Give me that old-time religion
It's good enough for me
A volte basta una consonante per fare la differenza. Quella "j" storpia e storpiante ci proietta dall'arcaico al primitivo in un battito di ciglia intorpidite. Nell'America di Arrington De Dionyso la Mayflower non è mai sbarcata. La sua è una visione del mondo letteralmente preistorica, qualcosa che precede qualsiasi tradizione consolidata. Nervosi sì, ma mai urbani: lo sghembo infantilismo degli
Old Time Relijun non è il broncio di un viziatello di città, ma la capriola nel letame del figlio di un allevatore di maiali, allergico alle gallerie d'arte che pure non si esime dallo svaligiare. Il fatto che l'ultimissimo "
Musicking" sia intercambiabile con i predecessori è la sublime conferma di questa teoria: in certi campi, l'ostinazione è una qualità.
Lo stendardo con quel logo stile
Daniel Johnston, mezzo
fauve mezzo
naif. Il palco spoglio come il funerale di un pezzente. Il
dj set che evoca armoniche
morriconiane in un deserto astratto. Entra in scena un figuro vomitato dal cervello bruciato di Hunter S. Thompson o Terence McKenna, con tanto di camicia freak, stivali pittati e copricapo da
campesino messicano sotto pejote: De Dionyso (
nomen omen) è il messaggero incompreso di una civiltà che obbedisce ad altre regole, un uomo caduto sulla terra a faccia in giù e ben poco propenso a sollevare la testa.
Il segnale convenuto è uno sputo di sax
contorto, il carburante uno sciroppo allucinogeno che i tre si passano con solennità, l'obiettivo la carneficina composta che non ti aspetti: se la slide è
crispy manco fosse stata abbrustolita sulla corona solare e il contrabbasso sguscia losco come un serial killer in una notte vuota, la batteria tira diritta a mo' di metronomo di pietra.
Chi si auspicava l'ennesima scampagnata in bassa fedeltà, fesso era e fesso a maggior ragione rimane: gli Old Time Relijun marciano incollati dal loro stesso sudore, precisi come un'armata radiocomandata. E occhio a confondere quell'urlo a tutta ugola con lo strillo di un dilettante: per quanto sguaiato, il canto
dionysiaco non sgarra una nota e scorrazza fra buona parte delle tecniche vocali (dis)umane.
"Open your door/ Open your case/ Open your heart/ Open your lips": lascereste entrare uno che dallo spioncino pone queste premesse? "Pardes Rimmonim" è la cabala tradotta da
Jon Spencer. "Siamo tornati a casa, qui a Bologna!", gigioneggia con il suo italiano inspiegabilmente perfetto, poi riprende a strattonare la corde più ferrose cui un amplificatore abbia mai dato voce, condendo di gorgoglianti gargarismi tibetani la pestona "Tightest Cage", sgozzata come un caprone troppo sgraziato per essere offerto in sacrificio.
Ululata alla luna con l'estasi ebbra di un
Tim Buckley, "In The Crown Of Lost Light" è un tira-e-molla galoppante che azzarda una disco music
bluesy per caverne (platoniche?), le stesse da cui potrebbe affacciarsi l'ipnotico voodoo
Cave-iano di "Cold Water". E se il balzo felino di "Tigers In The Temple" lascia briglia sciolta all'indemoniato
frontman, il post-punk frollato di "Los Angeles" è un pigro rincorrersi di stacchi grattugiati.
"Siamo venuti dall’America", ci ricorda un messianico De Dionyso durante l'accordatura meno riuscita di sempre, approfittando per presentare il legno intellettuale di Aaron Hartman e i variopinti tamburi sfondati di Germaine Baca, orchestrina
roots che nessun pub ingaggerebbe. La loro sigla è il nichilismo garage di "King Of Nothing", trapanata da rullate che scoperchiano la scatola cranica, mentre nello
swamp di “I Know I'm Alive" la voce riacciuffa la scena, al crocevia luciferino che collega
Jim Morrison con
Jeffrey Lee Pierce.
È invece il fantasma di Howlin' Wolf in persona a possedere il cantante in "This Kettle Contains The Heart", per cedere il posto a un Ritchie Valens bombarolo nella doppietta ispanica "Adaga"/"Casino", con De Dionyso a suo agio nei panni del balordo di frontiera quanto del predicatore di strada à-la Allen Ginsberg.
"Sembrano gli anni 90: voi siete la nostra famiglia!". Sarà, ma la
trance autistica della
crampsiana "Vampire Victim" rinsalda ben poco il focolare domestico (anche se quei ruggiti da
shouter spolmonato non sfigurerebbero in qualche catastrofico pasto intergenerazionale). Nuovo fallimentare tentativo di accordatura, spazzato via dalla scarica di tuoni che ci precipita dentro "Archaeopteryx Claw", con incluso un tutorial di
throat singing abissale. La pioggia acida si cristallizza nelle penetranti stalattiti di "Johnny Appleseed", che in un contesto più
synthetico potrebbe essere cantata da
Alan Vega, laddove "Dragon Juice" ci schiaffeggia a pesci in faccia tra un assolo cubista e un martellante finale alla "
Gloria".
Introdotta da un sensuale contrabbasso noir, la psicotica "Siren" viene parassitata da un monologo in italiano che, sorpresa, atterra in una delirante citazione da "A tratti" dei
Csi. Un nonnulla, comunque, rispetto alla raffica tribale di "War Is Over", in cui l'apocalisse antimilitarista dei
Red Crayola si condensa negli scatarri di clarinetto basso espettorati dal leader. Dopo cotanto sfacelo, sarebbe davvero il caso di ammutolire tutti i conflitti in corso - o quantomeno questo concerto.
"Di solito ci fanno staccare presto, ma in Italia possiamo suonare fino alla mattina". Eppure, i bis sono supersonici: il punkabilly di "Mirror" e il funk
beefheartiano di "Lion Tamer", tanto per mandarci a letto con pochissima voglia di dormire.
Nessun estratto dal pur ottimo "Musicking": strano modo di promuovere un nuovo album, ma di cose normali nel corso della serata se sono intraviste poche. A scanso di equivoci, va bene così: datecene ancora, di questa religione dei tempi antichi.