Introduzione
Durante i suoi primi anni di vita il nome risultava non essere abbastanza: "Primavera Sound" suonava come qualsiasi altro festival d'Europa, e nonostante la location fosse una delle più appetitose - Barcellona e il suo clima perfetto, nel pieno della sua fioritura giusto un attimo prima della bella e avvolgente estate - era comunque d'obbligo dare un'occhiata al programma e prendere la dovuta decisione. Adesso (a sedici anni dalla sua nascita) il Primavera Sound è divenuto un marchio di fabbrica che al solo pronunciarne il nome ci suggerisce piccole e luminose parole come "divertimento", "mare", "estate" e "bella musica".
Radiohead su tutti, Brian Wilson e il capolavoro "Pet Sounds" a cinquant'anni dal suo concepimento, PJ Harvey, James Murphy e i suoi potenti LCD Soundsystem, Kevin Parker e i suoi coloratissimi Tame Impala, i Sigur Ros e i loro incubi/sogni giganteschi sono stati i nomi più grandi di questa edizione storica che hanno collaborato all'inaspettato sold out dei circa 200.000 biglietti disponibili a quattro mesi dal suo inizio ufficiale, confermando ancora una volta quanto il Primavera Sound sia ormai un must per tutti gli amanti della musica "alternativa" in Europa, e perché no, del mondo intero.
Alberto Guijarro Rey e Pablo Soler (i due organizzatori del festival) sono riusciti a creare una macchina perfetta, oliata a meraviglia da un'organizzazione praticamente impeccabile che riesce ormai a far tutti contenti: un'ora prima per vedere il vostro gruppo preferito sarà sufficiente per portarvi a un metro dal palco, gli orari verranno sempre rispettati, se avete fame vi sazierete in qualche minuto e lo stesso vale se per caso aveste sete. Che volete di più?
Più di dieci palchi sparsi per il suggestivo Párc del Forum a mezz'ora dal centro della capitale catalana, facilissimo da raggiungere - quest'anno anche facilissimo da lasciare nelle prime ore del mattino - e godibile a tutte le età, il Primavera Sound con il suo costo complessivo di dodici milioni di euro innaffia e fa sbocciare senza mai affogare la bellissima Barcellona, che per l'occasione si trasforma nella capitale europea della buona musica.
Nell'analizzare il Primavera Sound è doveroso ricordare che in realtà l'intera città si colora di musica per circa una settimana - e non solo durante i tre giorni ufficiali del festival - spartendo i suoi quasi 250 gruppi non solo nella immensa zona del Párc del Forum, ma anche nel locale dove quasi vent'anni fa fu concepito il festival: la sempre verde Sala Apolo. Altra culla del pre e post festival è stata quest'anno la Sala Barts - altro locale/teatro nel centro città dalle discrete dimensioni - dove gli LCD Soundsystem hanno dato un concerto a sorpresa annunciato pochi giorni prima del festival, accessibile a soli circa 600 fortunati possessori dell'abbonamento completo, che hanno letteralmente polverizzato le entrate a circa tre minuti dal loro rilascio nel portale online del Primavera Sound.
Primo giorno
La prima impressione nell'entrare al Párc del Forum è quella di essere più vicini alle atmosfere esotiche e bizzarre di un Lollapalooza più che di uno Sziget, e questo è probabilmente dato dal fatto che una certa tipologia di musica - in questo caso la si continua a chiamare "alternativa" più come sinonimo di "non commerciale" che altro - porta una certa tipologia di pubblico. Il tartassamento visivo continuo da parte dei vari brand partner - come H&M, Heineken, Noisey e molti altri - fa sì che la moda e un certo gusto estetico (a volte traboccante e quasi stucchevole) contribuisca a dare al festival ancora più colore di quanto riesca a fare la mera musica e il meraviglioso ambiente. Quello che abbiamo visto, e che sicuramente vedrete ancora più marcatamente nelle prossime edizioni, è un corteo/sfilata di esuberanti costumi e personaggi unici ridicoli e graziosi, che vi strapperanno spesso e volentieri un sorriso e una sensazione generale di "festa" più che di "festival di musica", che in realtà non ci dispiace affatto (sensazione che gli spagnoli chiamano postureo).

Deliziati fin dalle prime ore
calienti del pomeriggio dalla delicata e avvolgente elettronica di
Dj Koze, passiamo il tempo senza grandi emozioni fino alla seducente
performance di
Daughter e alla sorpresa de
El Ultimo Vecino, gruppo molto amato nella penisola iberica.
Saziati da hamburger vegani a buon prezzo e dissetati da diverse birre artigianali dal sapore più che amaro e
luppoloso, vediamo il sole abbassarsi dietro i palazzi vagamente anni Ottanta che circondano la periferia di Barcellona e il Forum stesso, sinonimo del fatto che la prima vera importante
performance del festival sta per cominciare: quella degli
Air. Il duo francese porta a casa un pareggio, niente di più, niente di meno. Due signorotti invecchiati e un po' arrugginiti suonano per poco più di un'ora vecchie
hit del passato e nuove canzoni non troppo ispirate per circa un'ora e mezza; anche se, nonostante un basso apparentemente scordato, ascoltare "La femme d'argent" al tramonto sul mare non è certo una cosa che capita tutti i giorni.
Floating Points nel frattempo aspetta chino - con i suoi occhialetti da vista da neuroscienziato quale è - nell'altro e più piccolo scenario chiamato Ray Ban, dove dà vita a una
performance live spettacolare, dai toni mai troppo cupi e mai troppo vivaci, coinvolgendoti fino alla fine nel suo vortice fatto di un'elettronica suonata mai scontata.
Il guru dell'horror
John Carpenter ha invece sorpreso un po' tutti con il suo show
synthoso e a volte vagamente
rockeggiante nel Primavera Stage, creando un qualcosa che sta in mezzo tra la "sonorizzazione" di alcune sue storiche produzione in celluloide e un concerto vero e proprio.
Stanchi delle note cupe che gli ultimi due artisti hanno offerto, decidiamo di avvicinarci un'altra volta ai due palchi principali dove in uno (l'H&M, per essere precisi) stavano scaldando i motori i
Tame Impala e dove nell'altro (l'Heineken Stage) gli immortali
Explosions in the Sky danno pane e vino ai desiderosi di vero e crudo post-rock d'autore.
Quella dei
Tame Impala è la
performance di un gruppo in stato di grazia, impeccabile dal punto di vista tecnico, e sicuramente coinvolgente dal punto di vista emotivo. A differenza di quanto accaduto con gli
Air - esibitisi poco prima nello stesso palco - la percezione è quella di vedere un gruppo di amici che si
stradivertono insieme e che non hanno paura di niente. Esemplare il fatto che un black out clamoroso - una sorta di
coitus interruptus inaspettato - durante "Eventually" sia stato preso, rigirato e rielaborato da
Kevin Parker e dal suo pubblico di devoti in un vero e propio "tormentone", che durante tutto il festival è stato riproposto nei bagni, nel metro, e nei grovigli di gente che, annoiata, aspettava le
performance di altri gruppi.
James Murphy suona all'una e dieci del mattino con un volume imbarazzante, altissimo; con gusto muove con i suoi
LCD Soundsystem la folla immensa a lui davanti a suon di energico e rivitalizzante funky per quasi due ore. Personaggio coinvolgente, signorile e sicuramente indispensabile al
groove vagamente elettronico degli anni Zero.
Poco più tardi nei palchi più piccoli, dove gli occhi dei superstiti si fanno più rossi, le gambe più stanche, i piedi più gonfi e le mascelle più ballerine,
Neon Indian scimmiotta il defunto
Prince con una cover e intrattiene con una
performance vagamente interessante, ma che di certo dopo il Sig.
Murphy lascia un po' a desiderare senza mai appagare completamente.
I
Battles divertono come sempre e durante la mitica "Atlas" (suonata alla perfezione) il pubblico impazzisce al ritmo industriale dello storico brano capolavoro ai tempi del mitico
Matias Aguayo.
Hudson Mohawke chiude con classe e bravura inaspettata una giornata importante e discretamente
danzereccia, che nelle note di "Eventually" - cantata da qualche ex-ubriaco - si conclude nel tram (in funzione tutta la notte) illuminato dall'opaca e rigenerante luce del mattino del venerdì 3 giugno 2016 di una Barcellona splendida e perfettamente funzionante.
Secondo giornoSaltando a pie' pari molti dei concerti che il programma pomeridiano del Primavera Sound offriva, non posso non ammetter che per me (e sicuramente la maggioranza dei presenti) l'unico vero nome che rimbomba nella testa è quello della band di Oxford: i
Radiohead.
Arriviamo più o meno alle otto di sera. Appena superata la famosa scritta all'entrata del Forum, un amico commenta che molti audaci devoti stavano già aspettando
Thom Yorke e compagni da almeno le 4 del pomeriggio (si vocifera che furono più o meno 50.000 i presenti che davanti all'Heineken Stage godettero della storica e praticamente perfetta performance dei
Radiohead). Molte polemiche sono nate e cresciute intorno al volume volutamente basso che il gruppo ha deciso di adottare, e molte voci hanno confermato il fatto che sia stata una decisione presa da parte del quintetto e non una scelta obbligata dagli addetti ai lavori.
La scaletta deliziosa ed elegantemente arrangiata per l'occasione vede "Burn The Witch" aprire le danze, accompagnata da un boato del pubblico da far venire i brividi anche ai pochi disertori che in lontananza hanno deciso di boicottare il concerto/evento dell'anno. Dopo una prima mezz'ora volutamente soporifera dove molti dei brani del nuovo "
A Moon Shaped Pool" vengono suonati alla perfezione, il primo vero brivido arriva con la violenta e tagliente "The National Anthem" e con la successiva, bellissima, "Talk Show Host".
Un
Thom Yorke praticamente muto, che interagisce solo con un paio d'interventi di cortesia, fa il suo lavoro e poco più; il problema è che in questo caso il lavoro è comunque qualcosa di un livello difficilmente raggiungibile dalle altre band presenti al festival. A tutti coloro che vogliano ritenere e apostrofare il concerto con aggettivi quali "noioso", "triste", "morto" e "soporifero", vorrei ricordare che ormai vedere i
Radiohead dal vivo è diventato un po' come assistere a un evento di
Ennio Morricone: bisogna ascoltare, godere in silenzio e urlare se non si riesce a farne a meno. Sicché verso la parte finale del concerto - quando già avevamo abbandonato la massa di "sardine ammassate in una scatoletta schiacciata" chiamata "pubblico" - Thom e compagni hanno veramente deliziato le bocche più affamate con pezzi come "2+2=5", "Paranoid Android" e l'inaspettata - e inizialmente scartata dalla scaletta ufficiale - "Creep", riempiendo tutti d'un amore annichilente.
Quest'ultimo brano in realtà viene solamente intuito nei suoi primissimi accordi da noi e da tutti i presenti ad aspettare i
Last Shadow Puppets di
Alex Turner sul palco di fronte, a poche centinaia di metri, ma l'esperienza risulta quasi migliore: il suono di quei quattro accordi e il lamento generazionale di
Thom Yorke arriva così basso che tutti (e dico tutti) sembrano sentire il bisogno d'iniziare
in primis a sussurrarlo, e poi a gridarlo con tutta la capacità vocale che madre natura ha dato loro, stringendo tutti i presenti in un possente abbraccio canoro senza etnie, senza gusti e senza pregiudizi, regalandoci forse l'emozione più forte dell'intero festival.
Poco ci importa di aver perso gli spettacoli (probabilmente vuoti) e desolati che hanno offerto band di tutto rispetto come i
Tortoise, i
Royal Headache, gli
Shellac, gli
Animal Collective e i
Dinosaur Jr, più che convinti che il
place to be fosse proprio lì, accanto ai
Radiohead.
Poco più tardi
Alex Turner, in perfetto orario, si presenta sul palco accompagnato da una scarsa ma efficace piccola orchestra formata da quattro donzelle agli archi, il suo fedele compagno
Miles Kane, e ovviamente l'intera band, piazzati davanti a un telo dove alberga la scritta "The Last Shadow Puppets".
La mente degli
Arctic Monkeys salta e scivola per tutto il palco e per tutta la durata del concerto come se fosse un ibrido tra
Iggy Pop,
Mick Jagger e
Freddie Mercury, e superato l'astio e l'antipatia che potrebbe suscitare nei suoi primi spasmi teatrali da androgino, lo si comincia ad amare, dato che tecnicamente e vocalmente non è possibile rimproverargli praticamente niente. Il suono sveglia i presenti dal torpore emotivo e nostalgico in cui i
Radiohead ci avevano portato delicatamente per mano, e il suono grosso, potente e scintillante del duo inglese fa il suo dovere, eccitando e scatenando i presenti in una grande orgia musicale, che tocca il suo apice in un incontro/scontro di sguardi tra i due leader al limite del teatrale, che si trasforma nel suo finire in un boato entusiasta del pubblico. Doveroso sottolineare la bellissima (ed eseguita alla perfezione) cover dei
Beatles "I Want You (She's So Heavy)", calorosamente accolta dall'eccitato pubblico presente.
Alex e
Miles se ne vanno, e l'idea è quella di aver visto uno dei fenomeni del nostro tempo, in continua crescita, e con un talento innegabile.
Come se fossimo la pallina di un enorme campo da tennis dove i giocatori a contenderci fossero gruppi come
Radiohead e
Last Shadow Puppets, arriva il momento di voltarsi ancora una volta e dirigersi verso il palco poco prima accarezzato da
Thom Yorke, per vedere i
Beach House alle prese con un pubblico forse troppo grande per le loro intime melodie da camera.
Nessun pensiero o presentimento si è rivelato più sbagliato: il gruppo di Victoria Legrand e Alex Scally rielabora il suo repertorio in maniera brillante e senza mai sembrare forzato allunga, smonta, ritaglia e mescola molti dei vecchi e nuovi brani, dando al tutto un tocco molto più
shoegaze e
chitarroso del normale, che finisce con lo stendere sulle teste del pubblico presente un enorme tappeto fibroso e vibrante di buoni sentimenti e speranze strazianti, in un'euforia generale niente male.
Ormai è notte fonda, le scarpe che indossiamo si sono tinte di
beige per colpa della tempesta di sabbia che sale e scende a ogni movimento. Gruppetti di persone smaltiscono la sbornia (altri l'accusano pesantemente) e molti
ballicchiano qualsiasi cosa dia la possibilità di essere ballata, tra un concerto e l'altro, in un ambiente che nonostante l'ora non porta con sé alcun tipo di preoccupazione o dramma. La notte sembra essere ancora giovane per chi non ha ancora sonno.
Accompagnati da una una calorosissima accoglienza è la volta di godersi l'ultima parte del concerto degli australiani
Avalanches, gruppo culto che se ne uscì nel lontano 2000 con un disco ritenuto da molti un vero e proprio capolavoro intitolato "Since I Left You", che leggenda vuole sia stato realizzato dalla elaborazione di più di 3.500
sample presi da svariati vinili. Le vibrazioni sono positive, il pubblico risponde, il
beat rimane lì ed è piacevole, si fa ancora più notte e c'è bisogno di muoversi di più per riuscire a reggere la stanchezza; c'è bisogno (in sostanza) di
Maceo Plex.
L'americano - che a suo tempo si fece le ossa nella mitica Ibiza dello Space e dell'Amnesia - sa come tenere il pubblico sveglio e di fatto ci riesce: con i suoi pezzi più delicatamente house indirizzati verso una conclusione quasi sempre molto più violenta e ammiccante alla techno,
Maceo Plex ci manda a dormire alle prime ore dell'alba, sereni e appagati.
Terzo giorno
Le forze sono poche, si commentano i ricordi tra colleghi e inizia a prendere sempre più campo l'idea che in realtà sia già tutto finito. La presenza dei
Sigur Ros non scalda più di tanto perché più o meno ci è dato sapere ciò che offriranno, il trio tedesco
Moderat ci fa sperare - nonostante l'ultimo deludente e poco ispirato album, e nonostante non sia più una "novità da scoprire" - e
PJ Harvey divide, mentre all'improvviso torna alla mente il perché questa edizione del Primavera Sound la si possa davvero chiamare storica: c'è
Brian Wilson con i suoi
Beach Boys (o almeno, quello che ne rimane) e pensandoci un attimo, in quanti dei vostri amici possono dire di aver visto i
Beach Boys dal vivo? Non molti, ne sono convinto.
Il palco Heineken tirato a lucido si prepara per accogliere la storica formazione californiana, e un pubblico molto più che variegato attende con un sorriso a mille denti stampato in volto l'arrivo del suo leader che di fatto (alle 8 in punto) si presenta sul palco tra un boato caloroso dei presenti accompagnato sotto braccio, verso il piano che gli servirà da strumento e appoggio per tutta la durata del concerto, dovuto a quei settantatré anni che si fanno inevitabilmente sentire.
Le tragiche vicende private di Brian Wilson e l'affetto verso le sue composizioni alimentano e caricano la
performance di un'aria nostalgica e vibrante non indifferente, e ogni guizzo vocale accennato (e spesso fallito) da parte della leggenda vivente originaria di Inglewood finisce col suscitare la stessa emozione di un piccolo cucciolo alle prese con i suoi primi passi. Il volume non è mai abbastanza alto, ma la band presente - composta da quei colossi della musica che furono Al Jardine e Blondie Chaplin - regala comunque emozioni e uno show praticamente impeccabile dal punto di vista sonoro. Di fatto (a esser pienamente sinceri) i pezzi in cui
Brian si astiene dal cantare risultano quelli migliori "musicalmente parlando", mentre brani come "Caroline, No" e "God Only Knows" non sarebbero stati gli stessi se non fossero stati cantanti dal loro ideatore. Lo sporco lavoro del
falsettista Matt Jardine (figlio di Al) viene portato a termine con eccellenza, e lo si perdona dopo pochi minuti per il difficile incarico di sostituire quella voce acuta, pungente e delicata al tempo stesso, che l'età dei presenti non permette ormai da decenni, e quello che appare è spesso e volentieri un botta e risposta tra lui e Brian, a volte impeccabile e tempisticamente perfetto, altre un po' meno.
Al termine dell'emozionantissima ora dedicata a "Pet Sounds", in molti sanno che non è finita lì, e che per un uomo/artista di quella età, chiuso nella prigione dell'anonimato per troppi anni, la voglia di suonare altri pezzi storici della band è sicuramente molto più alta di quella di aver fatto il proprio lavoro e andarsene a casa. Di fatto, il primo pezzo ad aprire le danze a quello che si convertirà in una festa
hawaiana a tutti gli effetti - e molto più autentica di tutte quelle che possiate vedere nella vostra vita - che inizia con la meravigliosa "Good Vibrations" e procede con "I Get Around", "Surfin' Usa", "Good Vibrations" e molte altre.
Un aspetto meraviglioso del concerto è stato vedere come
Brian fosse in realtà il più contento ed emozionato di tutti, lanciandosi tra una canzone e l'altra in commenti da ragazzino eccitato tipo "e questa è stata l'ultima canzone, ma della prima parte, adesso ne facciamo un'altra che tra l'altro ha un testo bellissimo!" e così via, strappando al pubblico sorrisi e applausi colmi d'amore e rispetto per colui che in realtà ci ha dato molto di più di quello che possiate pensare. Conclusa con un inchino in vecchio stile da parte di tutta la band presente, si conclude la
performance dei
Beach Boys con una sola certezza: è stato bellissimo e non succederà mai più.
Da quel momento in poi sarà tutto in discesa, sebbene da
PJ Harvey ci sia comunque sempre da imparare. L'inglese ormai quasi cinquantenne delizia i presenti nelle prime ore notturne con un rock inimitabile, e proponendo il suo ultimo interessantissimo album, "
The Hope Six Demolition Project", quasi per intero, con il supporto di una grandissima band vestita per l'occasione di un violento color nero - e capitanata dal veterano
Mick Harvey, ex-
Bad Seeds - che lascia tutti contenti, attoniti, straniti e storditi, ammaliando ancora una volta i suoi fedeli.
A
Moderat il pesante compito di regalare ai presenti l'ultima vera
performance nella zona dei palchi che contano, e potremmo dire che ci sia riuscito a metà. Per coloro che già abbiano goduto di un loro show non c'è stata alcuna novità, e di fatto la formula resta la stessa: attesa, attesa, voce di
Sascha Ring per fare tutti contenti e per vendere un po' più copie, e poi via al basso pesantissimo che spacca le costole come se fosse un carro armato dritto nella vostra gabbia toracica.
I pezzi nuovi lasciano molto a desiderare, mentre i vecchi successi - come "A New Error" o "Rusty Nails" - continuano a disintegrare tutto, come se un luminoso tsunami in cassa rigorosamente a quarti arrivasse per resettare tutto ciò che avete visto fino a quel momento. A fine concerto ci si allontana spettinati, impolverati più di prima, storditi a livello visivo e contenti di aver visto ciò che ci si aspettava dal trio berlinese.
Sono ormai le 4 del mattino e vergognosamente (dopo tre giorni di festival) scopriamo che un nuovo palco dalle sembianze di una piccola isola, di una sorta di festival nel festival, un qualcosa simile a una piccola oasi elettronica felice - con tanto di bar, zona ristorante e spiaggetta - vibra e offre un'alternativa più che interessante ai classici e grandi palchi storici del Primavera Sound.
A far
ballicchiare durante le ultime ore del festival nel rinominato "Beach Club" c'è
John Talabot, che riesce a fare il suo lavoro, dando la solita solfa ai catalani fieri del loro figliol prodigo, e offrendo ai turisti una buona e interessante variante al solito e sempreverde
trash Dj Coco che chiude da sempre ogni edizione del Primavera Sound spazzando via dalle orecchie dei superstiti tutto il gusto e l'originalità di cui questi ultimi possano aver goduto durante tutto il periodo del festival.
Dj Coco è
trash e si permette qualsiasi tipo di libertà, e questo può rivelarsi un bene e un male allo stesso tempo. Se
Neon Indian ha trovato il coraggio di omaggiare il rimpianto
Prince con un'interessante realizzazione di "Pop Life", il dj spagnolo è riuscito a struggere i presenti regalando al pubblico superstite - improvvisamente rinato e armato di occhiali da sole del pomeriggio prima - una strappalacrime “Heroes" dell'immortale
David Bowie, chiudendo la sedicesima edizione di questo meraviglioso festival con le note giuste, e la giusta emozione: la nostalgia.

"Nostalgia" è stato il sostantivo predominante di questo festival, che ha saputo offrire interessanti nuove proposte e meravigliose vecchie conferme, che hanno inevitabilmente spostato l'ago della bilancia a favore di queste ultime, rendendolo la vera e propria arteria principale dell'intero Primavera Sound.
Thom Yorke e
Brian Wilson,
PJ Harvey e
James Murphy ci hanno regalato una gran festa, che con le note di
David Bowie in sottofondo, ci lascia abbandonare il meraviglioso Párc del Forum nelle prime ore del mattino di una non qualsiasi domenica 5 giugno 2016.
Arrivati al tram
zigzagando tra gli efficientissimi addetti ai lavori, troviamo un giovincello in occhiali da sole che, al chiudersi delle porte, canta il ritornello di "Eventually" e subito viene seguito in coro da tutti gli altri presenti, all'improvviso nuovamente posseduti da una vivace e squillante energia mattutina, che solo una grande notte può darti. La riprova che la musica dà vita e il Primavera Sound ti rende immortale.