In occasione dei cinquant'anni del loro album d'esordio omonimo, identificato ormai come "Il Salvadanaio" per via della storica copertina, Vittorio Nocenzi e compagni sono tornati a fare dei concerti in giro per l'Italia. Testimoniando così come la musica e il culto del Banco del Mutuo Soccorso siano ancora più che mai vivi, nonostante i dolorosi lutti e abbandoni dell'ultimo periodo. E il merito è proprio della tenacia con cui lo storico tastierista e fondatore ha continuato a tenere accesa la fiammella di un'esperienza musicale che in mezzo secolo ha fatto la storia della canzone italiana. Incassando elogi anche all'estero, inclusa la Perfida Albione. Ne parliamo con lui in questa chiacchierata ad ampio raggio, piena di ricordi, aneddoti e curiosità, che racconta cosa è stato il Banco e cosa vuole rappresentare oggi.
Vittorio, il vostro Salvadanaio compie cinquant'anni. Che effetto ti fa?
All’epoca nessuno poteva immaginare che sarebbe successo tutto questo. Ricordo l’emozione di vedere quella copertina col salvadanaio campeggiare in vetrina nel negozio di dischi in piazza del Duomo, a Milano. Oppure, quando vidi al terminal degli autobus un ragazzo scendere dal bus con il nostro disco sottobraccio. Erano segni tangibili della diffusione del nostro primo disco, della nostra musica che avevo tanto sognato ma che fino ad allora era rimasta solo chiusa nella mia casa, appannaggio solo di noi e di pochi amici. Sensazioni che possono sembrare banali, ma sono fortissime. È come uscire per la prima volta a fare una passeggiata con la persona di cui sei innamorato.
Manca oggi questo senso di fisicità della musica, in tempi eterei, fatti di streaming e piattaforme digitali?
Sì, è venuto meno quel rapporto di dipendenza dall’oggetto, come poteva essere con i vecchi vinili. Ma la cosa più importante erano le emozioni, i sentimenti, che questo modo di vedere la diffusione della tua musica poteva darti.
Però se c’è un pubblico che ha mantenuto un forte attaccamento agli oggetti musicali, ai vinili, ai dischi da collezione, è proprio il pubblico del progressive rock…
È vero, per molti appassionati della nostra musica è così. È la materializzazione delle idee che diventano oggetti, fonti di scambio. Un ponte da percorrere, che unisce artisti e ascoltatori.
La musica del Banco è viscerale: esce fuori dallo stomaco, dal cuore: per questo riesce a coinvolgere ed emozionare sempre il pubblico
Tornando al Salvadanaio, secondo te qual è il segreto del suo elisir di lunga vita? Perché è rimasto una istituzione della musica rock italiana?
È difficile dirlo dopo tanto tempo. Penso sia un cocktail di diversità, di visceralità, di suoni inediti. La musica del Banco fa della sua peculiarità una delle chiavi capaci di emozionare il pubblico, di avere un impatto forte. Si sente che è musica che esce fuori dallo stomaco, dal cuore. È come un viale, che quando decidi di percorrerlo ti coinvolge: mi viene in mente un viale dove amo sempre andare a camminare, sono le Olmate di Genzano (paese nei pressi di Roma, ndr), che quand’è primavera si riempiono di milioni di fiorellini gialli trasportati dal vento...
Sembra quasi lo scenario di una fiaba prog… (ridiamo)
Ma sì, c’è un periodo dell’anno, in cui fioriscono gli alberi, che succede davvero, è una pioggia di fiorellini gialli lungo questo viali, una magia… Mi ricorda un episodio di “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez che racconta proprio una pioggia di fiorellini gialli a Macondo.
Il realismo magico piace a noi appassionati di prog. Tornando alla vostra musica, però, bisogna comunque ricordare come fosse molto diversa da certe produzioni prog dell’epoca, quasi unica in effetti…
Una volta un amico ci diede la definizione per me più pertinente: la musica del Banco non è visionaria, ma visiva, fa vedere le cose, stimola le immagini della mente, le sensazioni più colorate, coinvolgendo emotivamente l’ascoltatore, anche in modo viscerale. Forse grazie anche alla nostra anima latina, mediterranea.
Anche un po’ barocca, a volte?
No, non direi barocca, almeno nel senso di ridondante che spesso si accosta al prog.
No no, io lo intendevo in senso buono, mi riferivo alla nobile tradizione barocca italiana, al melodramma…
C’è indubbiamente una forte componente melodica nei nostri brani, e poi ci sono le tastiere, molto presenti, che vanno a mutare un po’ i codici genetici del rock tradizionale, fatto di corde, di manici… delle chitarre, del basso elettrico. Quando in una band così incentrata sulle chitarre, arriva un tastierista, succede spesso che filtri anche qualcosa dalla musica classica, che va a mischiarsi col rock’n’roll. Perché i tastieristi quasi sempre si sono formati sul piano, attraverso studi classici.
I miei tastieristi preferiti? Huey Smith, Brian Auger e Keith Emerson, lui aveva un fraseggio unico che non scadeva mai nel mero virtuosismo. Noi tastieristi destabilizziamo: siamo i cavalli di Troia della classica nel rock.
Quali sono i tuoi preferiti, quelli che per te sono stati un riferimento?
Direi soprattutto Huey Smith, Brian Auger, il maestro dell'organo Hammond e naturalmente Keith Emerson.
Che tastierista era Emerson?
Aveva una grande cultura musicale, un fraseggio unico nelle improvvisazioni. Non era mai un tecnicismo fine a se stesso, non scadeva mai nel mero virtuosismo, nel “guarda quanto sono veloce”, come accadeva ad altri tastieristi dell’epoca. Lui aveva sempre una bellezza speciale nel fraseggio che lo rendeva unico. E così riusciva a contaminare il rock con le sue grandi conoscenze musicali. Perché i tastieristi, in fondo, sono come un cavallo di Troia della musica classica che entra nella fortezza sacra del rock. Poi escono fuori e scatenano la rivoluzione!In effetti è sempre un rapporto controverso, quello tra rock e tastiere. Ma queste ultime alla fine riemergono sempre: penso al punk che le aveva messe al bando e alla new wave che le ha fatte resuscitare in grande stile…
Mi ricordo Francis Monkman, il tastierista dei Curved Air. Ci conoscemmo in Inghilterra nel 1974 o ’75, e mi incuriosì molto sentirlo suonare e parlare, perché scoprimmo tutta una letteratura pianistica che avevamo in comune. Era bello scoprire un’altra persona che si era abbeverata alla stessa sorgente, come sentirsi parte di una famiglia. Del resto, quando studi “Il clavicembalo ben temperato” di Bach, che tu sia in Italia, in Inghilterra o in Francia è la stessa cosa. Così quando mescoli quel background con l’elettricità e i muscoli del rock, il risultato “a valle” diventa simile ad ogni latitudine.
Tornando al Banco, dopo il live celebrativo all’Auditorium di Roma per i 50 anni del Salvadanaio, andrete in tour questa estate?
Sì, celebriamo non solo i 50 anni del Salvadanaio, ma anche il ritorno alla vita. Siamo rimasti per due anni praticamente disoccupati. Eravamo in tournée quando è scoppiata la pandemia: avevamo fatto date all’Auditorium di Roma, a Verona, Brescia, Milano, Torino, Chiasso, Genova, Campobasso, Bari… e poi tutti a casa. È stata davvero una doccia fredda. Quindi questi concerti ora sono per noi importanti, vogliamo ripartire, tornare a fare quello che abbiamo sempre fatto in questi anni. Anche se resta il carico di angoscia, con la guerra in Ucraina che ha preso il posto della pandemia.
Il prog non può morire, perché vive della diversità, della fantasia e dello stupore. E poi si evolve nel tempo. La nostra musica non è più quella del 1972. Anche se è stretta parente!
Sarà anche l’occasione per confrontarsi le nuove generazioni, che in questi anni si sono accostate alla vostra musica…
Sì, perché non abbiamo solo un pubblico di seguaci storici. Il testimone passa da una generazione all’altra, per fortuna, perché altrimenti sarebbe solo una festa tra vecchi (ridiamo). Ci sono tanti giovani, che scoprono nella nostra musica, e nel prog in generale, quella diversità che in tempi di omologazione grigia come questi riescono ad apprezzare ancora di più. È la vittoria della sensibilità e dell’intelligenza: non si può dare una mano grigia ad ogni cosa, devono uscire fuori i colori.
È questa natura “colorata” a far sì che il prog, in fondo, non muoia mai, anche quando viene dato per spacciato, per datato, superato etc.?
È la forza della diversità, della fantasia, dello stupore. La voglia di apprendere nuove cose, di crescere, senza fermarsi mai.
Già, perché comunque anche il prog si evolve. Ascoltando il vostro album più recente, “Transiberiana” del 2019, si percepisce che il vostro suono non è rimasto quello del 1972.
Si sente che è musica di oggi. Però è strettamente parente di quella del 1972 (ridiamo). E così sarà anche per la nostra prossima uscita, l’atto più concreto per festeggiare questo cinquantesimo anniversario del Banco.
Che disco sarà?
Un album nuovo, in doppio vinile e cd. Uscirà il 23 settembre, abbiamo appena finito di masterizzarlo.
Ci puoi già dire il titolo?
Ehm… ne riparleremo a settembre.
Francesco Di Giacomo faceva volare le nostre canzoni con la sua splendida estensione vocale che esprimeva tutta l'emotività della nostra musica. Lui e Rodolfo Maltese è come se fossero sempre accanto a noi sul palco
Parlando del Banco, la mente torna inevitabilmente a Francesco Di Giacomo, una colonna della vostra band, che è venuto a mancare nel 2014. Che cosa ha rappresentato per voi?
Ha rappresentato tantissimo, è stata la nostra voce per moltissimi anni. Dal punto di vista tecnico, si potrebbe definire un tenore leggero. Aveva una splendida estensione vocale che consentiva alle mie melodie di essere interpretate nei registri alti. Io ho una voce da baritono, quindi non ero dotato di quell’estensione che invece possedeva Francesco. Per esprimere la carica emotiva della nostra musica, lui era davvero la persona giusta. È stato il nostro marchio di fabbrica insieme alle due tastiere, ai testi, a questa andatura mediterranea fatta di sole e mare, lontana dalle nebbie longobarde o mitteleuropee: un modo di declinare le emozioni un po’ più luminoso, più viscerale. Il tutto unito ovviamente ai muscoli delle chitarre e dei sintetizzatori.
Ricordiamo anche il chitarrista Rodolfo Maltese naturalmente, che ci ha lasciato anche lui.
Certo, quando siamo sul palco, mandiamo sempre un saluto a Francesco e a Rodolfo, è come se fossero sempre al nostro fianco. Altri musicisti poi hanno lasciato il gruppo, ma sono stati fondamentali, come Pierluigi Calderoni, mio fratello Gianni Nocenzi… La nostra storia è stata fatta di bellissime persone, grandi amici e musicisti che hanno preso sulle spalle la responsabilità di un’eredità importante. L’hanno fatto con umiltà, con passione, oltre che con talento.
C’è qualcosa che apprezzi oggi della musica contemporanea?
Mi annoia tremendamente la trap, con quell’uso terribile dell’autotune. Una moda che per me ha messo al bando le idee, la creatività… Poi però così mi dite che sono vecchio! (ridiamo)
No, perché scommetto che invece c'è una band di oggi che ti piace: i Porcupine Tree!
Sì, certo! Condividiamo con loro anche la stessa casa discografica, la Inside Out. È un po’ la casa del progressive, ci siamo noi, i King Crimson, Jethro Tull, Gentle Giant, Dream Theater, e anche la band di Steven Wilson. È bello poter far parte di un giro internazionale, ci capitò anche quando pubblicammo dischi per la stessa etichetta di Emerson Lake & Palmer.
Siamo orgogliosi di aver sempre scelto di cantare in italiano, pur avendo molti fan all'estero. I testi erano belli così. E il miglior riconoscimento è arrivato proprio da una rivista inglese importante come Prog Uk
Del resto, avete sempre avuto molti fan all’estero…
Sì, certo. È capitato ad esempio che Prog Uk, il mensile per antonomasia del progressive in Inghilterra, abbia pubblicato una recensione di “Transiberiana”, che descriveva con toni entusiastici il nostro ultimo lavoro: “Il ritorno del Banco, i maestri italiani del prog trionfano anche grazie all’uso dell’italiano”. Sono rimasto basito a vedere che la Perfida Albione riconosceva che suonava meglio un prodotto italiano, cantato nella nostra lingua.
Anche quella del resto fu una bella intuizione del prog italiano dell’epoca: preservare il cantato nella nostra lingua.
Ma sì, chi l’ha detto che si debba per forza cantare in inglese per acquisire una dimensione internazionale? I testi erano belli così, poi si potevano inserire le traduzioni nei dischi. Mantenere la propria identità, la propria personalità, aggiunge valore a quello che facciamo. E poi vogliamo dire quanto suonerebbe male in inglese la traduzione di “Banco del Mutuo Soccorso”?
Banco del mutuo soccorso (Ricordi 1972) | |
Darwin! (Ricordi 1972) | |
Io sono nato libero (Ricordi 1973) | |
Garofano rosso (Ricordi 1976) | |
Come in un'ultima cena (Ricordi 1976) | |
Banco ...di terra (Ricordi 1977) | |
Canto di primavera (Ricordi 1979) | |
Capolinea (Ricordi 1979) | |
Urgentissimo (1980) | |
Buone notizie (1981) | |
Banco ...e via (1985) | |
Da qui messere si domina la valle (1991) | |
Il 13 (1994) | |
Nudo (1997) | |
Transiberiana (2019) | |
Orlando: le forme dell'amore (2022) |
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