Cyndi Lauper (una volta rimosse le collanine che causavano il fruscio nel microfono) e un sorprendente Huey Lewis, chiamato all’ingrato compito di rimpiazzare la parte di Prince. C’è però anche chi sente di dover scalare l’Everest. Come uno stremato Springsteen, che dà fondo alle sue residue risorse vocali. E come proprio mister Zimmerman, incredibilmente spaesato, lui che la storia della musica l’ha cambiata davvero, di fronte a un’innocua sequenza di versi: “There’s a choice we’re making, we’re saving our own lives”. Quando l’orologio segna le 5,30 del mattino, Bob, cuffie in testa e fogli in mano, inizia a farfugliare, sbaglia intonazione, rivolge uno sguardo sperduto a Quincy Jones. Ed è qui che si manifesta davvero la solidarietà tra star, con la geniale intuizione di Stevie Wonder che si siede al piano e canta quei versi facendo l’imitazione di Dylan: è così che devono essere cantati, Bob ha capito, sorride. E finalmente ce la fa, mostrandosi in quei pochi secondi più umano di come è apparso in sessant’anni di carriera. Un frammento di straordinaria dolcezza, che testimonia la bellezza dell’imperfezione, la stessa con cui deve fare i conti qualsiasi musicista, ogni giorno, in qualsiasi studio.
Non sarà comunque l’unico incidente di percorso. Fingendo che lo spettatore ignori l’esito finale della storia, infatti, il documentario gioca sull’angoscia del fallimento, sulla tensione palpabile negli studi di fronte al rischio di non riuscire a portare a casa il risultato, con le lancette dell’orologio a scorrere implacabili verso l’alba mentre le star, disposte in semicerchio, non nascondono il nervosismo. Ecco allora affiorare ostacoli apparentemente insormontabili: il gelo in stanza quando Stevie Wonder propone di cantare in swahili, provocando addirittura la fuga di Waylon Jennings (non se ne farà nulla, anche perché in Etiopia, gli fanno notare, non parlano swahili); l’ubriachezza inquietante di Al Jarreau che alla fine solo per miracolo riesce a prendere le note; l’imbarazzo quando Smokey Robinson, uno dei pochi che se lo può permettere, mette in discussione il testo di Jackson chiedendo di modificare un passaggio sul “donare”, suggerendo l’esortativo “cominciamo a donare”. Ma soprattutto l’affaire Prince. È lui, il genio di Minneapolis, il convitato di pietra di Usa For Africa: agognato fino all’ultimo, anche per mezzo dell’invito alla sua adorata batterista Sheila E, che abbandonerà la compagnia dopo aver scoperto di essere stata cinicamente usata per quello scopo. Perché il Principe, che aveva appena intascato quattro American Music Award facendosi scortare da un gigantesco buttafuori, alle 4 di notte, da un club di LA, comunica che potrà al massimo eseguire un assolo di chitarra da aggiungere al brano, e Richie gli fa sapere che il gioco non funziona così: o tutti insieme o niente.
A far da contraltare alle fasi di tensione e difficoltà, il documentario piazza sapientemente alcuni momenti di idillio e goliardia generali, mostrati o solo narrati. Come quando Paul Simon fa esplodere una fragorosa risata collettiva esclamando “Se qui scoppiasse una bomba, John Denver tornerebbe al n.1 in classifica”. Oppure quando Stevie Wonder invita Ray Charles ad accompagnarlo in bagno scherzando sulle disabilità di entrambi. O come quando tutti all’unisono omaggiano Belafonte intonando “Day-O” e poi iniziano a scambiarsi autografi sugli spartiti come semplici fan. E anche i più duri di cuore cederanno di fronte all’immagine di Diana Ross, la diva suprema, in lacrime alla fine dell’estenuante maratona notturna mentre confida a Wonder: “Non voglio che finisca”.
Fu vera gloria?
Ma è possibile che i cinici in servizio permanente effettivo non si lascino incantare neanche stavolta. Neanche di fronte al candore e all’umiltà di un Lionel Richie che rivela progressivamente tutta la sua umanità, confessando alla fine che quello studio è rimasta la sua casa; oppure a Quindi Jones che ammette divertito: “Alla fine i bianchi hanno cantato bene!”; a Springsteen che riconosce che forse il pezzo non era granché ma funzionava per il suo scopo; oppure all’idea che, sì, quegli gli 80 milioni incassati dalla vendita dei dischi furono effettivamente devoluti alla popolazione dell'Etiopia - anche se non si è mai ben capito con quale grado di efficacia negli interventi (e su questo semmai si potrebbe aprire una discussione all’infinito).
“We Are The World” è stata spesso oggetto di scherno e parodie (divertente quella dei Ramones con Weird Al e altri artisti alternativi nel video del 1986 di “Something To Believe In”). Non era certo un capolavoro e forse assomigliava davvero a un mix tra una recita scolastica e uno spot per una bibita, come qualcuno l’ha definita. Però è riuscita dannatamente bene ad assolvere al suo scopo: smuovere qualcosa nelle viscere, se non nelle coscienze, sensibilizzando il mondo su un tema assente dal dibattito pubblico. Ma non tutti gliel’hanno riconosciuto.
C’è sempre stato un fondo di diffidenza nei confronti della beneficenza compiuta dalle star (musicali e non), il desiderio di metterne costantemente in dubbio l’autenticità, di smascherarne la retorica buonista oltre a eventuali zone d’ombra e strumentalizzazioni. Come se non bastasse già il fatto di farla e non fosse comunque preferibile all’inazione, quella stranamente mai sottoposta a simili fuochi di fila. Insomma, per dirla con Quincy Jones: “Chiunque voglia scagliare la prima pietra contro Usa For Africa può muovere il culo e cominciare a dare una mano. Dio solo sa quanto c’è ancora da fare”. Ma non scamperà a questo tiro incrociato neanche il successivo – e grandioso - Live Aid, sempre promosso da Geldof, che di fatto non sarà altro che la naturale prosecuzione live della campagna messa in atto da Band Aid e Usa For Africa. Eppure si tratterà dell’ultimo slancio utopistico del rock, proprio nel cuore dei famigerati 80’s del disimpegno edonista. Poi, tutto si affievolirà, lasciando negli anni solo qualche sporadico evento di minor pervasività (da Farm Aid a Sun City degli Artists United Against Apartheid, dal Freddie Mercury Tribute for Aids Awareness al Concert For New York City post-11 Settembre). E così finiranno anche le polemiche.
Il documentario di Nguyen invece, per 96 minuti, ci riporta nell’effimera dimensione del sogno, della favola morale. Una madeleine musicale che trova tutti i tasti giusti per emozionare, tra stralci di video, testimonianze attuali e ricordi di chi quella notte la visse di persona, come Bruce Springsteen, Dionne Warwick, Cyndi Lauper, Huey Lewis, Kenny Loggins, Sheila E. e Smokey Robinson. “Con il nostro film cerchiamo di immergere il pubblico in qualcosa che è molto presente, il ticchettio dell’orologio in quella stanza – spiega Nguyen - Tutti erano sotto l’effetto dell’adrenalina”. Se non di altro, verrebbe da dire, ma di questo ci importa poco.
Unica nota davvero stonata, l’omissione di quello che la giornalista e attivista statunitense Andrea Grimes su MSNBC ha definito “il momento più commovente di quella greatest night”: l’arrivo in studio di due donne etiopi che erano sopravvissute alla carestia. Una pecca grave, ma che si può perdonare a un’opera che riesce a riesumare lo spirito di un decennio intero attraverso un evento che non cambiò di certo il pop, né la storia della musica, e tantomeno le sorti dell’Africa - oggi più dimenticata che mai - ma che dimostrò come una buona causa potesse ancora riuscire a unire anche le personalità più egocentriche dello showbiz in nome dell’illusione di costruire un mondo migliore. Riprovateci voi, e poi ne riparliamo…
Titolo: We Are the World: la notte che ha cambiato il pop
Regista: Bao Nguyễn
Cast: Lionel Richie, Kim Carnes, Tom Bahler, Bob Dickinson, Sheila E., Humberto Gatica, Quincy Jones, Cyndi Lauper, Huey Lewis, Kenny Loggins, Steve Perry, Ruth Pointer, Wendy Rees, Bruce Springsteen, Harriet Sternberg, Dionne Warwick, Steven Ivory, Ken Woo, Michael Jackson, Harry Belafonte, Lindsey Buckingham, Davide Byrne, Ray Charles, Phil Collins, Bob Dylan, Bob Geldof, Daryl Hall, James Ingram, Jackie Jackson, La Toya Jackson, Marlon Jackson, Tito Jackson, Al Jerreau, Waylon Jennings, Billy Joel, Ken Kragen, Madonna, George Michael, Bette Midler, John Oates, Jeffrey Osborne, Anita Pointer, June Pointer, Prince, Kenny Rogers, Diana Ross, Paul Simon, Sting, Tina Turner, Sarah Vaughan, Stevie Wonder.
Produttori: Bruce Eskowitz, Larry Klein, George Hencken, Harriet Sternberg, Kent Kubena, Julia Nottingham
Produttore esecutivo: Amit Dey
Musiche: Darren Morze, Goh Nakamura
Durata: 96 minuti
Le performance
Cantanti solisti