"L'arte non è uno specchio, è un martello", sentenziavano perentoriamente gli Henry Cow citando il pioniere del documentario britannico John Grierson (il quale, a sua volta, aveva mutuato l'aforisma da un verso di Majakovskij): un motto lukacsiano che i Gang Of Four hanno fatto proprio sin dagli esordi, pur declinandolo in un'ottica più intellettuale che populista. Ahinoi, la band di Leeds ha finito con l'incarnare il più prevedibile dei percorsi militanti, riassunto da un'altra abusata massima quale "si nasce piromani e si muore pompieri": degli incendiari avanguardisti sulle barricate dei primi anni oggi rimane poco più che un'insulsa band di sessionmen con un solo membro originale (l'instancabile chitarrista Andy Gill) che, per mere esigenze di portafoglio, si affanna a tenere il passo con i peggiori epigoni che ha ispirato. A conti fatti, pochi casi di "svendita" sono stati così dolorosi nella storia del rock. E se i toni corrosivi dell'ultimissimo Ep "Complicit" rimandano a un immaginario genuinamente punk che non possiamo non accogliere (specie in questi tempi di disimpegno generalizzato), l'incommensurabile piattezza dei contenuti è qualcosa che anche il fan più indulgente fatica a perdonare. Una volta di più, rimaniamo convinti che la loro fama sarà per sempre giustificata solo da quel formidabile "Entertainment!" che, nel lontano 1979, impose un nuovo paradigma di crossover, tornato con prepotenza in auge grazie al revival wave degli ultimi 15 anni (per ironia della sorte, propagandato da band non solo apolitiche ma anche spudoratamente commerciali). Eppure, il concerto di questa sera mi darà da pensare, al punto da domandarmi se, in realtà, non abbiano ragione loro...
Tornare a Roma, città in cui vissuto un quarto della mia esistenza tra alterne fortune, è un trauma emotivo che passa in secondo piano solo di fronte ai ben più drammatici disagi logistici che affliggono la Capitale, a cui mi ero decisamente disabituato. Ciononostante, riesco ad arrivare al Traffic con abbondante anticipo, complici anche gli orari non esattamente svizzeri che caratterizzano i locali cittadini. Sono consapevole del fatto che il gruppo che sto per ascoltare NON siano i Gang Of Four che ho tanto amato (anzi, che non siano proprio i Gang Of Four, mancando all’appello tre membri su quattro: motivo che finora mi ha tenuto lontano dai tour precedenti), ma anziché dissuadermi ciò mi rende più impaziente: sono proprio curioso di vedere cosa combineranno. Dopo un dj set chillwave tanto godibile quanto fuori contesto, salgono sul palco gli Headtohead, duo indigeno generatosi da una costola de I Cani, fautori di un synth-pop turgido e tetragono tra algidi vocoder e implacabili drum machine, che di volta in volta si presta a ombrosità darkwave, ammiccamenti new romantic o martellanti sventagliate techno, senza mai lasciare davvero il segno. Il palco viene poi riorganizzato dal roadie degli inglesi, sorta di androgino factotum dal taglio mod, a dir poco solerte nel suo lavoro. Poco dopo la sala piomba nel buio, l'impianto diffonde un destabilizzante impasto di rumore bianco e interferenze, e con un ritardo di un'ora abbondante sulla tabella di marcia i nostri eroi si palesano sul palco ancora avvolto dall’oscurità.
Ad aprire il comizio è inevitabilmente il padrone di casa Gill che, impugnata una chitarraccia di sottomarca, ne tira fuori un lungo, lancinante feedback che prelude a una "Anthrax" tesa come un elastico, classico del primo repertorio ideale per rabbonire i fan di vecchia data. Il veterano (che, come nell'originale, contribuisce anche con uno spoken word sovrapposto al cantato principale, creando un sfasamento quasi warholiano) è affiancato da Thomas McNeice al basso (che pare uscito dai Bad Brains), Tobias Humble alla batteria (che pare uscito dai Weezer) e John "Gaoler" Sterry alla voce (che pare uscito dai Jesus And Mary Chain), tutti giovanissimi e ruspanti. A fine brano, la suddetta chitarra finirà scaraventata a terra con nonchalance: sarà l'unico gesto "violento" di un compassato sessantenne british che, per gran parte della serata, non si scomporrà di mezzo millimetro. Segue a stretto giro "Not Great Men", altra pepita dal primo capolavoro di cui vengono accentuate le nervature dance, con Gill a grattuggiare la Stratocaster che nel frattempo gli è stata portata e l'intera banda a contribuire ai cori. In questi primi brani si manifesta subito il dinamismo ipercinetico dei ragazzacci, che per tutta l'esibizione giocheranno a scambiarsi di posto e a muoversi in maniera nevrotica (spesso travolgendo l'attrezzatura e in particolare i microfoni, con somma disperazione di un sempre più stremato fonico da palco).
La melensa "I Parade Myself", dal canto suo, brutta era su disco e brutta rimane dal vivo, nonostante il muscolare dopaggio della sezione ritmica e un energico Sterry a darci dentro con le maracas. Ben venga allora "What We All Want", tratta dal secondo album "Solid Gold" (1981), ricca di vibrazioni dub-funk da far invidia ai vecchi colleghi A Certain Ratio; peccato che poco dopo si torni sul repertorio più recente con la deplorevole "Isle Of Dogs", degna degli U2 più tamarri, tra un'insopportabile batteria elettronica e un cantato quasi emo che mette a dura prova i nervi della vecchia guardia più ortodossa, specie nel parodistico finale a cappella.
Sarà captando questi umori che decidono di giocarsi l'asso sganciando proprio adesso una strategica, provvidenziale "Damaged Goods", la canzone con cui più vengono identificati (anche se non necessariamente la migliore), con quella chitarrina affilata che ha fatto la fortuna di centinaia di imitatori e un ritmo così incalzante che è impossibile rimanere impalati. Il momento è propizio per farsi perdonare dalle tante (troppe) porcate che ci hanno inflitto negli ultimi anni, rincarando la dose con delle altrettanto gradite "Natural's Not In It" e "At Home He's A Tourist", inframezzate da una "I Love A Man In A Uniform" in una resa quasi post-hardcore, con lo sbarbatello a mimare teneramente il gesto della P38.
"Why Theory?", con la fragile melodica di Sterry scartavetrata dalle scalpellate di Gill, chiude trionfalmente questa carrellata sul repertorio meritevole di essere ascoltato, purtroppo subito imbrattato dall'orrenda "Lucky", tratta dall'ultimo prescindibilissimo lavoro. Il funky scimmiesco di "To Hell With Poverty", con il suo tonico stantuffo di basso, è un degno compromesso per siglare l'uscita di scena.
Dopo l'attesa più breve della storia dei bis, i quattro ricompaiono insieme a un forno a microonde che Sterry, in un atto di iconoclastia anti-consumista, si divertirà a fare a pezzi prima con un asse di legno e poi con un manico di chitarra, sulle note tremolanti dell'ultimo singolo "Ivanka" (dedica avvelenata alla signorina Trump, ritratta anche nella copertina di "Complicit", con non disprezzabili tinte gospel-soul), prima di affidare il congedo definitivo a una "He'd Send In The Army" piacevolmente spigolosa.
Sento che mi frullano in testa parecchie idee contrastanti: cerco di razionalizzarle e ordinarle. La prima cosa a cui penso è che, senza ombra di dubbio, mi sono divertito: al netto dell'impietoso confronto tra il vecchio e il nuovo repertorio, il concerto è stato godibile e coinvolgente dall'inizio alla fine, grazie a esecuzioni tirate quanto basta e a volumi pompati il giusto. Questo mi porta subito a una seconda considerazione: superato lo scoglio iniziale nel vedere dei ragazzi suonare canzoni scritte quando non erano nemmeno nati, coinvolgere dei musicisti giovani si è rivelata una buona intuizione, sia perché hanno garantito una freschezza d'impatto invidiabile, sia perché in qualche modo hanno restituito la sensazione che potrebbe aver provato uno spettatore dell'epoca; tenendo presente, inoltre, che il marchio di fabbrica dei GoF risiede da sempre nella chitarra anziché nella voce (peraltro assai poco intelligibile all'interno di un mix piuttosto confuso e sbilanciato), l'onestà dell'operazione mi sembra inattaccabile.
Nel frattempo ripenso ad Andy e al suo atteggiamento sul palco: impassibile come se ciò che gli accadeva intorno non lo riguardasse, in alcuni momenti pareva mettersi in posa e invitare il pubblico a fotografarlo, quasi offrendosi in sacrificio e ribaltando così la tesi dei Pil sulla legittima proprietà della propria immagine pubblica; e qui l'illuminazione, invero neanche così folgorante: Andy è un punk old school, del tutto cosciente della natura mercificata e mercificante della sua arte, e non solo non si fa nessun problema a vendersi/svendersi ma ne trae un perverso godimento. Lungi dal risultare disfattista, il senso del suo discorso non fa una grinza: se non c'è verso di scalfire il Sistema e il pubblico non merita assolutamente niente, tanto vale stare al gioco, accettandone le regole anche più deteriori ma portandone alla luce le innumerevoli contraddizioni per gli occhi che vorranno coglierle. Anche nella distruzione della chitarra e del forno, a guardar bene, si avverte più puerilità che nichilismo: fa tutto parte dello stesso circo un po' pacchiano, e va inquadrata nella stessa consapevole superficialità. In fondo, il loro scopo dichiarato non è sempre stato "intrattenerci"?. I fessi, tanto per cambiare, siamo noi "militanti" che ancora non ci eravamo arrivati. Malcolm McLaren, che dall'altra dimensione ci tiene sempre d’occhio, sta applaudendo di gusto.
All'uscita, in attesa di un notturno compassionevole, mi assale un dubbio inatteso: non sarà che un po' mi mancano la dimensione metropolitana e i suoi ritmi frenetici come la musica che ho appena ascoltato? Perplessità che verrà brutalmente cancellata quando, dopo circa tre quarti d'ora, un carro merci fatiscente guidato da pirata della strada si degnerà di prelevarmi... Arrivato rocambolescamente a casa del mio ospite, mi metto a letto con due certezze: 1. continuerò ad ascoltare i Gang Of Four 2. non tornerò mai più a Roma.
Anthrax
Not Great Men
I Parade Myself
What We All Want
Isle Of Dogs
Damaged Goods
Natural's Not In It
I Love A Man In A Uniform
At Home He's A Tourist
Why Theory?
Lucky
To Hell With Poverty
Encore
Ivanka
He'd Send In The Army