05/07/2011

Arcade Fire

Arena Civica, Milano


La serata che ha visto come protagonisti i canadesi Arcade Fire all'Arena Civica di Milano è di quelle che entrano negli annali. Per la musica certamente, ma anche per il pubblico, circa 7000 paganti distribuiti tra il gremito parterre sotto il palco e le gradinate del glorioso stadio progettato nel centro della città in stile neoclassico dall'architetto Canonica a inizio 800. Quello che fu uno dei più spettacolari luoghi di intrattenimento all'aperto per i milanesi (un grande contenitore che nel corso di due secoli ha ospitato ricostruzioni storiche di battaglie navali, le naumachie, il leggendario circo di Buffalo Bill e ogni sorta di evento sportivo) da qualche estate ospita il "Jazzin Festival", lunga rassegna musicale estiva che propone un cartellone estremamente ricco, all'interno del quale questa stagione hanno brillato stelle del firmamento rock come Lou Reed e Robert Plant.
Una nota stonata di queste serate estive all'Arena (ma vale anche per i concerti a San Siro) è relativa ai volumi, davvero molto bassi e penalizzanti la resa sonora. Niente di nuovo per Milano, dove l'assenza di grandi spazi attrezzati e pensati per i concerti rock costringe i promoter all'utilizzo di strutture circondate da zone residenziali, con conseguenti limiti imposti ai decibel e polemiche senza fine con tanto di strascichi giudiziari.

Gli Arcade Fire sono probabilmente l'unica band nata nella scena indie degli anni Zero a essere proiettata nell'olimpo dei grandi del rock. Mi avvicino dunque al concerto (il loro primo che ho il piacere di ascoltare) con viva curiosità e con l'intento di scovarvi qualche indizio sui motivi di tanto clamore e successo planetario. Le voci che arrivano da Londra, che raccontano di quasi 70.000 fan che hanno accolto i canadesi solo qualche giorno prima la data milanese, fanno ulteriormente crescere in me l'attesa. Il fatto di non essere un grande conoscitore e appassionato della band mi mette anche nelle condizioni di affrontare la serata in modo più distaccato e oggettivo. Entrato in Arena, uno sguardo va subito sul pubblico, secondo la lezione del grande impresario musicale Leo Wäcther (celebre come l'uomo che portò i Beatles in Italia, ma anche Stones, Who, Hendrix e tanti altri). "Occorre avere l'occhio strabico", diceva Leo, "uno diretto verso il palco e l'altro verso il pubblico". Questo approccio a 360° resta sempre un mio punto di riferimento quando entro in una sala o in uno spazio da concerti e continua per tutta la serata, soprattutto se inizia a frullarmi per la testa l'idea di preparare un live report.
Guardandomi intorno vedo un pubblico abbastanza variegato ma con una folta rappresentanza di rock-waver nati a cavallo degli anni 70 e 80, nel senso di una generazione cresciuta musicalmente in quel periodo storico e che ritrova dopo alcuni decenni negli Arcade Fire sonorità familiari (per inciso, mi annovero tra questi). Anticipo subito che quello che più mi colpirà della serata sarà la capacità del collettivo canadese di comunicare in modo contagioso, una capacità di generare un senso di appartenenza. Una band che pare avere una familiarità innata per le grandi folle, potrei dire una band predestinata (penso alle benedizioni che Butler e soci hanno ricevuto nella loro comunque breve carriera da tanti nomi altisonanti, da Bowie che sale sul loro palco a Springsteen che ospita i coniugi Win e Régine sul suo, dagli U2 che li invitano ad aprire i loro concerti fino ai Coldplay che li indicano come migliore band in circolazione).
Gli Arcade Fire rispondono a una delle maggiori aspettative del pubblico rock, quel bisogno sociale di raduno. C'è un filo che lega la capacità della band di creare inni ("Wake Up" su tutti) e il desiderio del vasto pubblico di vivere sul campo un'appartenenza, ballare e cantare a squarciagola in mezzo ad altre migliaia di persone che lo fanno all'unisono. Rito catartico primordiale che il rock riesce talvolta a inscenare; non sempre sinonimo di qualità musicale (che pur nello specifico della serata c'è eccome e ci arrivo tra breve), ma che talora non c'è neppure (senza che nemmeno la folla se ne interessi e o se ne lagni). La band canadese dal canto suo fa la sua parte con professionalità tutta nordamericana - ogni momento musicale è studiato a tavolino, come ogni cambio di strumento e a una attenta osservazione anche i momenti di apparente caos musicale risultano partiture scritte a tavolino - ma con uno spirito gioioso, da festa popolare. Non c'è improvvisazione, ma c'è gioia nell'interpretare uno spartito. Non è forse una coincidenza che "Cirque Du Soleil", una delle più perfette e strabilianti macchine spettacolari che girano per il mondo, abbia base proprio in Canada.

Ma partiamo dall'inizio per una carrellata sulle canzoni della serata che alla fine risulteranno 18 compresi i due bis. "Ready To Start", uno dei migliori episodi dell'ultimo album "The Suburbs", scalda subito la serata con il basso che scandisce le fondamentali del giro di accordi che la tastiera  chiude e rilancia nel ritornello con un pugno note assassine. L'attacco stile primi U2 sguinzaglia "Keep The Car Running", dal secondo disco "Neon Bible", tenendo alta la tensione.
La band conferma di voler giocarsi subito alcune delle migliori carte del repertorio con "No Cars Go". Il cantato nella strofa portata solo dal basso, le soavi orchestrazioni e l'intensità espressiva del ritornello ne fanno uno degli inni della band canadese, una sorta di "Love Will Tear Us Apart" degli anni Zero. Lo stupendo crescendo del finale trascina la folla, che si unisce al canto dei musicisti.

Dopo questo tris formidabile, è la volta della ballabile ed esotica "Haiti". Si volta pagina e fa capolino con "My Body Is A Cage" il lato oscuro e drammatico degli Arcade Fire, sottolineato da cori ecclesiastici e da tinte soul blues. Win Butler attacca quindi "Crown Of Love", per poi fermarsi pochi secondi dopo. Chiede scusa alla platea e riprende la malinconica ballata (verità o finzione?).
Dopo la parentesi più intimista, la band attacca "The Suburbs", hit dell'ultimo disco, una marcia dagli echi pop di scuola beatlesiana a cui segue naturalmente "The Suburbs (Continued)".
Dal pop al rockabilly, è la volta di "Month Of May", brano senza infamia e senza lode, tratto dall'ultimo "The Suburbs", come la seguente, più riflessiva "Rococo".

In questa fase del live prevale un'alternanza emotiva ed espressiva delle canzoni. Ecco infatti, a seguire, il lento e solenne crescendo di "Intervention", brano sostenuto da organi liturgici, cori e orchestrazioni. Poi ancora una perla di "Funeral" scalda la platea con la sua ritmica sempre dritta e quadrata, il basso che svisa sulla nota acuta secondo la lezione di Adam Clayton; si tratta di "Neighborhood #1 (Tunnels)", una delle più belle ballate in repertorio, che mette in mostra  tutta la capacità della band di creare tensione emotiva e trasmettere calore.

E' la volta di "We Used to Wait" uno degli episodi più riusciti dell'ultimo albun "The Suburbs", capace di creare tensione emotiva con il battere insistente delle tastiere per poi aprirsi in un ritornello liberatorio. La serata entra nella fase topica con "Neighborhood #3 (Power Out)", brano da grande dimensione live che si dispiega in tutta la sua forza evocando ancora echi dei primi U2.
Nella variazione strumentale mi pare poi di intravedere il dinamismo ritmico del grande Derek Forbes, bassista dei Simple Minds, i cui storici live sono ancora impressi nella mia memoria. 
A chiudere la scaletta è un'altra canzone del primo disco, "Rebellion (Lies)", dall'andamento sempre quadrato, la cassa che pulsa in quattro, il basso e il piano che picchiano le ottave.

Ovviamente non finisce qui e l'orchestra rientra per concedere due bis. Si parte con il grande inno per eccellenza degli Arcade Fire, quel "Wake Up" che tante band di lungo corso non possono vantare in repertorio. I 7.000 dell'Arena cantano all'unisono in un tripudio che davvero impressiona.
Il secondo bis lascia un poco perplessi. La scelta cade sulla canzone forse più smaccatamente commerciale dell'intera produzione, "Sprawl II". Si passa quindi dall'epica rock di "Wake Up" alle tastiere disco di "Sprawl II", mentre Régine balla mandando in deliquio il pubblico.
La serata si trasforma in una grande festa popolare. L'ultima immagine che lascia di sé la band prima del commiato è quindi giocosa e gioiosa. Un'immagine che impiego qualche giorno a digerire, ma che alla fine accetto di buon grado. Che festa sia!

Qualche riflessione finale sulla serata. Gli Arcade Fire sono musicalmente bravi,  sanno suonare, sanno stare sul palco, hanno una decina di canzoni che sono già dei classici, brani di grande "tiro" live e intensità emotiva. La band canadese ha il talento di comunicare con il grande pubblico. Sa trascinare, riesce a creare spirito di appartenenza. I concerti si trasformano in una festa rituale, secondo la tradizione del rock classico. Gli Arcade Fire non sono particolarmente originali ma hanno saputo raccogliere e rielaborare alcuni ingredienti. Riprendono sonorità e modalità della new wave (soprattutto nei giri portanti sulle note fondamentali del basso, ma anche nel lavoro della batteria, ad esempio i sedicesimi sul charleston); raccolgono la lezione della ballata rock (penso agli U2 su tutti); citano il techno-pop nei riff danzerecci delle tastiere.
Elementi se non di originalità almeno di varietà e di piacevole sorpresa derivano dal fatto di presentarsi sul palco in otto. Ne risulta una vitale e dinamica orchestra folk, con archi, fisarmonica, mandolino e percussioni assortite, capace di ergere muri del suono di grande impatto e sorprendenti arrangiamenti. Le carte musicali vengono spesso rimescolate e i musicisti girano i propri ruoli sul palco, passando da uno strumento all'altro, dando una sensazione di giocoso ed equilibrato movimento (penso, per fare una citazione pittorica, a "La Danse" di Matisse).
Gioia è quindi un attributo della serata. Gioia che si contrappone, però, ai momenti di più intensa drammaticità che connotano le ballate più intimiste. Gioia e dolore. Estroversione e introversione. Régine e Win. In questi opposti si scorge la dinamica dell'alternanza ciclica della vita e forse con questo ho intuito almeno parte del segreto degli Arcade Fire: mettono in scena la vita, con le sue contraddizioni, i suoi opposti. E quando un musicista, una band, riesce a trovare un equilibrio dinamico tra questi opposti, ecco rivelarsi il miracolo dell'espressione e della sintesi artistica.

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