
Io confesso. Chi scrive, fino all’ultimo, è stato indeciso se presenziare al party dei Massive Attack, indaffarati a festeggiare il ventennale di quel miracolo a 33 giri che è "Mezzanine", cioè uno di quei capolavori che meritano l’appellativo di disco della nostra vita.
In primis, pesava la consapevolezza che quasi sempre i grandi tour celebrativi che comprimono lo spazio temporale e fanno leva sui ricordi, stringi stringi, mirano a uno scopo molto meno nobile, anzi dannatamente materiale, e cioè assicurarsi una ricca buonuscita in vista di una imminente scomparsa dai radar causa "non abbiamo più molto da dire".
E pure il timore di rovinare il ricordo di un concerto, quello del Palasharp nel novembre 2009, devastante e potente come una scossa tellurica, due ore angeliche e demoniache insieme che ti cullavano per poi sballottarti all’improvviso e senza pietà come una tempesta di suoni, in un mix estatico di emozioni viscerali. Impossibile dimenticare poi le immagini terribili di Stefano Cucchi e la richiesta di verità, i moniti e i messaggi in loop come parte integrante di uno show definitivo.
Non si esce vivi dagli anni 90
D’altra parte, Robert Del Naja sa benissimo che la leggendaria trilogia con cui ha marchiato a fuoco l’intera decade gli ha garantito la totale immunità artistica per i secoli a venire, che tradotto in soldoni significa la possibilità di fare e disfare a suo piacimento, senza mai doversi presentare davanti al plotone di esecuzione di critica, media e fan.
E allora, nel nostro piccolo, qualche domandina gliela poniamo noi. Anticipando già le risposte.
La band non pubblica niente di nuovo da una decina d’anni – se togliamo una fuitina con Burial e un Ep senza grandi pretese - e lo stesso "Heligoland" era disco carino ma assai di maniera e ben poco incisivo rispetto ai capolavori precedenti? Ok, non c’è problema, i Massive Attack dal vivo sono sempre e comunque un'esperienza da vivere. Un trip lisergico, una panacea per l'anima. E ci sta.
Facciamo umilmente notare che sarebbe anche il quarto tour consecutivo che il combo bristoliano si appalesa dalle nostre parti senza inserire praticamente in setlist lo straccio di un nuovo brano se togliamo un paio dall'ep Ritual Spirit di cui sopra? Idem come sopra, loro si amano a prescindere e non si discutono, è cosa buona e giusta partecipare alla messa. E ci sta un po' meno.
Vogliamo poi discutere sul fatto che appena un paio di anni fa i loro concerti italiani durarono la miseria di un’ora soltanto, durata inversamente proporzionale al costo del biglietto? Massi' dai, è acqua passata, non pensiamoci più, vedrai che a ‘sto giro si arriverà a un’ora e mezza. E qui iniziamo a non starci più.
Eppure si affitta il Forum, 12mila biglietti venduti in prevendita e una attesa spasmodica per quella che viene annunciata come la festa definitiva degli anni Novanta, più cool e più internazionale rispetto a quella italica che Manuel Agnelli aveva apparecchiato per la decade precedente. E, visto che di celebrazione si tratta, nel bene e nel male l’organizzazione ha fatto le cose in grande, sparando dagli altoparlanti una selezione pop che all’epoca veniva definito trash (vero Duran Duran?) se non addirittura lercio, da dare in pasto a chi ha avuto la malsana idea di presentarsi in anticipo. Una compilation raggelante eppure con una sua intima dignità, visto che con quello che si ascolta oggi in radio gli Aqua – sissignori, gli Aqua di "Barbie Girl", proprio quelli - sembrano quasi dei pionieri innovatori.
E quindi ridiamo con Britney, che peraltro ritorna anche in video durante lo show, canticchiamo "Believe" di Cher maledicendo il fatto che è da qui che l’autotune ha preso il volo, fischiettiamo "Angel" di Robbie Williams e facciamo pure qualche timida mossetta sulle note di "Never Ever" delle All Saints che pure rispetto al resto è già tanta roba.
Ma la giostra dei ricordi non concede tregua, e si insinua in modo palese nei visuals alle spalle della band, rimandandoci immagini di personaggi inquietanti e all’apice della loro esistenza, tra cui un Saddam in versione “lasciate che i pargoli vengano a me", saldo in sella e ancora ben lontano dal penzolare dalla forca, e Blair sorridente, nuova icona totale della sinistra liberal europea, poi sostituito nei cuori progressisti da Bambi Zapatero. Immancabili le immagini sanguinose del Medio Oriente che potrebbero appartenere alla guerra del Golfo, all'invasione dell'Iraq o alla distruzione della Siria, perché in fondo da quelle parti negli ultimi 30 anni non è cambiato niente.
I personaggi
I Massive Attack del 2019 ruotano intorno alla figura quasi mistica di 3D, moniker di Del Naja. E’ lui il deus ex machina che ha saldamente in mano le redini del progetto. Onnipresente sul palco, si alterna tra voce, synth centrale a fianco al vocalist di turno e programming, apparentemente immutabile negli anni, con quella fascia al braccio a simboleggiarne il ruolo di capitano. Una sorta di direttore d’orchestra che detta tempi e ritmi, anche quando fa un passo indietro e si confonde nelle retrovie circondato dalle macchine. I video non inquadrano mai i musicisti sul palco, le luci scure e la mancanza di qualsivoglia comunicazione/interazione col pubblico contribuiscono a creare un alone di leggenda che circonda il leader maximo.
Daddy G (al secolo Grant Marshall) è ormai assurto allo status di ologramma. Non si sa se veramente sia lui o un sosia, fatto sta che on stage la sua presenza “caracollante adagio” viene rilevata soltanto in un paio di brani.
Gira e rigira, la presenza che scalda i cuori, persino commovente per la gioia che sprizza per il solo fatto di esserci, è quella del vecchio Horace Andy. Chi conosce a fondo lo storytelling sa che, seppure non ufficialmente membro della band, il cantante giamaicano di roots reggae è sempre stato una presenza fissa e il primo dei collaboratori. Qui presta l'ugola al servizio di "Angel", "Man Next Door" e gli viene concesso anche l’onore di cantare un suo pezzo del 1969, "See A Man’s Face", che poi è anche uno dei momenti più spensierati e meno claustrofobici della serata. Quando si avvicenda con Elizabeth Fraser in quella sorta di porta girevole che è il palco, mimando al rallentatore il moonwalk di jacksoniana memoria, sono gioie belle. Monumentale. Icona insostituibile. Certezza. Mito. Fa parte del Dna dei Massive Attack.
E poi c’è Lei, Elizabeth Fraser, musa del canto e regina senza tempo del dream-pop, che poi è anche il motivo principale che alla fine ha spinto il sottoscritto, e credo pure qualche migliaia di persone, a presenziare alla festa. Per chi non ha potuto, per motivi anagrafici o geografici, godersela con i Cocteau Twins, l’occasione è irripetibile, perché ascoltare in presa diretta "Teardrop" con la sua voce fa parte di quegli obiettivi che uno deve porsi nella vita. Parliamo di una canzone, con relativo video, simbolo di quel decennio, che già da sola vale una intera discografia, e sebbene nel corso degli anni fior di vocalist si siano avvicendate nei vari tour, nulla e nessuna poteva mai raggiungere l’eterea dolcezza e l’intensità emotiva che scaturisce dalla sua interpretazione (non ce ne voglia la brava Martina Topley-Bird, artista a tutto tondo). Canta nell’oscurità del palco senza video alle spalle che possano distogliere l’attenzione, accompagnata dai colpi lenti e profondi scanditi dalla ritmica elettronica, illuminata insieme a 3D soltanto da fasci di luce bianca.
Le canzoni che ci sono (e quello che manca all’appello)
Mi sono sempre chiesto, ascoltando i Massive Attack, come sia possibile riprodurre dal vivo la stessa magia che emana dai loro dischi, e quindi i suoni clamorosi e mai sentiti prima, gli arrangiamenti sempre innovativi e mai banali, i ritmi che hanno influenzato intere generazioni di musicisti, frutto di un lavoro di produzione incredibile. In realtà, tra tutte le band di livello mondiale che fanno largo uso di tecnologia, i bristoliani sono gli unici che on stage suonano davvero. Doppio set di batteria (di cui uno provvisto di drum programming e pad electro), due chitarristi e bassista fanno sì che le canzoni vengano performate, e non ci si riduca a pigiare su due tasti o a smanettare col Mac. E così anche un disco difficile e tecnologicamente complesso come "Mezzanine" viene riproposto senza perdere nessuno dei tratti caratteristici che lo rendono unico.
Ed è un peccato che per i primi 5/6 pezzi i volumi siano ai minimi termini, perché un gioiello come "Risingson" senza quella bassline che deflagra ai massimi livelli fonici, che ti percuote e fa vibrare corpo e pavimento, viene derubricata quasi a brano di atmosfera e perde gran parte del suo fascino.
Fortunatamente in zona mixer ci mettono una pezza, tutto torna nei binari giusti e il finale ci regala la cavalcata trionfale di "Group Four", in cui finalmente il suono che ha fatto scuola si sprigiona in tutta la sua potenza devastante, inondando il Forum di scosse elettriche che si spandono fino ai piani alti, come onde di un sonar.
Potrebbe sembrare curioso, per chi non conosce la genesi di "Mezzanine", ritrovare in setlist ben cinque cover. Ma non si tratta di brani scelti a caso o semplicemente perché apprezzati, è musica ascoltata a ripetizione nella fase di pianificazione del disco, e da cui sono stati estratti diversi sample. Ovviamente questo ha influito pesantemente sul mood dell’opera, oltre a sancire il doloroso divorzio da Mushroom, al culmine di tensioni e diversità di vedute in merito al nuovo corso più electro e darkeggiante.
Ecco quindi una bella rinfrescata di new wave a tinte dark e post-punk fornita dai Cure di "10:15 Saturday Night" (campionati in "Man Next Door"), dai Bauhaus col manifesto "Bela Lugosi’s Dead", dal Foxx ultravoxiano più nervoso e distorsivo di "Rockwrok", insieme a una melodica "I Found A Reason" dei Velvet Underground che apre lo show, e da cui derivano i sample utilizzati per "Risingson". E ancora "Where Have All The Flowers Gone?" di Pete Seeger, con la Fraser ai vocals, anche questa oggetto di campionamento.
A sorpresa, tutti i brani succitati non sono destrutturati, dilatati, allungati o rallentati fate un po' voi, come ci si aspetterebbe in ambito trip-hop, o magari riarrangiati in chiave dub, ma vengono riproposti abbastanza fedelmente all’originale, arricchiti solo di un sottofondo elettronico e quindi all’apparenza più potenti. Nulla di trascendentale o di mai sentito, sia chiaro, ma che provenendo da Bristol assurge al livello di culto totale, sempre a proposito di quel discorsetto sull’immunità artistica di cui gode la band.
Novanta minuti esatti (e non poteva essere altrimenti, stasera la parola è un mantra) e una domanda: cosa rimarrà di questa (auto) celebrazione? Death or glory? Chi ha appena ricevuto il battesimo del suono naturalmente gongola estasiato e promuove lo show a pieni voti. E’ giusto e normale che sia così. Per quelli invece “che non era la prima volta”, la serena considerazione che il meglio è già stato dato.
I Massive Attack si sono normalizzati, appaiono quasi rassicuranti, e quegli esercizi di stile un po' manieristici che hanno contraddistinto le ultime fatiche discografiche si sono via via estesi anche on stage, lentamente, tour dopo tour, ma inesorabilmente. Da eccelsi professionisti quali sono, gestiscono al meglio il crepuscolo di una carriera irripetibile. E non è solo questione di setlist dove pure all’appello mancano tanti gioielli sacrificati sull’altare di "Mezzanine". La fiamma, che poi è il loro simbolo per eccellenza, è sempre più piccola, è rimasto poco di apocalittico e l’epica sonora di un tempo lascia il posto a una performance diligente e composta, i subwoofer non esplodono più, ma anche questa è una condizione umana.
Continueremo a volergli un mondo di bene, e loro ci perdoneranno per qualche critica eccessiva giustificata da troppo amore. E’ che nella scatola dei ricordi, che presto sarà riposta nel cassetto, insieme alle canzoni e alle fotografie c’è rimasto imprigionato pure il cuore.