Ofeliadorme

Pop-rock tra sogno e realtą

intervista di Fabio Guastalla

Con due soli dischi all'attivo - “All Harm Ends Here” del 2011 e “Bloodroot” del 2013 - i bolognesi Ofeliadorme si stagliano come una delle proposte più raffinate del panorama indipendente italiano: un sound perennemente a cavallo tra svariati generi (dream-pop, shoegaze, indie-rock sono solo i primi che ci vengono in mente) e in bilico tra destrutturazione e gusto per la melodia; liriche ricercate e messe in risalto dalla voce di Francesca Bono, a sua volta in equilibrio sul labile confine tra sogno e realtà. Un progetto affascinante, di cui si parla ormai sempre più spesso all'estero e ancora troppo poco in Italia. Di questo e di altro chiacchieriamo con Francesca, Michele Postpischl e Gianluca Modica che, insieme a Tato Izzia, formano gli Ofeliadorme.

Il nuovo album “Bloodroot parla di radici, e allora partiamo dalle vostre origini: come e quando è nato il progetto Ofeliadorme? E a livello musicale, quali sono le principali fonti di ispirazione?

Francesca: Abbiamo iniziato nel 2008, a Bologna, un bolognese (quasi) verace, Michele Postpischl, e tre bolognesi di adozione, io, Tato Izzia e Gianluca “g.Mod” Modica. Il nome è ispirato a una poesia di Rimbaud, e la nostra musica ha radici in fonti differenti: musica, cinema, letteratura, psicologia, le storie piccole ma grandi degli esseri umani.
 
“Bloodroot”, come accennavamo, non è un concept-album, tuttavia ruota attorno a un unico tema: quello delle radici. Una scelta ponderata oppure un impulso inconscio?
F: Entrambe le cose. Inconscia in fase di scrittura, ricorrente in fase di rifinitura, soprattutto laddove in alcuni testi ricorrevano certi temi. Indubbiamente, visto che sono l'autrice delle parole, a monte c'è anche una riflessione prima di tutto sulle mie radici. Su cosa significhi avere un posto nel mondo, e se questo posto è necessariamente un posto geografico in senso stretto. Il mio più grosso problema, dove proprio rimango con a bocca semiaperta e cerco una risposta che non arriva in mio soccorso, è quando mi chiedono di “dove sei?”.
In nessun modo mi è possibile dare una risposta univoca.
Michele: Entrambe le cose, l'idea ponderata è nata subito dopo aver realizzato i contenuti dei testi di alcuni brani che stavamo componendo. Da lì è stata fatta una scrematura per quelli che sarebbero poi entrati nel disco.
 
Un tratto distintivo del vostro fare musica sembra essere la manipolazione della struttura dei brani, spesso vista come un'opera di sottrazione: un lavoro già avviato nell'esordio “All Harm Ends Here” e ulteriormente affinato in “Bloodroot”. Come nascono le canzoni? E quale fondamentale caratteristica deve possedere ognuna di esse?
F: Ho notato negli anni che abbiamo tutti e quattro un tratto che ci accomuna, un'attenzione puntuale su quelle che sono le parti suonate da ognuno di noi. Ci ascoltiamo molto quando siamo in sala prove, non siamo quel tipo di musicisti che cercano prima di tutto la “gloria” in quanto singoli, suonare tanto a tutti i costi in ogni brano. Al contrario, ogni nota o colpo è dove secondo noi ha senso che sia. Se suoniamo e ci rendiamo conto che la storia del brano funziona meglio senza qualcosa, togliamo senza timore. Cerchiamo un equilibrio, non vogliamo entrare di prepotenza nella percezione di chi ci ascolta, piuttosto cerchiamo un'attenzione degna di nota, anche se questo a volte significa meno ascoltatori. Ma non ci importa molto, come non ci importa che alcuni non capiscano la scelta dell'inglese e il fatto che non siamo facilmente collocabili in questa o quell'altra definizione di sub-genere musicale. Siamo quelli che si accorgono dei dettagli più insignificanti. I brani hanno tutti una loro genesi e una loro storia. E un mood molto personale.
M: La caratteristica principale che cerchiamo in ogni brano è l'atmosfera, rilassata, cavalcante, ansiosa, eccetera. Questo è l'obiettivo finale. Di solito partiamo improvvisando, lasciandoci andare, su di una “struttura” più o meno definita per poi, come dici giustamente, cominciare a togliere, smussare e colorare per portare quella che era solo una sensazione primordiale a un'ambientazione nella quale possiamo viverla a pieno.
 
Al di là della continuità nell'approccio e nella formula musicale, altri elementi sembrano unire “All Harm Ends Here” e “Bloodroot”. Ad esempio, l'amore per eroi a loro modo tragici ma la cui figura, reale o inventata, è ancora vivissima nella nostra cultura musicale e letteraria: Ian Curtis nel primo lavoro, Ulisse nel secondo. A vostro giudizio, che cosa differenzia e che cosa invece unisce i due album di cui siete autori?
F: Ci sono tanti eroi, tanti anti-eori e tante persone comuni, che non significa meno interessanti, significa che nel loro piccolo fanno la Storia ma non se ne conserveranno memorie condivise. Nelle nostre canzoni capita di incontrarli tutti. Ian Curtis e Ulisse sono entrambi personaggi a loro modo molto tragici. E noi, in quanto italiani, siamo abbastanza drammatici in certi momenti. “All Harm Ends Here” e “Bloodroot” sono due fotografie scattate in tempi e in posti diversi della stessa persona. Ecco, mettiamola così. Hai presente quando già ti stranisci a vedere le foto di 10 anni fa? La sensazione è un po' quella per me, sai che sei tu, a volte ti piaci, a volte meno, ma è indubbio che molte cose sono cambiate. I dettagli costituiscono l'insieme della visione. Credo che possiamo dire a cuor leggero che abbiamo fatto un percorso notevole, e continuiamo a farlo. La ricerca non può mai finire.
M: Dire che ci sentiamo slegati dal primo disco è sbagliato, ma è anche vero che molti brani non li sentiamo più come una volta. Quello che accomuna i due lavori è l'approccio, dare un senso e un'uniformità a un progetto, quello che li differenzia è il fatto che prima Ofelia sognava e aspettava un mondo migliore, oggi ha capito che deve andarselo a prendere prima che gli venga portato via.
 
Sia in Italia che all'estero, puntualmente, il recensore di turno deve sudare le proverbiali sette camicie per trovare una definizione al vostro sound. A questo punto mi sento quasi obbligato a girarvi la frittata: come descrivereste gli Ofeliadorme in un'unica frase?
M: Problematici.
Gianluca: Due parole: ipnotici, eclettici.
F: Forse siamo troppo pigri per pensare a una formula interessante e catchy con cui riassumere la nostra musica. La verità è che non ci pensiamo proprio... ci sono tante influenze ma sono filtrate dal nostro sentire. Alcune probabilmente non si sentono per niente, ad esempio la mia passione per certo rap, tipo i Beastie Boys. O la passione per la lirica di g.Mod. Quel che ti posso dire è che ci hanno definiti in un sacco di modi, i seguenti, se ti viene in mente qualcosa per sintetizzarli facci sapere: new wave/neo-psichedelia/alt-pop/alt-rock/psych-folk/post-rock/shoegaze/dream-pop/indie/dark-folk/soft-rock/ecc.
 
Avete girato l'Italia e l'Europa, ricevendo anche due “chiamate” a dir poco prestigiose come quelle del SXSW 2012 e del Liverpool Sound City 2013. La sensazione è che a volte sia davvero molto più facile farsi apprezzare all'estero che nella nostra patria...
F: Nemo profeta in patria. E le logiche ormai completamente deragliate della discografia e di conseguenza di tutto quello che le ruota intorno. C'è comunque molta pigrizia, anche mentale nel nostro Paese.
M: Non so se vale per tutti, per noi pare di sì.
 
La scena bolognese, di cui fate parte, è da sempre una delle più attive d'Italia. Quanto è stato importante inserirsi in un contesto così stimolante? Con quali altri gruppi avete condiviso un certo percorso, oppure siete in particolari rapporti di amicizia e affinità reciproca?
M: Bologna è un gran bella città sotto questo punto di vista, conosciamo molte delle band che fanno base qui o nei dintorni. Forse per pecca nostra, o forse perché semplicemente non è mai stata cercata, a oggi non possiamo vantare di aver avuto moltissime condivisioni di palco. Abbiamo la sala prove in comune con Umberto Maria Giardini, nel disco hanno suonato alcuni musicisti facenti parte della “scena” (Vittoria Burattini dei Massimo Volume, Marcello Petruzzi-33ore, Bruno Germano-Settlefish, Angela Baraldi, Alberto Poloni-ohTheLadyStone) e, nonostante sia stato bellissimo condividere quei giorni non credo si possa parlare di condivisione di percorsi. Ci siamo sempre mossi da soli fino a ora.
F: Bologna ha una scena molto florida e molto molto sfaccettata, c'è un po' di tutto, e col tempo ci si conosce di vista un po' tutti. Qui c'è tanta storia della musica indipendente italiana, è molto stimolante. Attualmente con un folto gruppo di altri musicisti bolognesi ci stiamo incontrando periodicamente per scambiarci delle idee e cercare di creare qualcosa di più collaborativo tra di noi. E' troppo presto per parlarne accuratamente, ma potrebbe venire fuori una bella cosa.
Tra le band che fanno parte di questo progetto in progress ci sono oltre a noi: Suz, Decana, 33Ore, Una, Melampus, Anni Luce, ...A Toys Orchestra, Mimes Of Wine, Divanofobia, Montauk, Mariposa, Two Moons, The Crazy Crazy World of Mr Rubik, Walking Mountains, Cut eccetera.
G: E' vero, Bologna musicalmente è sempre stata molto attiva, ma è altrettanto vero, parlo della mia/nostra esperienza, che le difficoltà di inserimento sono state molteplici per una serie di ragioni all'inizio. Credo comunque, che negli ultimi tempi, come ti stava raccontando Francesca, l'ambiente si sia aperto, creando maggiore coesione tra le diverse realtà.
 
Il tour promozionale di “Bloodroot” è in pieno svolgimento, ma se poteste organizzare la data dei vostri sogni, insieme a chi vorreste esibirvi, e dove?
F: Attualmente mi piacerebbe fare un concerto con Daughter o se vogliamo proprio sognare, Nick Cave.
G: Un bel concerto in Val Di Susa, in sostegno della popolazione che da anni protesta e si batte contro chi ha deciso di devastare e inquinare il loro territorio.

Discografia

All Harm Ends Here (2011, A Buzz Supreme)7
Bloodroot (2013, The Prisoner)7
Secret Fires(2017, Ala Bianca / Warner)7
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Paranoid Park
(videoclip da All Harm Ends Here, 2011)

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